DOI 10.35948/2532-9006/2022.25867
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Lo scorso 31 ottobre Andrea Dardi se n’è andato. A metà luglio era entrato in ospedale per un intervento che non si annunciava preoccupante. Speravamo tutti di rivederlo presto a casa a riprendere il lavoro interrotto, ma una serie di complicazioni e una degenza prolungata per più di tre mesi, che alla fine lo aveva prostrato, gli sono state fatali.
Dato che non amava i ritrovi e la mondanità, e ancor meno partecipare a convegni, non erano molti coloro che lo conoscevano di persona. Ma chi lo aveva incontrato anche solo di sfuggita è sempre rimasto colpito dalla vivacità del suo ingegno e dalla sua sincera cortesia. Al di là del suo abito schivo e riservato, aveva un animo nobile e generoso ed era sempre disponibile a condividere con gli altri la sua sterminata cultura, come hanno potuto sperimentare i suoi studenti, gli amici e quanti, anche in modo occasionale, gli si rivolgevano.
A lui, io stesso, devo moltissimo. Mentre non mi smovevo dalle affollate biblioteche cittadine, mi fece conoscere quella ariosa e invitante della Crusca, con il comprensivo e gentilissimo signor Alvaro Mari che ci porgeva i libri come fossero reliquie, Severina Parodi perennemente immersa negli scartafacci e in una nuvola di fumo, le affabili conversazioni intavolate con lui dagli amici che vi lavoravano, come il melanconico Piero Esperti, l’affascinante Anna Benedetti, l’espansivo e brillante Mahmoud Salem Elsheikh.
Fu il suo contagioso entusiasmo, e un po’ anche il suo spirito energico e attivo, a coinvolgermi nella ricerca linguistica, alla quale, allora, non pensavo nemmeno lontanamente. Dopo che nel 1979 Giovanni Nencioni lo aveva invitato a collaborare alla nuova rivista dell’Accademia, gli “Studi di lessicografia italiana” (e infatti vi pubblicò subito un ampio saggio di Nuove datazioni di tecnicismi sei-settecenteschi), Dardi cercò di indurre anche me a far qualcosa per quella promettente testata, che tuttavia consideravo troppo in alto per i miei imparaticci.
La Crusca di allora lui la conosceva bene: l’aveva frequentata dai tempi di Bruno Migliorini e di Aldo Duro, come anche Lucia De Anna che era stata impiegata, sempre da Migliorini, negli spogli per il progettato vocabolario e che, nel 1970, sarebbe diventata sua moglie. Nato a Firenze il 21 giugno 1942, Dardi aveva studiato alla Facoltà di Lettere prima della rivoluzione del Sessantotto, con maestri come Garin e Cantimori, Contini e Longhi, Devoto e Ronconi. Avrebbe voluto laurearsi in Storia dell’arte – e di pittura, musica e cinema è sempre stato assai appassionato –, ma avendo dovuto interrompere gli studi per un problema di salute, finì per chieder la tesi proprio a Migliorini, optando tuttavia non per l’argomento che questi gli aveva suggerito, bensì per qualcosa che sentiva più nelle sue corde: la parlata di Montale, il paese del Pistoiese da dove proveniva la sua famiglia. La tesi, Saggio sul lessico del dialetto montalese, gli richiese del tempo e fu discussa nel luglio 1972, quando il relatore era già fuori ruolo. Si trattava di un’eccellente indagine dialettologica che valse a Dardi l’incarico di rivedere il Vocabolario senese di Ubaldo Cagliaritano che, grazie alle sue cure e con nuove inchieste sul campo, poté uscire nel 1975 nella serie dei “Vocabolari e glossari” pubblicati dall’Accademia della Crusca sotto la supervisione di Migliorini.
Alcuni suoi scritti su parole del toscano comparvero in “Lingua nostra” nel 1974 e nel 1975, ma la dialettologia lasciò presto il passo alla storia dell’italiano moderno, dietro suggestioni che gli venivano dai saggi sul Settecento di Gianfranco Folena e dalle conversazioni con gli amici, a cominciare da Arnaldo Bruni e Angelo Fabrizi. Le letture e gli spogli a tappeto che compì per documentarsi sul lessico sei-settecentesco hanno dell’incredibile: spogli estesi anche a fonti manoscritte, fra cui gli inediti dispacci magalottiani dalle corti europee presenti nell’Archivio di Stato di Firenze. Ne ricavò una serie di articoli, L’influsso del francese sull’italiano tra il 1650 e il 1715, pubblicati a puntate in “Lingua nostra” e poi riuniti nel volume Dalla provincia all’Europa (Firenze, Le Lettere, 1995) che resta un modello negli studi sull’interferenza linguistica e uno dei capolavori della storia dell’italiano.
Nel frattempo, dopo l’incarico per un corso di Estetica (l’argomento verteva sull’opera letteraria di Kafka) che tenne all’Università di Parma dove insegnava l’amico Marzio Pieri, alla fine degli anni settanta era stato chiamato a Firenze come assistente di Arrigo Castellani, col quale stabilì una sincera e proficua intesa che lo portò non solo ad appassionarsi ai libri antichi, ma anche ad accentuare l’innata acribia e il rigore filologico. Lo si poté riscontrare nella nuova importante impresa che mise in cantiere nella seconda metà degli anni ottanta: lo studio del pensiero linguistico del Monti con l’edizione di scritti tratti prevalentemente dalla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca. L’impegnativo lavoro fu condotto sui manoscritti montiani e comportò innumerevoli viaggi all’Ariostea di Ferrara e alla Piancastelli di Forlì, per collazionare e ricontrollare dati e documenti. Ma alla fine il volume, pubblicato col titolo Gli scritti di Vincenzo Monti sulla lingua italiana (Firenze, Olschki, 1990), era non solo sotto tanti aspetti perfetto, ma tale da porre in una nuova e più convincente prospettiva l’insieme delle discussioni linguistiche che si svolsero in Italia nel primo Ottocento. Col medesimo rigore, all’inizio del nuovo secolo, Dardi s’impegnò per l’edizione elettronica dell’Antologia di Giovan Pietro Vieusseux, ora consultabile nel portale informatico dell’Accademia della Crusca: alla cura del testo e alla marcatura provvide, insieme a lui, la figlia Silvia.
Per i suoi meriti di studioso, nel 2001, fu promosso in modo del tutto inconsueto da ricercatore a ordinario: la decina di corsi che tenne da allora nella facoltà fiorentina, sulla questione della lingua, l’interferenza linguistica, la lingua dei Promessi sposi, sono rimasti memorabili; di notevole impegno, poi, le numerose tesi che ha seguito, non poche delle quali sfociate in libri e articoli. Negli ultimi anni aveva ripreso in mano il suo vecchio progetto di pubblicare un’edizione commentata delle lettere inedite di Magalotti, edizione che era sostanzialmente già pronta prima di questa triste estate. Quasi ultimata era anche la raccolta di saggi di Giovanni Parenti che stava curando insieme ad Arnaldo Bruni.
Dall’inizio degli anni ottanta aveva preso a collaborare sempre più intensamente alla redazione di “Lingua nostra”. La rivista era ancora diretta da Folena e Ghinassi, e ci si affidava spesso e volentieri al suo equilibrato giudizio e ai suoi suggerimenti nella revisione degli articoli e nella messa a punto degli impaginati. L’aperta disponibilità di Dardi e il suo senso del dovere lo portarono ad addossarsi gran parte delle recensioni, un compito che assolveva in modo brillante e nello stesso tempo approfondito e serio: quasi nessuna delle sue recensioni è priva di suggerimenti o dati nuovi, di riscontri critici o anche solo di una notazione originale. Tant’è che non di rado tali recensioni sono importanti quanto ciò che vien recensito. Da una di esse – quella al volume di Erasmo Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio giacobino 1796-1799 – diventata troppo ampia per poter esser contenuta nella rivista, ricavò una distesa monografia che stampò a sue spese: “La forza delle parole”. In margine a un libro recente su lingua e rivoluzione (Firenze, 1995).
Dopo la scomparsa di Ghinassi, Dardi ha dato nuovo impulso alla rivista e i frutti della sua mente sagace si colgono dovunque: dall’impostazione complessiva sempre più coerentemente orientata sulla linea maestra della storia della lingua e della ricerca etimologica e lessicologica, fino alle più minute innovazioni introdotte senza grossi rivolgimenti nella configurazione grafico-editoriale del periodico. Decisivo il suo impulso per la realizzazione, nel 2009, del terzo volume degli Indici di “Lingua nostra”, per la costituzione del comitato scientifico e per il nuovo assetto dovuto alla necessità di conformare la rivista ai criteri richiesti dalla classificazione di scientificità.
Quando nel 2003 proposi di allestire presso il Dipartimento di Italianistica una mostra documentaria su La Crusca nell’Ottocento (il catalogo fu stampato dalla Società Editrice Fiorentina nello stesso 2003), partecipò con slancio e in modo fattivo a tutte le fasi dell’iniziativa. Il saggio che allora pubblicò, Il concorso napoleonico del 1808 e il ristabilimento dell’Accademia della Crusca, resta ancor oggi esemplare nel mostrare la sua visione chiara e profonda della storia, la sua finezza di scrittore, la grande e sincera considerazione che aveva per l’istituzione fiorentina alla quale era stato introdotto dal suo Maestro e nella quale ritrovava il suo orizzonte di studioso.