DOI 10.35948/2532-9006/2021.5487
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Su diritto e dritto sono giunte molte domande. Distinguiamo quelle su diritto sostantivo, nel significato di ‘prerogativa, legittima aspettativa di qualcosa’, che si lega al valore di diritto come ‘legge, giustizia ecc.’, da quelle su dritto (o anche diritto, senza sincope) aggettivo e avverbio nel significato di ‘diretto, lineare, senza intralci’, anche se ben si sa che i due significati sono storicamente sovrapposti e si intersecano pure con quello di ‘destra’ (la mano directam, la dritta), cioè di ‘buona, migliore dell’altra’, tanto che la celebre “diritta via” non è solo quella senza deviazioni (diritta) e quindi giusta, ma anche, volendo, quella (a) destra*.
* Per la stretta parentela etimologica tra queste parole e i loro significati si veda la ricca scheda del RIF sotto regere, dirigere, guidare in linea retta.
Cominciamo dunque da diritto sostantivo e dalle sue reggenze: di o a + nome chiedono i lettori e di o a + verbo?
Bisogna precisare che il nome o la frase dopo la preposizione (“diritto di voto, diritto alla pensione, diritto di parlare, diritto a sedersi”) hanno valore di complemento del diritto, a sua volta oggetto di un verbo (perlopiù avere) e veicolo del senso suddetto di ‘facoltà, giusta attesa’ ecc.
Diverso, e qui meno rilevante, è il caso, posto da un lettore, in cui la parola che segue ha valore di soggetto del diritto, come in diritto del minore o diritto di famiglia e il significato di diritto è quello di ‘insieme di norme, regole di un certo comparto della società’. Famiglia è preceduta dalla preposizione semplice (di) che ha valore più ampio di quella articolata (“della famiglia”), ma il costrutto e il senso non sono diversi da quelli “di diritto del lavoro, diritto della navigazione”, cioè le norme proprie dei rapporti di lavoro o del traffico delle navi o appunto dei rapporti familiari. Decisivo è osservare che in questa funzione di soggetto (è la famiglia, è la navigazione ad essere regolata dal diritto) della sua reggenza, diritto non accetta di norma di dipendere da avere e una frase come “Gianni ha diritto di famiglia” ha un senso ben diverso (‘di avere una famiglia’) da “Gianni studia diritto di famiglia”.
Un’altra precisazione è utile. Il costrutto che studiamo, diritto + preposizione + nome o + proposizione, dipende da verbi come pretendere, chiedere, ecc. e, soprattutto, come si vede dalle domande dei lettori, avere. Uno “ha diritto alla pensione, di voto, di votare” e qualche volta anche “a entrare”.
La domanda sulla reggenza preferibile è di vecchia data e in genere si riprende una saggia risposta di Luciano Satta che fissava di per introdurre il verbo, di per introdurre nome senza articolo (“avere diritto di parola, di passaggio”) e a + nome con articolo determinativo o indeterminativo (“avere diritto alla buona uscita, a un posto, a tutta una serie di benefici…”). La risposta è valida ancora oggi; ma è opportuno rifletterci un po’ sopra e magari anche ammettere, sia pure senza troppo entusiasmo, anche a per introdurre il verbo, facendo caso alle situazioni in cui è abbastanza comune.
Stante il GDLI, se ho visto bene, la prima attestazione di avere diritto di nel senso attuale risale al Magalotti nel Seicento (“niuno avrebbe diritto di rigettare tale origine senza note d’intollerabile temerità”) e resta da allora in servizio senza flessioni. La Crusca lo usa nella 4a edizione per definire padronato (“Ragione ch’ha sopra i beneficj ecclesiastici, diritto di potergli conferire”). Ma anche il costrutto con a, pur molto meno frequente, comincia a spuntare qua e là abbastanza presto nella documentazione scritta. Certo, così meno frequente (ad esempio nel corpus PTLLIN novecentesco, 6 casi di diritto + a + verbo, contro centinaia con di) da risultare sconsigliabile. Mi atterrei a quanto scriveva alla voce diritto s.m. il grande Tommaseo nel suo Dizionario, precisando che l’inf. di Tommaseo significa per noi il gerundio (“ius loquendi”):
Col Di e l’Inf. avevano anche Jus i Lat. T. Diritto di fare, di dire; di non fare, di tacere; d’essere ubbidito, rispettato; di non essere seccato. Coll’A e l’Inf. men com. T. Diritto a rispondere, a farsi sentire. Dice un po’ meno che Di.
Per altro la reggenza di a è abbastanza comune quando il verbo che segue ha diatesi passiva (“ciascuno ha il diritto a essere capito”, “il malato ha diritto a essere curato”, “si ha diritto a essere informati”), fermo restando (per quel che vale un calcolo molto approssimativo sui dati di Google) che diritto ed essere sono più spesso comunque legati da di, specie se il verbo non è in funzione di ausiliare (“diritto di essere genitori, di essere bambini”).
Il vasto corpus CORIS conferma queste tendenze. La reggenza dell’infinito con di prevale di gran lunga, ma quella con a, se non è frequente, non è neppure assente in tutti i sottotipi di corpora, sia letterari, che saggistici che giuridici (“il contribuente ha comunque diritto a ritornare in possesso delle somme versate”, scrive la Cassazione nel 1997). Dunque usiamo di ma non stracciamoci le vesti per a, specie se segue passivo.
Quando segue nome, la regola di Satta è assai rispettata. La reggenza di + articolo è quasi limitata a funzioni soggettive del nome, come, lo abbiamo visto, “diritto del lavoro, del mercato”, dove diritto ha un senso diverso da quello che qui ci interessa e non è in genere introdotto da avere o verbi simili. Stessa cosa per la reggenza con della (“diritto della navigazione”), dei (“diritto dei consumatori, dei trasporti”) o delle (“diritto delle assicurazioni”). Ergo, di introduce sempre nomi che dipendono in funzione di complemento da diritto nel senso di ‘prerogativa, facoltà’, non accompagnati da articolo. Se c’è l’articolo, la preposizione è sempre a (“diritto alla salute, al mantenimento, ai contributi, alle ferie”).
Qualche sfumatura di significato. Tra “i soggetti hanno diritto di voto” e “diritto al voto” la differenza sta nel fatto che, nel secondo caso, ci si attende una specificazione, una precisazione (ad esempio, hanno diritto al voto nelle assemblee sindacali delle loro categorie). Il diritto di voto è un diritto più vasto e generico di quello al voto.
La diversa distribuzione delle preposizioni davanti al nome consente di rispondere anche a chi chiede se si dice “ci ho diritto” (= a questa cosa) o “ne ho diritto” (= di questa cosa), con ci in funzione di pronome dimostrativo e ne di pronome personale, entrambi con valore neutro. Se badiamo alla differenza tra “ci penso” (a questa cosa) e “ne parlo” (di questa cosa), notiamo che, se vale la regola che, in assenza di articolo, il nome retto da diritto è introdotto da di, si deve usare “ne ho diritto” (anche a non considerare il vantaggio di evitare il rischio di essere rimproverati per usi popolareschi di ci).
Veniamo ora alle domande, quasi tutte provenienti dalla Toscana: “Andare dritto o diritto oppure a dritto, a diritto”? Qui il senso di diritto o, più frequentemente, dritto è quello avverbiale di ‘in linea retta, direttamente, senza deviazioni’ ecc. È un caso in cui l’italiano e il toscano divergono. A dritto, nel senso dell’italiano odierno dritto/diritto in funzione di avverbio, è dell’italiano regionale toscano. Va detto che è uso antico, attestato dall’OVI e dal TLIO già nel Trecento (Jacopo da Cessole: “può andare o al diritto o al manco filare per diritto”). Del resto, anche l’altro valore e funzione di diritto (quelli di giustizia, legge, regola, potestà ecc.) erano anticamente dati spesso in locuzioni avverbiali con a, di cui è rimasto traccia oggi quasi solo in a buon diritto (Dino Compagni, Cronica: “da rettori erano spesso condannati e male trattati, a diritto e a torto”; Brunetto Latini: “le parole che ssi mettono inn una lettera dittata debbono essere messe a dritto, sicché s’accordi il nome col verbo”). L’italiano di oggi usa diritto o dritto come avverbio senza bisogno della preposizione, che pure stabilisce, nella lingua regionale toscana e nell’italiano antico, una simmetria tra “andare a destra”, “andare a sinistra” e, appunto, “andare a dritto”. Ma la lingua nazionale non la ritiene indispensabile e relega “andare a dritto” in usi regionali parlati o che simulano il parlato locale e sconsiglia questa locuzione nella scrittura media e colta.