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SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

Due tecnicismi della sociologia: omosociale e omosocialità

Sara Giovine

PUBBLICATO IL 28 settembre 2023

L’aggettivo omosociale, insieme alla corrispondente forma sostantivale omosocialità, è oggi usato soprattutto in ambito sociologico per designare o per riferirsi a una particolare tipologia di relazione e di interazione sociale, di natura non sessuale né romantica, tra due o più persone dello stesso sesso. Dal punto di vista linguistico, l’aggettivo è un composto formato dal confisso omo- (dal greco homós ‘uguale, simile’), indicante uguaglianza o identità, e dall’aggettivo sociale, sul modello dell’inglese homosocial (a sua volta formato dal prefissoide di origine greca homo- e dall’aggettivo social, sul modello di homosexual); mentre il sostantivo è un derivato di omosociale con l’aggiunta del suffisso nominale -ità, sul modello dell’inglese homosociality (a sua volta derivato deaggettivale di homosocial, sul modello di homosexuality).

Le due voci, non ancora registrate da alcun dizionario italiano dell’uso (ultimo controllo il 12/7/2023), sono modellate sull’inglese, rispettivamente sull’aggettivo homosocial e sul suo derivato homosociality, entrambe attestate a partire dal 1927, quando compaiono in un articolo di psicologia medica dello scienziato britannico John Carl Flügel, che per primo ne ha proposto l’impiego, secondo quanto documentato dall’Oxford English Dictionary (OED, s.v. homosocial e homosociality): 

We may perhaps be allowed to coin the word ‘homosocial’ to designate ‘social’ relationships between members of the same sex. […] Homosociality is apt to be freer up to a certain point than heterosociality, because there is less fear of the irruption of sexuality. [‘Possiamo forse coniare la parola omosociale per designare relazioni sociali tra membri dello stesso sesso. […] L’omosocialità tende a essere, entro certi limiti, più libera rispetto all’eterosocialità, perché c’è meno paura dell’irruzione della sessualità’] (John Carl Flügel, Sexual and Social Sentiments, in “British Journal of Medical Psychology”, 7, 2, 1927, pp. 147-48)

L’OED, che marca i due termini come propri della psicologia e della sociologia (l’aggettivo come “originally Psychology and Sociology” e il sostantivo come “chiefly Psychology and Sociology”), riporta anche successive occorrenze delle voci, che ne attestano la discreta vitalità nei decenni successivi, e in particolare tra gli anni Sessanta e Settanta, un periodo non a caso interessato da una notevole fioritura delle ricerche nei campi delle scienze sociali e della psicologia, oltre che dalla nascita dei cosiddetti “Gender Studies” (‘studi di genere’ in italiano), che indagano con un approccio multidisciplinare soprattutto i temi dell’identità sessuale e della rappresentazione di genere. In quegli anni, il concetto di omosocialità e di relazione omosociale viene approfondito, tra gli altri, dalla sociologa americana Jean Lipman Blumen, autrice nel 1976 di uno studio particolarmente fortunato, intitolato Toward a Homosocial Theory of Sex Roles: An Explanation of the Social Institutions of Sex Segregation [‘Verso una teoria omosociale dei ruoli sessuali: una spiegazione delle istituzioni sociali della segregazione sessuale’]: in esso l’omosocialità, definita come la ricerca, il desiderio e/o la preferenza per la compagnia di persone dello stesso sesso (“the seeking, enjoyment, and/or preference for the company of the same sex”), senza implicazioni di tipo erotico o sessuale, viene riconosciuta come uno dei principi organizzatori delle moderne società occidentali e indicata come una delle cause principali della differenziazione dei ruoli sociali tradizionalmente assunti dai due sessi e della conseguente emarginazione economica, politica e sociale delle donne. La teoria della studiosa viene ripresa e sviluppata in successive ricerche sociologiche, e ciò contribuisce a una maggiore diffusione non solo dei concetti di omosocialità e di rapporto omosociale, ma anche dei termini che li designano. Come ricostruito in una serie di saggi dedicati all’argomento, è però soprattutto lo studio del 1985 della sociologa e critica letteraria statunitense Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire [‘Tra uomini: letteratura inglese e desiderio omosociale maschile’], a decretare l’effettiva fortuna delle due voci, almeno nell’uso specialistico della sociologia e della sociologia della letteratura. Nel saggio viene proposta un’inedita lettura di alcune opere della letteratura inglese dell’Ottocento, alla luce di quello che viene definito “desiderio omosociale maschile”: secondo l’autrice, che ipotizza l’esistenza di una stretta contiguità tra omosocialità e omosessualità, tale desiderio è comune a ogni legame tra uomini, ma, a causa della crescente avversione, a partire dal Settecento, verso una sua possibile declinazione erotica, tende a esprimersi e a realizzarsi solamente attraverso i rapporti di natura eterosessuale con le donne, la cui condizione viene così descritta:

the schism in women’s status, between being ostensibly the objects of men’s heterosexual desire and being more functionally the conduits of their homosocial desire toward other men. [‘la scissione nella condizione delle donne, tra l’essere apparentemente l’oggetto del desiderio eterosessuale dell’uomo e l’essere più funzionalmente il tramite del suo desiderio omosociale verso altri uomini’] (Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire, New York, Columbia University Press, 1985, p. 57)

Il saggio, tra i primi tentativi di applicazione degli studi di genere all’analisi dei testi letterari, gode di una discreta fortuna, anche al di fuori degli Stati Uniti, e viene più volte ristampato negli anni. In italiano, le prime, isolate, attestazioni delle voci omosociale e omosocialità si rinvengono proprio in un articolo di critica letteraria dell’inizio degli anni Novanta che cita e riprende le teorie della studiosa, in particolare per descrivere le dinamiche relazionali che si instaurano tra i personaggi di un poema cavalleresco di fine Cinquecento: 

Segno iconico di desiderio nella sua totale inaccessibilità, Celsidea funziona come catalista delle aspirazioni dei vari cavalieri alla gloria militare e come pretesto per combattimenti autorizzati e rituali. In questo senso, lei promuove quello che, riscrivendo il desiderio mimetico di René Girard per includere il genere delle persone coinvolte […], Eve Sedgwick ha chiamato il desiderio omosociale (“homosocial desire”) e Luce Irigaray la “hommo-sexualité” (scritta anche “hom(m)osexualité”) maschile, cioé il tipo di relazioni, di solito non sessuali, che gli uomini stabiliscono tra loro sul corpo, letteralmente, dell’altro sesso. (Valeria Finucci, La scrittura epico-cavalleresca al femminile: Moderata Fonte e “Tredici canti del Floridoro”, in “Annali d’Italianistica”, 12, 1994, pp. 203-231, a p. 219)

Risamante, sfidandolo, raddrizzerà le cose dimostrandogli che il suo errore non è tanto quello di essersi messo a combattere per la bellezza della sua donna (la molla, come dicevo, della omosocialità maschile, con cui lei, come donna, ha poco da spartire) quanto che la sua donna ha sposato la causa sbagliata, quella di vittimizzare, in nome di una discutibile decisione paterna, il suo doppio fisico e psicologico, la gemella. (ivi, p. 224)

Lo studio, seppure redatto in italiano, è tuttavia pubblicato in una rivista scientifica di area statunitense ed è firmato da una studiosa di origine sì italiana, ma che ha svolto la sua carriera accademica negli Stati Uniti, in particolare alla Duke University, dove ha lavorato per alcuni anni anche Eve Sedgwick, con le cui teorie la studiosa sarà quindi facilmente venuta in contatto. La stessa studiosa si era inoltre già servita dell’aggettivo omosociale in una recensione, pubblicata due anni prima nella medesima rivista, del volume di Sergio Zatti Il Furioso fra epos e romanzo

Perché, se è vero che il meccanismo triangolare per cui il soggetto desidera l’oggetto in quanto è il rivale a desiderarlo è in sé incredibilmente fruttuoso di applicazioni, è anche vero che per Girard l’oggetto ha sempre un sesso ben preciso, a meno che non si tratti di una cosa inanimata (per esempio, una spada, un elmetto): è sempre una donna a dover fare da go-between in un rapporto omosociale. (Valeria Finucci, recensione a Sergio Zatti, Il Furioso fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, in “Annali d’Italianistica, 10, 1992, pp. 360-362, a p. 362)

Per un’effettiva esportazione nel nostro paese del concetto di omosocialità (e del termine che lo designa) bisogna invece attendere circa un decennio, quando cominciano a circolare anche in Italia gli studi condotti da alcuni sociologi anglosassoni tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, che hanno approfondito il tema dell’omosocialità maschile mettendolo in relazione con il modello della mascolinità tradizionale: tra questi, particolarmente fortunati sono soprattutto un articolo di Sharon R. Bird del 1996 intitolato Welcome to the Men’s Club: Homosociality and the Maintenance of Hegemonic Masculinity [‘Benvenuti al club degli uomini: omosocialità e il mantenimento della mascolinità egemonica’], e uno studio di Michael Flood del 2008 dal titolo Men, Sex, and Homosociality. How Bonds between Men Shape Their Sexual Relations with Women [‘Uomini, sesso e omosocialità. Come i legami tra gli uomini modellano le loro relazioni sessuali con le donne’]. Nel primo si dimostra il ruolo determinante delle relazioni tra soli uomini nella costruzione dell’identità maschile e la tendenza di tali relazioni a perpetuare il modello della cosiddetta “mascolinità egemonica” (un concetto elaborato dal sociologo australiano Raewyn Connell nel 1994, per descrivere una serie di atteggiamenti e pratiche maschili finalizzate alla sottomissione delle donne e degli altri modelli di mascolinità considerati inferiori): ciò avverrebbe attraverso tre tendenze comportamentali riconosciute come caratteristiche dei rapporti omosociali, quali il distacco emotivo delle persone coinvolte, la competitività reciproca e l’oggettivazione sessuale delle donne. Il secondo testo conferma l’importanza dei legami omosociali in contesti prevalentemente maschili (come quello accademico-militare dell’Australian Defence Force Academy, assunto come caso-studio dal sociologo) e indaga i modi in cui tali legami influenzano anche le relazioni sociali e sessuali che gli uomini instaurano con le donne. 

In italiano, omosociale e omosocialità cominciano a essere impiegati come tecnicismi della sociologia solamente a partire dal secondo decennio del Duemila, in pubblicazioni specialistiche che citano e riprendono questi studi, come è possibile dedurre dalla ricerca dei due termini nelle pagine di Google Italia e Google libri: se si escludono un paio di occorrenze isolate dei primi anni Duemila – rinvenute in una recensione del 2004 del romanzo Colori proibiti dello scrittore giapponese Yukio Mishima (https://www.culturagay.it/saggio/226, in cui si parla di “omosocialità” e di “intesa omosociale maschile” tra i due protagonisti), e in un articolo di psicologia sociale del 2007, che fa riferimento all’esistenza di “accordi omosociali” nella società rurale indiana a dominio maschile (http://www.analisiqualitativa.com/magma/0502/article_04.htm) – le due voci appaiono prevalentemente in articoli scientifici, monografie, tesi di laurea e di dottorato di ambito psicologico o sociologico, che ricorrono al concetto di omosocialità soprattutto per indagare la costruzione dell’identità maschile e il suo ruolo nella riproduzione dei tratti della maschilità tradizionale, appunto sulla scia delle ricerche statunitensi. Per es.:

Le dinamiche omosociali di produzione delle maschilità qui esplorate confermano come non si possano ricondurre le relazioni tra uomini alla mera riproduzione di configurazioni egemoni della maschilità. È nella grana fine della ricerca, nell’esplorare come i significati del maschile si costituiscono nelle interazioni situate, che possiamo cogliere i diversi meccanismi dell’omosocialità, e la loro variabile relazione con modelli di maschilità in cambiamento. (Raffaella Ferrero Camoletto, Chiara Bertone, Tra uomini: indagare l’omosocialità per orientarsi nelle trasformazioni del maschile, in About Gender. International Journal of Gender Studies, vol. VI, n. 11, 2017, pp. 45-73, a p. 67)

Il secondo vettore attraverso cui il modello della virilità ordina il maschile è costituito dall’omosocialità. L’appartenenza al genere maschile, essendo una costruzione sociale, deve essere socialmente validata e riconosciuta dagli altri appartenenti al “club degli uomini”. […] Ed è in contesti omosociali che, fin da bambini, si forgia la rappresentazione collettiva del maschile, attraverso la condivisione di un codice fondato sulla contrapposizione alle donne. (Giuseppe Burgio, Io sono un corpo. Politiche e pedagogie della maschilità, in “Annali online della Didattica e della Formazione Docente”, vol. XII, 20, 2020, pp. 27-42, a p. 33)

I partecipanti al presente esperimento sembrano aver adattato il proprio comportamento per evitare di essere criticati o esclusi dal gruppo dei pari; riprendendo la definizione dell’omosocialità proposta da Bird (1996): il dimostrarsi devianti rispetto a ciò che viene considerato “normativo” in un gruppo omosociale significa venir esclusi dal gruppo stesso. (Letizia Asquini, “Sono solo ragazzi”: Il ruolo del feedback omosociale nel mantenimento della mascolinità egemone, Tesi di laurea magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica, Università degli Studi di Padova, a.a. 2021/2022, p. 57)

Sempre a partire dal secondo decennio del Duemila, una discreta circolazione delle due voci è inoltre rilevabile anche nell’ambito della critica letteraria e della sociologia della letteratura, come attestano le occorrenze restituite dal motore di ricerca, relative ad articoli e pubblicazioni specialistiche che, sulla scorta degli studi di Eve Sedgwick e di altri critici statunitensi, adottano una prospettiva di genere nell’analisi dei testi letterari, approfondendo per esempio la rappresentazione del maschile e la presenza di legami maschili di tipo omosociale nelle opere indagate: 

In quei testi [le chansons de geste, ndr], specchio di una società omosociale, la donna occupava uno spazio del tutto marginale: quando era presente, restava sullo sfondo del rapporto maschile, se non era perfino utilizzata come strumento per mantenerlo o rinsaldarlo. (Domenico Conoscenti, Amore, amicizia e omosocialità nel Novellino e nell’Ur-Novellino, in “Allegoria”, 64, 2011, pp. 135-152, a p. 145)

Del resto il conte Manzoni denuncia (negli Sposi e, con forza ancora maggiore, nel Conte di Carmagnola e nell’Adelchi) la famiglia aristocratica come groviglio di colpa e oppressione, spazio deformato in cui il matrimonio non è frutto di un patto eterosessuale ma di un accordo omosociale tra stirpi patriarcali, proprio come nei romanzi analizzati da Eve Kosofsky Sedgwick in Between Men. (Tommaso Giartosio, Aria di braverìa. Appunti queer sui Promessi Sposi/1, nel sito “Le parole e le cose 2”, 22/3/2012)

Nel caso che vorrei analizzare – quello di Pier della Vigna – il rapporto omosociale con Federico II, l’atto del suicidio e la sua stigmatizzazione attraverso il contrappasso del cerchio sono tutti elementi collegati alla queerness del personaggio: l’identità di Piero, infatti, sfugge a una precisa categorizzazione, secondo il sistema della Commedia. (Alessandro De Laurentiis, La pulsione di morte di Pier della Vigna. Un’analisi queer del canto XIII dell’Inferno di Dante, in “Whatever”, 4, 2021, pp. 1-28, a p. 3)

Alla diffusione dei due termini nel campo della critica letteraria contribuisce inoltre la pubblicazione nel 2008 del volume dell’accademico e attivista francese Louis-Georges Tin, L’Invention de la culture hétérosexuelle, tradotto in italiano nel 2010 col titolo L’invenzione della cultura eterosessuale: lo studio – che, attraverso l’analisi di alcuni testi esemplari della letteratura europea, si propone di ricostruire le trasformazioni socioculturali che hanno determinato la sostituzione di un modello di relazione di tipo prevalentemente omosociale con un modello di tipo eterosessuale, divenuto poi dominante – ha infatti suscitato un discreto interesse in sede critica, anche in Italia, dove viene recensito dallo scrittore Giorgio Vasta in un articolo del quotidiano “la Repubblica” nel gennaio 2011 e poi riproposto nel blog di approfondimento culturale “minima&moralia”

Nel suo saggio – che di fatto è uno studio delle origini sociali e culturali del nostro presente – Tin, docente a Parigi nonché ideatore del movimento antiomofobia IDAHO (International Day Against Homophobia and Transphobia), concentra la propria attenzione sulla letteratura per comprendere in che modo nel corso del tempo un modello di relazione prevalentemente omosociale è stato sostituito da un altro modello, quello eterosessuale, divenuto culturalmente tirannico. L’omosocialità – che diversamente dall’omosessualità, specifica Tin, rimanda all’esistenza di un legame maschile non necessariamente vincolato al rapporto carnale – è il denominatore comune delle narrazioni di epoca feudale. (Giorgio Vasta, Se la coppia è un’invenzione. Così il modello dell’amor cortese è riuscito a conquistare il mondo, “la Repubblica”, sez. Cultura, 5/1/2011, p. 39)

I neologismi omosociale e omosocialità, come si può dedurre dalle attestazioni fin qui riportate, risultano prevalentemente impiegati in riferimento alle relazioni sociali di tipo maschile, anche in ragione della loro storia, ma è possibile rinvenire anche qualche isolato esempio di impiego riferito ai rapporti tra donne, per es.: 

Nelle comunità che si costruiscono attorno a Mami Wata [divinità delle acque marine in alcune culture africane, ndr] ciò che più importa è l’omosocialità femminile piuttosto che l’omosessualità, poiché è a partire da questa che si possono costruire definizioni alternative di femminilità. (Alessandra Brivio, Mami Wata: violenza e seduzione, in World Wide Women. Globalizzazione, Generi, Linguaggi. Volume 2, a cura di Franca Balsamo, Torino, CIRSDe, pp. 77-88, a p. 86)

Molte altre fonti (ad esempio Eschilo e Strabone) arricchiscono il quadro dell’universo omosociale delle Amazzoni, specificando che esse erano in grado di riprodursi per partenogenesi e che popolavano terre remote. (Federica Letizia Cavallo, Ma che genere di isola è. L’insularità come archetipo femminile dall’età classica al Cinquecento, in L’apporto della geografia tra rivoluzioni e riforme. Atti del XXXII Congresso Geografico Italiano (Roma, 7-10 giugno 2017), a cura di F. Salvatori, Roma, A.Ge.I., 2019, pp. 2919-2926, a p. 2920)

Fin dal Prologo (de L’amica geniale, NdR) notiamo l’importanza narrativa di un rapporto di amicizia femminile. L’operazione di Ferrante sembra così rispondere creativamente alle sollecitazioni provenienti dal femminismo della differenza rispetto alla necessità di moltiplicare i luoghi simbolici di omosocialità femminile, per cui dopo la relazione madre-figlia la nostra autrice sperimenta questa parte dell’impensato della cultura umana nello spazio letterario […]. (Isabella Pinto, L’amicizia femminile come processo di soggettivazione, in “Legendaria”, 141-142, aprile-luglio 2020, p. 65)

Le due voci appaiono per il momento di diffusione tendenzialmente circoscritta all’uso specialistico della sociologia, della psicologia e della critica letteraria. Piuttosto limitata si rivela invece la loro circolazione nella lingua corrente, e scarse sono anche le attestazioni nella stampa quotidiana: se si escludono due occorrenze isolate, datate 1986 e 1994, in cui omosocialità e omosociale sono però usati impropriamente in un’accezione prossima a quella di omosessualità e omosessuale, si contano infatti appena 2 attestazioni di “omosociale” e 4 di “omosocialità” negli articoli della “Repubblica”, nessuna negli archivi storici del “Corriere della Sera” e della “Stampa”, e solo un esempio nel sito della “Stampa”; le testimonianze sono presenti per lo più all’interno di articoli in cui a prendere la parola sono critici e sociologi che dei due termini si servono abitualmente. Per es.: 

Il convegno [“Sessualità e diritti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Nuove frontiere per la cittadinanza lesbica, gay, bisessuale e trans nella società eterosessista” ndr] è «frutto del lavoro di ricerca condotto a Napoli dal 2008» spiega Corbisiero «nell’ambito dei “gay cultural studies”, all’interno dei quali abbiamo individuato alcuni filoni tematici che vanno dalle identità e dai comportamenti sessuali agli spazi urbani dell’omosocialità». (Rosa Viscardi, C’è un diritto all’identità sessuale, “la Repubblica”, sez. Napoli, 18/4/2012, p. 14)

I gruppi chiusi su Telegram e Whatsapp spesso funzionano come luoghi di organizzazione e coordinamento di attacchi mirati alle donne, come nel caso della condivisione non consensuale di materiale intimo. All’interno di questi gruppi prevalentemente maschili, però, si nota anche come la violenza contro le donne venga enormemente normalizzata e diventi una pratica chiave nella costruzione di relazioni omosociali tra uomini. (Loredana Lipperini, Violenza e misoginia sulle piattaforme web, così trionfa la cultura dello stupro, lastampa.it, 21/12/2022)

Le occorrenze rinvenute in rete (con una ricerca nelle pagine italiane di Google del 13/7/2023, che restituisce 8.240 risultati di “omosocialità”, 3.660 di “omosociale” e 2.170 di “omosociali”) sembrano tuttavia attestare, negli ultimi due o tre anni, un leggero incremento delle due voci nell’uso corrente: tra il 2020 e il 2023 cominciano infatti a essere impiegate anche in blog, giornali online e altri portali web in riferimento a diversi fenomeni sociali e culturali, come i movimenti antirazzisti (Matteo Pautasso, Black Lives Matter: partecipazione e omosocialità, in “Eurobull”, 15/2/2023), il cameratismo maschile tedesco di epoca nazista (Massimiliano Sardina, Berlino 1933. La seduzione del cameratismo. Un tedesco contro Hitler. Una testimonianza di Sebastian Haffner, in “Amedit”, n. 29, 2016), la letteratura futurista (Cristina Lombardi-Diop, Modernità, supremazia bianca, e violenza. La nascita dell’uomo futurista, in “roots§routes”, X, 32, gennaio-aprile 2020) o i movimenti monastici medievali (Matteo Dalena, Uomini e santi che odiavano le donne, in “Storica National Geographic”, 23/12/2021), o anche nelle recensioni di film (Pietro Bianchi, Elisa Cuter, La legge del desiderio maschile. Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater, in “Doppiozero”, 24/6/2016) e di serie televisive (Isabella Pinto, Il ritorno dell’“Amica geniale”, in “Dinamo Press”, 7/2/2020). Alcune occorrenze sono poi relative ad articoli di costume che ricorrono alle due forme per chiarire il significato dell’anglismo bromance (già approfondito nelle pagine di questa rivista), che indica un rapporto di profonda amicizia o di forte intesa tra due o più uomini, spesso definito come una forma di “intimità omosociale” (come qui e qui). Rispetto a bromance, discretamente diffuso nella lingua corrente anche come conseguenza del suo utilizzo in canzoni, prodotti cinematografici e spettacoli di vario tipo, la fortuna di omosocialità e omosociale nell’uso comune appare decisamente più ridotta, forse in quanto percepite come voci di natura tecnica e specialistica; o forse piuttosto perché poco chiare sul piano semantico, anche perché il prefissoide omo- è ormai percepito come riduzione di omosessuale (cfr. omofobia).

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