Consulenza linguistica

Sul significato e l’origine di teopatia

  • Simona Cresti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2025.36409

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2025 Accademia della Crusca


Quesito:

Un lettore ci chiede un approfondimento sul significato della parola teopatia, e in particolare se la spiegazione che se ne trova online su Wikipedia sia “corretta” e “completa”.

Sul significato e l’origine di teopatia

Teopatìa è una parola molto rara, che non compare nei vocabolari dell’uso. Usata quasi soltanto in contesti specialistici, conta poche occorrenze nel web italiano (1.900 ca, secondo una ricerca aggiornata al 6/8/2024). A suscitare i dubbi del nostro lettore è stata la spiegazione di Wikipedia, che recita così: “La teopatia è un fenomeno studiato nella Storia delle religioni, in base al quale un essere umano entra in contatto indiretto con la divinità, grazie all’azione esplicata da suoi intermediari naturali o soprannaturali”. Per questo carattere di “mediatezza” la teopatia si differenzierebbe dalla teofania, “in cui la divinità si manifesta direttamente a un essere umano”. Teopatia deriverebbe «dai due termini greci θεός [theós, n.d.r.] (“dio”) e πατέω [patéo] (“essere percorso, frequentato”)». A differenza di altre voci Wikipedia, la pagina non ha corrispondenti nelle altre lingue e non cita fonti: in definitiva fornisce informazioni che non trovano riscontro in altri luoghi né, come si vedrà, sono sostenute dalla testimonianza fornita dai contesti d’uso.

La spiegazione non convince né sul piano etimologico né sul piano semantico: sulla ricostruzione potrebbe aver influito il significato di telepatia, che però ha tutt’altra origine. L’eredità italiana di patéo (che significava ‘calpestare, calcare con i piedi’ e ‘camminare, percorrere’) è rappresentata dal grecismo perìpato (dal greco περίπατος [perípatos], letteralmente ‘passeggio’), che nella nostra lingua ha mantenuto il significato esteso che già aveva nell’antichità, quando fungeva anche da nome per la zona del giardino del Liceo di Atene dove Aristotele teneva lezione (si dice, appunto, camminando), e il derivato peripatetico, che ha assunto anche altri valori. Appare più facile e più naturale leggere il suffissoide -patia come esito del greco -πάϑεια [páthia, latino -pathia], derivato del tema παϑ- [path-] del verbo πάσχω [páscho] ‘provo impressione, sentimento, sensazione, sto sotto l’influenza, gradita o spiacevole’, e ‘soffro, sopporto, tollero, subisco, provo’ (Lorenzo Rocci, Vocabolario greco-italiano, Roma, Società Dante Alighieri, 1943). In greco antico, lo stesso tema παϑ- era alla base, per esempio, di πάϑος [pathos] ‘ciò che si prova di bene o male, nel fisico o nel morale’, ‘esperienza, prova, ciò che s’è provato’, che vive ancora in italiano come grecismo non adattato; in italiano, tra le parole riconducibili alla stessa origine abbiamo patire e passività, che sarà bene tenere presenti per comprendere meglio il significato della nostra teopatia.

In italiano, -patìa è secondo elemento di molti composti nei quali «indica il fatto di essere soggetto a determinati affetti, sentimenti, passioni […] o ha il sign[ificato] più generico di “sofferenza”» (Vocabolario Treccani online): e infatti i composti di -patìa sono frequenti non solo nella lingua comune, ma anche in quella tecnica della medicina e della psicologia, alcuni ereditati dal greco attraverso il latino (apatia, empatia, simpatia), altre formate modernamente, combinando -patia con elementi in origine greci (cardiopatia, da καρδία [kardía] ‘cuore’; psicopatia, da ψυχή [psychḗ] ‘soffio vitale, spirito, anima’) ma anche latini (ludopatia da lūdus ‘gioco’; cerebropatia, da cĕrĕbrum ‘cervello’) o presi da lingue vive (webpatia, cibopatia, non registrate nei vocabolari ma attestate in rete rispettivamente dal 2014 e dal 2011).

Interpretando letteralmente questi elementi di base secondo la struttura determinante+determinato tipica dei composti di origine classica, si ricava un significato approssimativo di teopatia come di ‘patimento, sofferenza di dio’. Oltre al significato, di cui vanno precisati i contorni, resta da capire quale sia l’origine del nostro termine; in altre parole, se teopatia è una voce antica poi passata all’italiano, e dunque un grecismo, o se è un cosiddetto “composto neoclassico”, vale a dire una parola formata modernamente (in italiano o in un’altra lingua, da cui l’italiano l’ha ripresa) con elementi di origine classica. Poiché le due questioni sono intrecciate e una risposta secca, in questa fase della spiegazione, sarebbe fuorviante, conviene procedere per gradi.

Partendo dall’espressione “sofferenza di dio”, interpretazione letterale del composto, è naturale chiedersi chi sia il soggetto del patire, ossia quale sia la funzione logica della parola dio che compare nel complemento di specificazione: è necessario capire se, nel nostro composto, il costituente teo- indica un rapporto di specificazione soggettiva, in cui dio è il soggetto del patire, o oggettiva, in cui a patire è qualcun altro, nella fattispecie il credente, e dio è l’oggetto, il contenuto dell’esperienza (per un approfondimento sulla questione rimandiamo all’articolo di Giovanni Nencioni su pericolo di vita/pericolo di morte, “La Crusca per voi” 18 (aprile 1999), alla risposta di Marco Biffi sullo stesso argomento, “La Crusca per voi” 51 (2015, II), e anche alla scheda di consulenza linguistica di Vittorio Coletti).
Esistono sia composti di teo- sia composti di -patia che realizzano queste due possibilità semantiche: pensiamo, per esempio, a teofania, la ‘manifestazione di dio’, in cui dio è il soggetto che si manifesta, e dall’altra parte a teofagia, la ‘consumazione rituale di un cibo identificato con la divinità’, in cui dio è l’oggetto della consumazione, ciò che viene “mangiato”; e pensiamo, anche, a una parola come embriopatia (da ἔμβρυον [émbryon], ‘neonato, feto’), che indica la ‘malattia del feto’, in cui è il feto a essere in stato di sofferenza, in confronto a una come meteoropatia, in cui a soffrire non è la situazione climatica, ma chi ne subisce le alterazioni.

Per quanto riguarda la nostra parola, nella maggior parte degli esempi d’uso contemporanei (il primo dei quali è rintracciabile su Google libri in uno studio del 1947 su Gioacchino da Fiore) il soggetto del patire è il credente. In un saggio sulla mistica del Paradiso dantesco, Carlo Ossola usa teopatia come “la possibilità di accogliere e patire Dio” (C. Ossola, La poesia mistica della terza Cantica, in Dante poeta cristiano, a cura della Società Dante Alighieri, Firenze, Polistampa, 2001, pp. 133-154, a p. 135). Con simile significato la parola ricorre in testi tecnico-specialistici, libri e articoli di filosofia, teologia e storia delle religioni, nei quali indica una intensa esperienza mistica, che si colloca decisamente al di là dei limiti di ciò che è intelligibile e dominabile razionalmente, in cui chi esperisce è completamente passivo fino, in certi casi, a smarrire del tutto la propria soggettività nell’identificazione con il divino; in questi usi sembra che il contributo semantico portato dal secondo elemento del composto (-patia) sia una certa idea di patire nel senso di ‘essere passivo’, per cui il soffrire va inteso come un essere soggetti a qualcosa che non si domina. Eccone alcuni esempi, che documentano anche l’uso dell’aggettivo teopatico (normalmente formato da teopatia con l’aggiunta del suffisso aggettivale -ico):

In questo senso, l’esperienza mistica è nel cristianesimo Teopatia, legata alla «sofferenza di Dio» (Gottleiden) e l’espropriarsi di se stessi perché diventi dominante il modo di agire e di essere di Dio. Nell’esperienza mistica c’è un cambio radicale di prospettiva: dall’affaticarsi al ricevere; dal fare al soffrire; dalla propria attività alla Grazia. (Vincenzo Di Pilato, All’incontro con Dio. In dialogo con la teologia di Hans Waldenfels, Roma, Edizioni Città Nuova, 2006, p. 199)

Rintracciando la presenza di Dio nel mondo, la filosofia può evolversi in teopatia come esperienza del divino nella vita concreta; un qualcosa di differente rispetto alla teologia concepita come discorso teorico intorno all’essere divino. Secondo Borriello, dunque, i mistici conoscono filosoficamente Dio perché lo “percepiscono”, in qualche modo lo “soffrono” oltre i limiti del sapere concettuale teologico. (Veronica Tartabini, Concepire la mistica in chiave filosofica. Antecedenti e conseguenze del Concilio Vaticano II, in Anna Motta, Lidia Palumbo, Le parole della filosofia. Le metamorfosi del vocabolario del pensiero nella storia, Napoli, Federico II University Press, 2024, pp. 391-396: p. 394)

Lo stato teopatico
[…] “Teopatico” ha origine nella passività che caratterizza l’esperienza mistica in tutte le sue tappe: una passività che ha le numerose connotazioni suggerite dal testo dello Pseudo Dionigi, che meglio ho ha espresso: non tantum discens sed et patiens divina. Non solo apprendendo, ma patiens, ossia, provando il divino. Ma anche soffrendo, ossia ricevendo da Dio la luce e l’impulso indispensabili per entrare in contatto con lui; e, anche, subendo il suo peso, la sua mano, l’abbagliamento della luce che accieca, ossia, lo svuotamento e la purificazione indispensabili affinché la sua Presenza […] risplenda in quelli che vivono, o meglio, che subiscono la sua esperienza. (Juan Martín Velasco, Il fenomeno mistico. Struttura del fenomeno e contemporaneità, trad. it., Milano, Jaca Book, 2003, pp. 167-169)

Teopatia assume un significato simile anche in un saggio di Georges Bataille, che si serve della categoria per descrivere l’esperienza mistica e metterla in relazione con quella sadica: nella traduzione di L’Expérience intérieure (Paris, Gallimard, 1943; L’esperienza interiore, trad. it. di Clara Morena, Bari, Dedalo, 2021, p. 86), lo “stato teopatico” è descritto come “soppressione del soggetto e dell’oggetto”, e dunque modalità di esperienza particolare, che non può essere rubricata come una forma di “dominio” soggettivo. In rari casi, la parola fuoriesce dai contesti puramente specialistici, tanto che compare per esempio in un’edizione scolastica di commento della Commedia (a cura di Riccardo Bruscagli e Gloria Giudizi, Bologna, Zanichelli, 2021, p. 792, dove è esplicita ripresa da Ossola), in una scheda del Dizionario biografico Treccani, in un articolo di “Famiglia cristiana”, dov’è parafrasata come “sottomissione dell’essere umano all’azione di Dio” (Federica Montanari, La mistica cristiana da Edith Stein a Chiara Lubich, famigliacristiana.it, 22/10/2022). La parola si presta anche a usi più generici, per cui “afflitto da teopatia” può essere anche chi non fa il mistico “di professione” (per esempio un poeta come Caproni, in Per Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1997, p. 135), e può diventare a volte semplice sinonimo di visione, allucinazione, come nel racconto di Vladimir Nabokov Le sorelle Vane, in cui figura nell’enumerazione “mere evasioni, teopatie” (nell’originale inglese del 1959, theopathies), “ricordi ondeggianti” che “evocano solo illusori bandoli, impossibili lidi, lontani, andati” (Una bellezza russa e altri racconti, trad. it. a cura di Dimitri Nabokov, Milano, Adelphi, 2008, p. 778).

Come si è intuito, anche altre lingue possiedono termini corrispondenti a teopatia anche sul piano formale. La voce dell’Enciclopedia Filosofica Bompiani (a cura di Virgilio Melchiorre et al., Milano, 2006) ne elenca quattro (inglese, francese, tedesco che però, come si è visto sopra, ha anche Gottleiden, e spagnolo):

TEOPATIA (theopaty [sic]; Theopathie; théopathie; teopatía). – Particolare disposizione psichica propria dei fenomeni mistici, consistente nel risentirsi a livello psichico della trascendente violenza del divino.

Prendiamo spunto da questo dato per esplorare la questione dell’origine della nostra parola. La condivisione della struttura formale, evidente in questi esempi, è caratteristica tipica dei cosiddetti “europeismi” o “internazionalismi”: parole che spesso si originano in àmbiti specialistici, adottate come prestiti (adattati, come in questo caso, o no) quasi in contemporanea nelle lingue in cui si svolge la riflessione scientifica. Molti degli internazionalismi che conosciamo sono composti neoclassici creati nei secoli dell’età moderna: teopatia potrebbe essere tra questi? Dato che la lessicografia italiana non fornisce aiuto, diamo uno sguardo a quella straniera. Per il francese, il Trésor de la Langue Française informatisé registra théopathie con un significato simile a quello che abbiamo visto (“Aspetto passivo di certi stati superiori di contemplazione […]” [Aspect passif de certains états supérieurs de contemplation…], riprendendo la definizione del Dictionnaire de la foi chrétienne, Paris, Éditions du Cerf, 1968), e fornisce un esempio d’uso di théopatique (corrispondente all’italiano teopatico) in Bataille (nel sopra citato saggio del 1943). Fra i testi di Google libri è facile trovare anche occorrenze più antiche della forma: mai anteriori, tuttavia, alla metà del XVIII secolo (1755 prima attestazione), quando théopathie inizia a comparire nelle traduzioni di testi del medico e filosofo illuminista inglese David Hartley e nei manuali di storia della filosofia che se ne occupano.

Nell’Oxford English Dictionary (OED), theopathy è definita in modo analogo (“Sentimento passivo simpatetico eccitato dalla contemplazione di Dio…” [Sympathetic passive feeling excited by the contemplation of God…]), corredata da un’indicazione etimologica che non lascia dubbi sulla sua derivazione dal tema path- di páskho, páthos ecc., e rintracciata nella sua prima occorrenza proprio in un testo di David Hartley. Il pensatore inglese usa theopathy con un significato tecnico, riferibile al sistema morale da lui elaborato, in cui l’uomo è materialisticamente inteso come un fascio di “vibrazioni” prodotte da forze a lui esterne: un meccanismo regolato dalla legge dell’associazione, a cui soggiacciono anche le esperienze spirituali. Lo sviluppo psicologico, in particolare, per Hartley dipende dalle prime impressioni in stati emotivi classificabili in sei gruppi: tra questi, theopathy indica le esperienze di relazione personale con il divino: “in questa categoria comprendo tutti quei piaceri e dolori provocati dalla contemplazione di Dio, dei suoi attributi e della nostra relazione con lui” [under this Class I comprehend all those Pleasures and Pains, which the Contemplation of God and his Attributes, and of our Relation to Him, raises up” (David Hartley, Observations on Man, his Frame, his Duty, and his Expectations, London, Richardson, 1749, §5. 486).

Anche per l’italiano le attestazioni più antiche di teopatia, quelle precedenti al saggio su Gioacchino da Fiore del 1947, compaiono nei capitoli dedicati all’opera di Hartley in manuali di filosofia, perlopiù ottocenteschi (il primo è del 1825). Della parola non si trovano tracce che precedono questa data, se si eccettuano un paio di testi (il più antico del 1647: Filadelfo Mugnos, Teatro genologico delle famiglie nobili […] del […] regno di Sicilia, Palermo, Coppola), in cui però Teopatia è un nome proprio, forse variante di Teopazia, relativamente più comune all’epoca, in cui l’accento va spostato sulla à della penultima sillaba sul modello di altri nomi come Ipazia. E Teopazia potrebbe essere poi a sua volta variante di Topazia, allo stesso modo in cui teopazio è documentato come rara forma alternativa di topazio, per esempio nel rimatore tardotrecentesco Niccolò Malpigli (cfr. Rime. Edizione critica con commento, Tesi di dottorato di Roberto Siniscalchi, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2019, p. 161): dunque, probabilmente, siamo di fronte a un’altra parola.

Naturalmente, rispetto alle prime attestazioni ottocentesche il significato si è evoluto: l’uso attuale della nostra parola appare svincolato dal senso tecnico deciso da Hartley, ma comunque ancora vagamente riferibile a esso: è possibile comunque continuare a vedere la teopatia come una ‘esperienza spirituale di intensa passività’. Possiamo quindi fermarci qui e attribuire ad Hartley la paternità del termine? Ciò che colpisce e che complica la questione è il fatto che, allargando il raggio dei contesti da analizzare, incontriamo usi in cui la parola assume un significato anche molto diverso. In alcuni casi, per esempio, la componente semantica del patire (-patia) entra in gioco non solo come richiamo alla passività, ma anche al provare sofferenza, dolore vero e proprio: un dolore che affligge anche la dimensione divina, di cui quella umana partecipa o risulta un’imitazione, nel meccanismo proiettivo e identificativo dell’esperienza mistica teopatica.

Prendiamo l’esempio più significativo: nell’opera di Henry Corbin (1903-1978), orientalista, islamista, filologo e filosofo francese, teopatia assume un significato tecnico, comprensibile solo nel contesto di una metafisica alternativa rispetto a quella della teologia rivelata. In questa cornice ontologica, le cose non “ricevono l’essere” per l’atto creativo di un dio onnipotente, distante dalle umane vicende e passioni. Commentando la vita e l’opera di Ibn ʿArabī (1165-1240), filosofo e mistico arabo legato alla tradizione islamica sufi, lo studioso descrive un Dio patetico, sofferente e nostalgico perché nascosto, e spinto dal dolore a rivelare sé stesso e il mondo esperibile in una dimensione di intimità amorosa e simpatetica con il fedele che Corbin chiama, appunto, teopatia (in francese: théopathie). In questa dimensione mistica di rivelazione e di esperienza, mediana tra l’intelletto e la sensibilità, avviene la manifestazione di Dio al fedele (che, come lui, soffre) e anche a sé stesso, perché nella teopatia creatore e creatura dipendono l’uno dall’altra:

Questa teopatia dà la propria forma al servizio divino col quale i “Fedeli d’amore” danno l’essere al “Dio patetico” di cui essi sono la passione, alimentando questa passione di tutto il loro essere (Henry Corbin, L’immaginazione creatrice, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 111)

Il concetto di teopatia è centrale nella riflessione di Corbin (che nel saggio citato gli dedica interi capitoli), e la sua influenza sugli studi islamici occidentali è massiccia ed evidente anche dalla percentuale dei risultati della nostra ricerca che lo riguardano. Difficile stabilire se l’uso di teopatia di Corbin e della tradizione a lui riferibile si possa interpretare come una risemantizzazione dello stesso termine usato da Hartley o se la parola abbia avuto una propria vita autonoma all’interno della tradizione di studi sull’Islam, e Corbin l’abbia da lì assimilata. L’OED, per esempio, fornisce per theopaty un’attestazione ottocentesca, quindi precedente a Corbin, traendola proprio da uno studio (di area cristiana) sulla mistica sufi (“The Church Quarterly Review”, 60, 1881).

La possibilità che teopatia indichi un’esperienza di compenetrazione, o anche di imitazione della sofferenza del fedele e di quella di Dio trova spazio anche all’interno della riflessione teologica cristiana, dove si sposa perfettamente con il tema, frequentato fin dalle origini, della sofferenza di Cristo sulla Croce:

L’esperienza del nostro mistico è essenzialmente cristocentrica e cristopatica, che è quanto c’è di più genuino nella teopatia mistica cristiana. La sua missione e la sua vita mistica passano per una profonda identificazione col Cristo sofferente; […] al centro della sua anima si consuma il matrimonio spirituale con Cristo crocifisso. (J. Pujana, Giovanni Battista della Concessione, DizionarioTeologico, scrutatio.it)

Nella notte della Croce, nell’esperienza del puro patire, suo e dell’amica, la Santa […], nell’oblio di se stessa, vede in trasparenza il Christus patiens, che chiede la risposta tra tutte a lui più cara: quella dell’amore oblativo. […] Per usare una categoria del Breton, Gemma esorta qui l’amica dolente ad assumere, nella sua imitazione di Cristo, l’atteggiamento supremo della teopatia, che produce l’abbandono, come quel giorno sul Calvario. (Giandomenico Mucci S.I., Un inedito di Santa Gemma Galgani presso la “Civiltà cattolica”, “La Civiltà cattolica”, CXXXVIII, 1987, pp. 151-152)  

Il Breton a cui nell’ultimo contesto si fa risalire la categoria della teopatia è Stanislas Breton (1912-2005), teologo francese che fu sacerdote della Congregazione della Passione di Gesù Cristo (i cosiddetti passionisti) e nelle sue opere ha analizzato diffusamente l’esperienza spirituale, parlando appunto della teopatia (théopathie) come di quel momento mistico in cui la sofferenza del fedele diventa un calco di quella di Cristo sulla croce (La mistica della passione, trad. it. di P. Cherubino Satriano, Pescara, Stauròs, 1986, pp. 193-204, a p. 198).

Ma il significato della nostra parola può variare ancora, fino a indicare in maniera ancor più precisa qualcosa che è interno alla sola sfera divina: una sofferenza provata da Dio, in cui proprio Dio, e non il credente, è il soggetto del patire. Di questa riflessione abbiamo esempi riferibili alla tradizione cristiana, ma anche a quella ebraica:

Sulla possibilità che Dio soffra, non si deve parlare come viene […]. In modo particolare, va ricordato come l’idea di un dolore “proprio” di Dio (cioè intradivino) appartenga al pensiero di Origene, un grande genio del pensiero cristiano […] (Contro il concetto di “teopatia” (cioè una passione intradivina di ordine immanente), lacasadimiriam.it, 5/1/2021)

I cabalisti costruirono un edificio nuovo sulla base di fondamenta precedenti: quali, in particolare, l’idea di un divino articolato e dinamico (una theosofia pluralistica), l’idea di crisi e affezioni nel divino (una theopatheia), l’idea di una influenza concreta dell’uomo sul divino (una theourgia). […]. In alcuni momenti […] emerge indubbiamente anche un pensiero metafisico di Dio – come Essere perfetto, immutabile, impassibile; eppure, il più delle volte, a prevalere è un’altra immagine della realtà divina: imperfetta, mutabile, patetica (e persino la logica “moderata” […] non indietreggia di fronte a certe implicazioni temerarie della teopatia e della teurgia). (Maurizio Mottolese, La via della qabbalah. Esegesi e mistica nel «Commento alla Torah» di Rabbi Bahya ben Aser, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 139-140)

Questi usi, minoritari rispetto a quelli che intendono teopatia come esperienza in cui il soggetto del patire è il credente, hanno nella tradizione cristiana un precedente importante nella teologia teopaschita. Anche qui occorre fare un salto col pensiero verso una questione intellettuale molto specifica, quella della natura, o meglio delle nature (divina e umana) di Cristo, che si accese con enorme travaglio nei primi secoli del Cristianesimo portandone con sé altre, tra cui quella di come andasse intesa la sofferenza sulla croce. Con la parola teopaschismo (considerato ancora un composto neoclassico derivato da theós e da path- di páscho), secondo la definizione che ne danno GDLI e GRADIT, si indica proprio quella “dottrina patristica nata in ambiente ereticale nel V sec., secondo cui nella passione di Cristo tutta la Trinità avrebbe sofferto”. Entrambi i vocabolari datano il termine come recente (XX secolo), ma registrano anche il più antico aggettivo teopaschita ‘relativo al teopaschismo’, da cui il primo sarebbe derivato: l’aggettivo è datato 1895 dal GRADIT, ma rintracciato dal GDLI in un’opera di storia ecclesiastica di due secoli precedente, nella quale ricorre principalmente nella variante antica teopascita (Marco Battaglini, Annali del Sacerdozio e dell’Imperio, vol. I, Venezia, presso Andrea Poletti, 1701, p. 259).

A questo punto, tornando alla nostra parola, appare lecito domandarsi se, volendo nominare quella sofferenza divina teorizzata dai teopaschiti, non sia naturale usare proprio il sostantivo teopatia. Troviamo in rete contesti in cui si preferisce non sovrapporre il concetto di passione del fedele a quello di passione di dio, come il glossario del sito della “Società teosofica italiana” che registra sia teopaschismo riportando la definizione del Vocabolario Treccani online (“Dottrina teologica che al Verbo incarnato, in quanto Dio, attribuisce la sofferenza e la morte”), sia teopatia col significato di “Sofferenza per il proprio dio. Fanatismo religioso”. Ma troviamo anche esempi d’uso che vanno nella direzione opposta, in cui teopatia è la scelta che, di fatto, fanno alcuni studiosi per parlare del dolore provato da Cristo all’interno di lavori dedicati al teopaschismo: se ne trovano in studi specialistici in inglese (per esempio nel volume di Paul L. Gavrilyuk The Suffering of the Impassible God: the Dialectics of the Patristic Thought, Oxford, Oxford University Press, 2005, specialmente nel sesto capitolo, dove ricorrono sia theopaschism sia theopaty), ma anche nel web italiano (Emanuela Palmieri, La Kenosi di Dio: Jürgen Moltmann e la sua nuova visione della Trinità, mondodomani.org).

Gli esempi disponibili online di quest’uso di teopatia e dei suoi corrispondenti stranieri sono molto pochi, ma hanno precedenti significativi nel greco (antico, ma non più classico) della letteratura cristiana patristica. Evidentemente rara anche in passato, θεοπάθεια (theopátheia) non è sempre registrata nei dizionari di greco antico (non lo è nel già citato e in Italia diffusissimo dizionario Rocci, né nell’autorevole A Greek-English Lexicon di Henry George Liddell e Robert Scott, Oxford 1925-40 [18431]), ma compare per esempio nell’Handwörterbuch der griechischen Sprache di Franz Passow (Leipzig, Vogel, 1841), nell’Handwörterbuch der griechischen Sprache di Wilhelm Pape (Braunschweig, Vieweg, 1842), nel Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods di Evangelenus Apostolides Sophocles (New York, Charles Scribner's Sons, 1887) e in A patristic Greek Lexicon di Geoffrey William Hugo Lampe (Oxford, Clarendon Press, 2014 (19611). Accompagnano il termine definizioni laconiche (“das Leiden Gottes” nei lessici tedeschi, e per gli inglesi “suffering of God”, cfr. Lampe, e “divine suffering”, cfr. Sophocles). Tutti questi dizionari, in compenso, documentano l’uso della parola in uno o più teologi cristiani: si citano Cirillo di Alessandria (370ca-444), Sofronio di Gerusalemme (560 ca-638 ca.), Fozio di Costantinopoli (810ca-897). Il primo, sostenitore della tesi che in Cristo ci fosse un’unica e irripetibile natura divina e incarnata, si oppose a Nestorio, che invece sosteneva la presenza in Cristo di due nature separate, divina e umana. La tesi di Nestorio fu condannata al Concilio di Efeso del 431; uno dei punti di questa condanna, l’anatema di Cirillo che affrontava la questione della sofferenza di Cristo sulla Croce, incorse comunque nell’accusa dei nestoriani potersi paragonare a un’altra dottrina che invece si distanziava dall’ortodossia: appunto, il teopaschismo. Significativamente, i due dizionari inglesi riferiscono esplicitamente la parola θεοπάθεια alla “dottrina dei teopaschiti” [“divine suffering, with reference to the doctrine of the Θεοπασχῖται”, cfr. Sophocles], che Cirillo era accusato di sostenere dai seguaci di Nestorio (cfr. Lampe). Entrambi i lessici, poi, registrano anche θεοπασχία (theopaschìa), attribuendole esattamente lo stesso significato che a teopatia (“= θεοπάθεια”, cfr. Sophocles; “suffering of God; hence, the Theopaschite heresy which asserts that Godhead suffered in Christ” [sofferenza di Dio; quindi, l’eresia teopaschita che sostiene che in Cristo avrebbe sofferto la Divinità]).
Un esempio facilmente accessibile di quest’uso di θεοπάθεια si trova nella Biblioteca di Fozio, in un capitolo dedicato alla recensione di un’opera di tale “Basilio, prete di Cilicia”, un nestoriano vissuto nella prima metà del VI secolo (Fozio, Biblioteca, a cura di Nunzio Bianchi e Claudio Schiano, Pisa, Edizioni della Normale, 2019, p. 159 [107, 88a]).

Adesso possiamo fermarci: non sembrano documentati usi più antichi della parola. È molto difficile, tuttavia, ricostruire le prove a favore di una presunta continuità che unisca il concetto antico di theopàtheia a i vari usi moderni della parola teopatia: ricordiamoci che in italiano (come in altre lingue moderne), le tracce della parola si perdono nel XVII secolo. Quello che possiamo concludere è che, nel suo uso attuale, teopatia non sembra classificabile come grecismo, nonostante l’esistenza di un antesignano greco. Piuttosto, il termine ci appare come una possibilità lessicale che si è realizzata in varie epoche e in varie lingue che condividono la capacità di formare parole combinando elementi di origine greca. È possibile che la parola sia “nata” più volte ogni qual volta si sia sentito il bisogno di associare il concetto di dio e quello di sofferenza, in modalità sempre diverse e ogni volta riferibili a precisi sistemi teologici e metafisici. A volte dimenticati sotto la coltre delle vicende storiche, in certi casi questi usi hanno originato una tradizione, per cui teopatia o i suoi corrispondenti stranieri sono divenuti tecnicismi, capaci di consolidarsi, evolversi semanticamente e magari, timidamente, fuoriuscire dall’alveo dello specialismo.

*Ringrazio Mariella Canzani per i preziosi suggerimenti.


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