DOI 10.35948/2532-9006/2022.23810
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Rispondiamo ad alcuni quesiti rivolti all’Accademia a proposito dell’origine delle voci meridionali quatraro, quatrara, quatrano, quatrana, usate per indicare il ‘ragazzo’ e la ‘ragazza’.
Bòlzera che chiangesse lo quatraro
Questo antico endecasillabo, appartenente a un perduto componimento di area meridionale, è citato da Dante, nel primo libro del De vulgari eloquentia, per mostrare l’“asprezza” del volgare “apulo”, il quale – come del resto tutti gli altri volgari italici passati in rassegna (e via via bocciati) da Dante – non poteva perciò aspirare al titolo di “volgare illustre” (ovvero di lingua letteraria comune a tutta l’Italia):
Apuli quoque vel sui acerbitate vel finitimorum suorum contiguitate, qui Romani et Marchiani sunt, turpiter barbarizant: dicunt enim Bòlzera che chiangesse lo quatraro. [Anche gli apuli, o per un’asprezza tutta loro o per la contiguità con i vicini, che sono i romani e i marchigiani, parlano in modo orribilmente barbaro: dicono infatti Bòlzera che chiangesse lo quatraro] (De vulgari eloquentia, I, XII, 7)
Va notato che l’“Apulia” a cui si riferisce Dante non corrisponde solo all’odierna Puglia, ma all’intero Mezzogiorno continentale. Seguendo il criterio dello spartiacque appenninico, egli distingue gli “apuli” del lato destro (ovvero il versante tirrenico, secondo la rappresentazione geografica del tempo) da quelli del lato sinistro (versante adriatico); ciononostante, anche per scarsità di informazione sulle parlate locali, riporta un’unica frase esemplare per l’intero Regno di Napoli (vedi Mengaldo 1970; De Blasi 2021).
Il verso citato da Dante per caratterizzare il volgare degli “apuli”, Bòlzera che chiangesse lo quatraro, traducibile con ‘vorrei che il ragazzo piangesse’, mostra tratti linguistici genericamente meridionali: 1. la forma verbale bòlzera, da un analogico volseram, con betacismo iniziale (v > b) e passaggio ‑ls‑ > ‑lz‑, è un tipo di condizionale derivato dal piuccheperfetto indicativo latino (da notare che la forma bolsera compare nell’Epistola napoletana del Boccaccio); 2. chiangesse, che presenta il tipico sviluppo meridionale di pl latino in [kj] (come in chiù da plus, chiano da planum); 3. il sostantivo quatraro, per l’appunto, che conosce tuttora una relativa vitalità in parte dei dialetti meridionali.
Anche il femminile quatrara è documentato fin dal Medioevo e più precisamente in un frammento lirico volgare salentino in grafia greca databile tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, dove si legge: "λα ρουφιάνα κουατραρα la ruf(f)iana quatrara" (vedi De Angelis 2010; Maggiore 2018, pp. 405‑407). Il passo in questione è interessato da una lacuna che non permette di precisare il significato del termine quatrara, anche se il senso di ‘ragazza’ si confà senz’altro al contesto (si tratta di un canto che ha come tema l’amore deluso).
La più antica attestazione di quatraro sembra però rimontare al X secolo: in un documento latino del 979 contenuto nel Codex diplomaticus Cavensis (una raccolta di documenti custoditi nella Badia benedettina di Cava de’ Tirreni, risalenti al periodo longobardo e normanno del principato di Salerno) si parla di un certo “filius [...] Ursi qui vocatur quatraru” (vedi De Bartholomaeis 1900, p. 353). Qui quatraro è evidentemente un soprannome, ma non è possibile stabilirne il valore semantico.
Sulla scorta di queste prime testimonianze, si può ipotizzare che, in epoca antica, il tipo lessicale quatraro conoscesse un’ampia diffusione nell’Italia meridionale, sicuramente maggiore di quella odierna, che si concentra invece sostanzialmente in due aree: quella abruzzese‑molisana e quella calabro‑lucana, con incursioni nel Basso Lazio, in Campania, Puglia e Sicilia. È verosimile che a relegare l’uso di quatraro e termini affini in zone dialettali periferiche del Mezzogiorno continentale sia stata la progressiva diffusione dal napoletano dell’angioinismo guaglione, che da un significato originario di ‘lavoratore, coltivatore salariato’ (per lo più giovane) è poi passato a denominare in maniera generica il ‘ragazzo’ (vedi Fanciullo 1991).
Bisogna considerare che il latino non possedeva un termine specifico per distinguere un ragazzo da un bambino: la parola puer poteva infatti indicare tanto l’uno che l’altro. Le lingue neolatine hanno invece ben distinto questi due concetti, anche da un punto di vista lessicale, per ragioni che vanno ricercate nelle profonde trasformazioni sociali, dell’organizzazione familiare e dell’idea stessa di famiglia, che sono avvenute nel passaggio dal mondo classico a quello medievale. La maggioranza dei nomi usati per indicare il ‘ragazzo’ e la ‘ragazza’ – che sono tantissimi nelle lingue romanze (Pauli 1919 ne registra più di 2000) – ha in origine una motivazione semantica di natura metaforica (vedi Loporcaro 2002; Raimondi 2018). Un tipo di metafora frequente è quello che porta a promuovere a denominazione del ragazzo l’originaria designazione di una funzione sociale o di una mansione da esso svolta come nel caso appunto di guaglione o anche della stessa parola italiana ragazzo (dall’arabo raqqaz ‘fattorino, galoppino’), che in origine indicava una persona addetta a mansioni umili, di solito svolte in giovane età, come quella di servo, di mozzo di stalla, di sguattero, di corriere o di valletto. Un altro tipo di metafora frequente è quello che porta a derivare il nome del ragazzo dalla designazione di chi è contraddistinto da un qualche particolare dell’aspetto fisico: così, ad esempio, il veneto e lombardo toso, il siciliano caruso e lo spagnolo muchacho hanno la loro motivazione nell’usanza della rasatura del capo per i giovani.
Per un confronto fra l’area di diffusione del tipo quatraro e quella molto più vasta del tipo guaglione si veda la carta 45 dell’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS), con l’avvertenza che l’opera fotografa una realtà linguistica che risale alla prima metà del secolo scorso e che oggi è molto diversa.
L’attuale vitalità in Abruzzo, in particolare nell’area occidentale e interna della regione, di termini come quatrano, quatrana, quatralə (varianti che si spiegano più per fenomeni di natura morfologica suffissale che fonologica) è testimoniata anche da una campagna pubblicitaria della Ferrero, che, nel 2015, avvalendosi della collaborazione di linguisti e dialettologi, ha selezionato 135 espressioni dialettali, tipiche di sedici diverse aree linguistiche italiane, per realizzare altrettante etichette adesive, poi ribattezzate “dialettichette”, da applicare sui vasetti di Nutella. Una di queste dialettichette riporta l’espressione ué quatrà! ‘ehi, ragazzo!’, che, come spiega il Manuale linguistico dell’entusiasmo realizzato a corredo dell’iniziativa dalla stessa Ferrero, è “tipica dell’Aquilano, ma non solo”. Nel vicino Molise sono in uso le forme quatrarə, ‑anə (vedi DAM, pp. 1637‑1638, che registra la presenza nei dialetti abruzzesi e molisani anche di vari alterati, come quatragnòttə e quatragnòzzə ‘ragazzo o ragazza grassottello/‑a e tozzo/‑a’, e derivati come quatralatə o quatranatə ‘ragazzata; cattiveria dei ragazzi’ e quatralégnə ‘fanciullezza, infanzia’).
In Campania, dove dominano guaglione e guagliona, l’uso del tipo lessicale in questione sembra oggi limitato al femminile quatrana e riguardare solo alcune zone, in particolare dell’Irpinia, del beneventano e del casertano (a Maddaloni, ad esempio, l’uso di quatrana sopravvive quasi esclusivamente tra i parlanti anziani e soprattutto con una funzione che potremmo definire enfatica). Nell’area napoletana (città e provincia) esiste il diminutivo quatranella per indicare massimamente una ragazza, o anche una ragazzina, una bambina, “corta e chiatta”, cioè ‘bassa e grassoccia’.
Anche per il passato, o per lo meno per l’epoca moderna, il dialetto della città di Napoli non sembra aver conosciuto l’uso di quatrano e quatrana per ‘ragazzo’ e ‘ragazza’, ma semmai quello della forma femminile per ‘campagnola, contadina’. Nello Sciatamone ’mpetrato di Giovanni D’Antonio (1722ca.), Cerere, antica divinità dei campi, è chiamata scherzosamente “quatranuzza dea che spica l’erva”. E anche nel Basso Cilento quatrana è usato per ‘contadina’ oppure per ‘donna pienotta’ (vedi Vallone 2004, s. v. quatrana).
Da notare che nel Vocabolario napolitano‑toscano domestico di arti e mestieri (1873) di Raffaele D’Ambra, la voce quatrana “Forese, Villana” (esemplificata con un passo di una canzone popolare: “Veditela, veditela; mo vene / Porta lo panno russo, la quatrana / E tene no calore int’a le bene / Che no lo stuta d’acqua na fontana”) è marcata come “calabrese”. Questo vuol dire che nell’Ottocento la parola quatrana non era sentita come propria del dialetto napoletano cittadino.
Per spiegare il non facile passaggio semantico da ‘ragazza’ a ‘campagnola’ si può partire dall’osservazione che al tempo del Regno di Napoli ciò che proveniva dalla Calabria assumeva spesso per i napoletani le connotazioni di ‘rozzo, villano, campagnolo’, secondo un ben noto atteggiamento sociolinguistico che oppone città e campagna, capitale e provincia (vedi anche quello che scrive Emmanuele Rocco nel suo Vocabolario del dialetto napolitano [1891] a proposito dell’etnonimo calavrese: “Si dava questa denominazione a tutti gli studenti di provincia che venivano in Napoli, e poi si estese a tutti coloro che nei modi mostravansi rustici e zotici, e talvolta incivili e scostumati, ed anche a quelli che si fanno gabbare dai venditori”).
I vocabolari napoletani registrano anche una forma quasciano – che è molto probabilmente una variante di quatrano – usata da autori dialettali del Settecento col significato di ‘campagnolo’ e al femminile anche per ‘donna ignorante, rozza’ (vedi Galiani 1789, s. vv. quasciano e quasciana; Rocco 2018, s. v. quasciano). Il diminutivo quascianèdda è in uso a Procida col senso di ‘bambina o ragazzotta paffuta’ (vedi Parascandola 1976, s. v. quascianèdda).
Per quanto riguarda l’area lucano‑calabrese, in Basilicata troviamo, nella parte settentrionale della regione, quatràlə per ‘ragazzo’, anche quadràrə ‘ragazzo tarchiato’ a Muro Lucano; poi quatràrə ‘ragazzo’, ‘ragazza’ a Matera; quindi quatrašcón ‘il giovanotto’ nella parte ionica (vedi Bigalke 1980, pp. 420, 427). In Calabria è diffuso sia il tipo cotraru/‑a, sia quello quatraru/‑a ‘ragazzo/‑a’, in certe località anche ‘bambino’ e, per estensione, ‘fidanzato’ o ‘amante’ (vedi NDC, pp. 196, 563, anche per i numerosi alterati e derivati, come cotraranza o quatraranza ‘gioventù, prima giovinezza’, cotraricchiu ‘bambino’, cotraschiuni ‘figliolastro, giovinetto, celibe’, quatràcchia ‘vezzeggiativo per ragazza’, quatraràglia ‘ragazzaglia’, che denotano la vitalità di questa famiglia lessicale in varie località della Calabria).
Al di là dello Stretto, dove le principali denominazioni del ‘ragazzo’ sono carusu e picciottu, rileviamo l’uso aggettivale di quaṭṛana per ‘bassa e pienotta’ a Sant’Alfio e di quaṭṛïanu per ‘basso e tarchiato; tozzo’ a Mazara del Vallo, insieme a quello di quaṭṛarottu per ‘molto grasso (detto di ragazzo)’ a Bronte (vedi VS, pp. 1055‑1056). Da notare che nell’Etymologicum siculum (1759) di Giuseppe Vinci, così come nel dizionario napoletano di D’Ambra menzionato sopra, si riconduce quatrara all’uso dialettale calabrese: “Quatrara, ita Calabri vocant puellam”.
Il Vocabolario dei dialetti salentini di Gerhard Rohlfs registra quatrara con la definizione di ‘giovinetta’ e quatraru di ‘giovanotto forte’, ma si tratta di voci ricavate da un’opera teatrale settecentesca scritta nel dialetto di Francavilla Fontana. Rohlfs segnala inoltre la forma quatrère, a Martina Franca, con l’accezione di ‘ragazzo che lavora sotto un muratore o sotto un contadino’ (vedi VDS, p. 524); mentre a Molfetta quatrale indicava un tempo la ‘donna di servizio’ (il termine è poi rimasto nel modo di dire émòere de quatrale picche me dè é picche vale ‘amore di servitù poco mi dà e poco vale’ [vedi Scardigno 1963, s. v. quatrale]). Questi ultimi significati si sono sviluppati da quelli più generali di ‘ragazzo’ e ‘ragazza’: si tratta infatti di mansioni che sono o erano svolte prevalentemente da giovani.
Venendo ora a trattare dell’origine di questi termini, va subito detto che la loro etimologia è dubbia. Anche eliminando le (non poche) proposte etimologiche prive di fondamento, come, ad esempio, quella che li vorrebbe derivati dallo spagnolo quatro años ‘quattro anni’ (impossibile – sebbene trovi un certo credito in rete – oltre che per la fonetica, per il fatto che, come si è visto all’inizio, le prime attestazioni di quatraro/‑a sono precedenti alla conquista aragonese del Regno di Napoli), le opinioni degli studiosi al riguardo restano comunque numerose e discordi. Elenchiamo qui le principali:
1) Da un latino quartarius nel senso supposto di ‘il quartogenito’, dapprima come nome proprio, sul modello di Quintilius, Septimius, Octavius (De Bartholomaeis 1900); l’ipotesi è ripresa da Gerhard Rohlfs, che, stranamente, nel NDC propone due etimi diversi per le forme cotraru e quatraru, quando si tratta chiaramente di due varianti fonetiche facilmente spiegabili in Calabria, dove si hanno coppie del tipo quaddara/coddara ‘caldaia’; tale fenomeno, che è tipico del calabrese meridionale, è imputato dallo stesso Rohlfs a influssi greci.
2) Da un latino (ricostruito) *quinquatrarius, vale a dire ‘colui che partecipa alla festa romana delle quinquatrus’: “che aveva luogo il 19 marzo e si ripeteva in ottobre ed era dedicata alla consacrazione delle armi, fu soprattutto una festa di ragazzi, perché con essa era legato il lusus Troiae, danza originariamente a cavallo, eseguita da ragazzi di nobile famiglia” (Pagliaro 1950).
3) Dal latino quadrimus ‘di quattro anni (detto di animali, bambini)’, con cambio di suffisso (Alessio 1976).
4) Da un latino *quadrarius ‘ragazzo quadrato, cioè robusto’ (NDC, p. 563; Loporcaro 2002, p. 68).
5) Dalle basi latine quadrum o quadra nel senso di ‘la quarta parte (di qualcosa)’, quindi ‘pezzo di qualcosa (in particolare di pane), minuzzolo’ (Maccarone 1924, poi rielaborata da Silvestri 1977).
6) Dal longobardo wahtari ‘guardiano’ (da cui il tedesco Wachter ‘custode’ e l’italiano sguattero), con un passaggio semantico simile a quello che si ritrova in area toscana per buttero ‘mandriano’ > ‘ragazzo’; le forme dialettali meridionali andrebbero interpretate come derivati suffissali “liberi” di una base *quatt(e)ro (Raimondi 2018).
Diciamo subito che, nonostante l’autorevolezza degli studiosi che le hanno formulate, le prime tre ipotesi appaiono molto poco plausibili.
La 1. (da *quartarius ‘il quartogenito’) presenta notevoli problemi: primo, si noti la diversità del suffisso rispetto a Quintilius, Septimius, Octavius; secondo, bisognerebbe spiegare perché nell’Italia meridionale antica proprio il quartogenito sia stato destinato a ricoprire il ruolo di ‘ragazzo’. Va detto che in latino veniva chiamato quartarius un ‘mulattiere mercenario’, perché riceveva un quarto della paga ordinaria: si potrebbe supporre una trafila semantica come quella che abbiamo illustrato sopra per guaglione e ragazzo, ma ci pare difficile, anche perché Sesto Pompeo Festo, grammatico latino del II‑III secolo d.C., testimonia che ai suoi tempi quest’uso di quartarius era già desueto. Con quartarius si indicava inoltre ‘la quarta parte di una misura di capacità’, in particolare del sextarius (quest’ultimo corrispondeva a circa mezzo litro, ovvero a un sesto del congius, quindi il quartarius equivaleva a 0,136 litri). Su quest’ultimo uso di quartarius torneremo più avanti.
La 2. (da *quinquatrarius) e la 3. (da quadrimus) presentano una serie di problemi di ordine formale e semantico non di poco conto; per quanto riguarda la 2., inoltre, non abbiamo nessuna prova del fatto che il lusus Troiae abbia goduto di un maggiore favore e di una più lunga sopravvivenza nell’Italia centro‑meridionale, tali da giustificare la presenza di continuatori di un supposto (quin)quatrarius solo in quest’area.
Riguardo all’ipotesi 6., va riconosciuto che ha dalla sua il parallelo con alcune denominazioni dialettali del ragazzo (uàtar, vàtar), che si ritrovano in Val d’Ossola e Ticino; denominazioni che già Carlo Salvioni (1897, p. 1506) proponeva di considerare come forme locali del longobardo wahtari. Tuttavia, anche questa proposta lascia insoddisfatti, dal momento che va spiegata e motivata l’aggiunta (tutt’altro che pacifica) del suffisso ‑arius (o ‑anus) alla supposta base *quatt(e)ro (da wahtari), così da avere quatràro (o quatràno); cosa che non è accaduta invece alla parola sguàttero, né ai termini dialettali uàtar e vàtar (si noti la diversa posizione dell’accento rispetto a quatràro, ‑àno).
La base *quadrarius è quella a cui generalmente si accorda un maggior credito (il passaggio ‑dr‑ > ‑tr‑ è normale nell’Italia meridionale), anche se ci pare che difficilmente si possa partire da un significato di ‘ragazzo quadrato, cioè robusto’ (vedi ipotesi 4.): è vero che l’aggettivo latino quadratus esprimeva anche l’idea di ‘robustezza’ (con riferimento, tra le altre cose, alla statura), ma le voci meridionali citate sopra, quando non designano il ragazzo o la ragazza in maniera generica, denotano piuttosto caratteristiche quali la bassa statura e la rotondità (si veda in particolare la documentazione napoletana e siciliana).
C’è da considerare che il suffisso latino ‑arius formava derivati (aggettivi e sostantivi) esprimenti una relazione col nome che funge da base: ferrarius agg. ‘di ferro, relativo al ferro’, sost. ‘chi lavora il ferro’. Considerando quindi che X‑arius sta per ‘che ha a che fare con X’, una base latina compatibile è senz’altro quadrum o quadra nel senso di ‘la quarta parte di qualcosa’ (vedi ipotesi 5.), quindi quadrarius ‘del valore di una quarta parte’, che Silvestri (1977, p. 158) motiva così:
Siamo evidentemente nell’ambito delle denominazioni scherzose, dove il richiamo metaforico a nomi di recipienti, in cui sia contenuta l’idea di ‘quarta parte (di qualcosa)’ e magari al ‘pezzo di pane (come quarta parte della focaccia)’ si carica facilmente di allusioni che stabiliscono connessioni sinsemantiche tra certi oggetti e la ‘piccolezza’, eventualmente la ‘rotondità’ del bambino. [...] Vogliamo invece mostrare, a conclusione del nostro discorso, come, a parer nostro, nella latinità tarda dell’Italia meridionale si siano potute porre le premesse formali del tipo lessicale qui esaminato. Si tratta, in definitiva, di istituire una vasta proporzione nel modo seguente: come dal lat. quădrāns, ‑antis m. ‘quarta parte [...]’ si possono trarre i derivati quădrantal, ‑ălis ‘misura di capacità, cubo o dado, (qualcosa che vale) un quarto’ o quadrantarius, ‑a, ‑um, ‘che vale la quarta parte (di qualcosa), che costa un quadrante’ così da quadrum o quadra possiamo supporre che nella tarda latinità siano state tratte forme come *quadralis, *quadrarius (e *quadranus), tutte col valore semantico generico ‘del valore di una quarta parte’, ma usate, nello spazio geolinguistico da noi esaminato, per designare scherzosamente il ‘ragazzo piccoletto (e rotondetto)’.
L’argomentazione è solida, ma restano margini di incertezza per quanto concerne la motivazione semantica, di natura metaforica, che sarebbe alla base del passaggio dal significato di ‘del valore di una quarta parte’, ‘che è la quarta parte’ (di che cosa?) a quello di ‘ragazzo’.
All’origine della metafora potrebbe esservi in effetti il significato di ‘quarta parte di un’unità di misura di capacità’: la possibilità di un passaggio semantico di questo tipo è provata dal napoletano quartarola, parola usata in passato per indicare “la quarta parte della quarantesima parte del tomolo” e, per traslato, una “giovine di bassa statura” (vedi Rocco 2018, s. v. quartarola). Anche il dialetto procidano ha quartaróla nel senso di ‘giovane donna rotonda e pienotta’ e, prim’ancora, di ‘recipiente di capacità pari ad un quarto di barile’ (vedi Parascandola 1976, s. v. quartaróla).
È verosimile, quindi, che il passaggio metaforico a ‘ragazzo/‑a’ non sia avvenuto direttamente dal significato di ‘unità di misura’ (piccola), ma – come suggerisce lo stesso Silvestri – attraverso il recipiente usato per contenere tale unità di misura e che ne ha preso il nome per metonimia. Ci riferiamo in particolare a quei recipienti di forma panciuta, come la giara, l’orcio e altri simili, che erano di uso comune in epoca antica, i quali possono essersi prestati bene a denominare, per traslato scherzoso, il ragazzo tozzo o la ragazza piccina e rotondetta, attributi, questi di ‘rotondità’, ‘paffutezza’ e ‘piccolezza’, di cui, come si è visto sopra, si serbano ancora tracce in alcuni dialetti meridionali, in particolare laddove sono termini diversi da quatraro, quatrara, quatrano, quatrana, a indicare genericamente il ragazzo e la ragazza. L’ampio studio di Pauli sulle denominazioni romanze del bambino e del ragazzo mostra alcuni casi proprio di metafora ‘recipiente’ > ‘ragazzo (grassoccio)’, come, ad esempio, botàsc in Valtellina e a Livigno o boudoli (propriamente bout d’òli) in Linguadoca (vedi Pauli 1919, pp. 285‑287).
Se le cose stessero così, potrebbero tornare in gioco anche i derivati suffissali di quartus, come quartarius (che, come abbiamo detto prima, indicava la quarta parte di una misura di capacità).
Vale la pena di notare che, nei dialetti meridionali, è ben presente il tipo lessicale quartara, il quale in origine indicava una ‘misura di capacità per liquidi e aridi’ a lungo usata (seppur con valori diversi) in varie località dell’Italia meridionale e insulare prima dell’adozione del sistema metrico decimale, ma con cui erano e sono tuttora chiamati anche vari tipi di recipienti aventi tale capienza: si vedano, ad esempio, il calabrese cortara o quartara ‘brocca, anfora di terracotta (equivalente in misura alla quarta parte di un barile)’ (NDC, s.vv. cortara e quartara) e il siciliano quartara, che, oltre a indicare una caratteristica ‘brocca panciuta e a collo largo’ (che può essere variamente decorata e fungere da strumento musicale), dà il nome anche ad altri recipienti di terracotta o di metallo, di capacità variabile secondo le località, i quali in passato si adoperavano anche per la misurazione del mosto o del vino (VS, s. v. quartara); si confrontino, inoltre, nel DAM, le voci abruzzesi (anche per il cambio di suffisso) quartarə femm., con la variante metatetica quatrarə (interessante anche perché antica), quartalə, quartanə, come nomi di vari tipi di recipienti di terracotta.
Il problema della derivazione di quatraro, quatrara e fome affini da quartus + arius, ‑aria, ecc., sta nel fatto che non è facile spiegare una così diffusa metatesi del gruppo consonantico ‑rt‑, a meno che le forme e l’accezione traslata in questione non siano nate in un punto preciso e da questo si siano poi irradiate.
Come si vede, siamo in ogni caso nel campo delle ipotesi, e dunque – non ce ne vogliano i lettori – preferiamo, allo stato attuale dell’arte, dichiarare ancora incerta l’etimologia di quatraro, sebbene le basi derivate da quadra o quartus (forse incrociatesi) col senso di ‘un quarto di una misura’ e il processo metaforico descritto da ultimo ci sembrino le proposte più plausibili.
Nota bibliografica: