Consulenze linguistiche

Speriamo di non sbucciarci un ginocchio: meglio se ci sbucciamo mandarini e frutta secca

  • Miriam Di Carlo
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2020.3332

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Copyright: © 2019 Accademia della Crusca


Quesito:

Ci sono arrivate molte domande relative ai contesti in cui utilizzare il verbo sbucciare e alla sinonimia che lo lega al verbo pelare. Alcuni lettori ci chiedono il perché di un uso riflessivo affettivo del verbo (del tipo mi sbuccio una mela) mentre altri chiedono chiarimenti circa il significato di ‘escoriarsi una parte del corpo’.

Speriamo di non sbucciarci un ginocchio: meglio se ci sbucciamo mandarini e frutta secca

Il verbo sbucciare, le cui prime attestazioni in italiano risalgono al XIV secolo, deriva dal sostantivo buccia con l’aggiunta del prefisso privativo s- e della desinenza -are (si tratta dunque di un verbo “parasintetico”): il suo primo significato è quello di ‘privare un frutto della buccia o della scorza, un ramo o un tronco della corteccia’ (GDLI). Il significato di buccia, alla base dell’accezione del verbo è, già a partire dalla terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, quello di ‘parte esteriore delle frutte’. Il Tommaseo-Bellini aggiunge anche il significato riferito alla frutta secca: ‘la sottile pellicina che sotto il guscio resta delle noci, nelle mandorle, ne’ pinocchi, nelle castagne’. Per il GDLI la buccia è la ‘parte esterna di frutti, tuberi, mandorle ecc. costituita da una pellicola o da una membrana più o meno consistente’ mentre il GRADIT la definisce come ‘rivestimento esterno protettivo di frutti, tuberi e sim.: b. di arancia, di mela, di patata; togliere la b., mangiare un frutto con la b. | sottile pellicola che riveste il seme di alcuni frutti’. Confrontando tutte le definizioni di buccia ci si rende conto che non viene mai menzionata esplicitamente la verdura (a differenza dei tuberi; nel caso del Devoto-Oli dei bulbi e nel Sabatini-Coletti dei legumi). Per la frutta secca come mandorle, nocciole, noci e simili si distingue di solito tra il guscio (legnoso e duro) e l’epicarpo, ovvero la pellicina interna che ricopre il seme e che può venir comunemente chiamato buccia (anche in Devoto-Oli e Garzanti). Un discorso a parte poi andrebbe fatto per la castagna che, a differenza di tutta la frutta secca a cui spesso viene accomunata, non presenta un vero e proprio guscio ma una scorza coriacea e una pellicina interna. Per estensione, si considera buccia la parte esterna e spesso di scarto di un qualsiasi prodotto alimentare, tanto che, stando alle definizioni del GRADIT, essa si può riferire anche alla parte esterna di formaggi e salumi, nonché, attraverso alcune ricerche condotte nel corpus dell’archivio della “Repubblica”, anche al guscio delle uova (soprattutto sode) e ai carapaci di crostacei e simili, sebbene queste due accezioni non vengano registrate da alcun dizionario italiano. Il verbo sbucciare di conseguenza, oggi viene usato in riferimento a tutti quegli alimenti che presentano un rivestimento definibile come buccia. Nello specifico, ricercando all’interno dell’archivio della “Repubblica” ci si è accorti che il verbo viene applicato nell’uso comune a:

  • Frutta: i frutti più sbucciati sono mele, pere, banane e arance ma non mancano i fichi, i meloni, i cachi, le nespole, i kiwi e altri frutti esotici e di recente importazione come ad esempio mango, litchis e papaya.
  • Verdura: si possono sbucciare i pomodori, le melanzane, i cetrioli, le zucche, i peperoni, e addirittura gli asparagi e i carciofi (per i quali sarebbe forse più appropriato utilizzare il verbo sfogliare).
  • Tuberi e bulbi: soprattutto patate ma anche rape, barbabietole, carote e sedano rapa; agli, cipolle e scalogni.
  • Legumi: sono stati trovati esempi in cui si sbucciano fave e piselli. Nella maggior parte dei casi il termine sbucciare si riferisce alla rimozione del baccello che racchiude il legume, ovvero quello che in romanesco si dice scafa (da cui il verbo scafare), nonché al suo svuotamento (da cui il verbo panitaliano sgranare):

Se la materia prima si trasforma in materia «umanistica» anche pulire la verdura, o sbucciare, anzi, «scafare» i piselli diventa un atto rituale, indispensabile alla riuscita di un’intera liturgia. (Luca Villoresi, Zagarolo, fra pane rumeno e vino, un’alta cucina di sapori antichi, Repubblica.it, 22/11/2003).

In altri casi, il termine può indicare tanto l’eliminazione del baccello quanto quella dell’epicarpo del legume:

[...] comunque, per alcune preparazioni li sbuccio (è la buccia che crea questa reazione, a quanto ho capito). per esempio, quando faccio la zuppa di farro e fagioli (gnam), una volta cotti li passo nello schiacciapatate. un pò [sic] laborioso ma funziona (commento sul forum gennarino.org del 24/8/2004)

Nel caso della frutta secca si può fare un discorso simile, visto che ogni singola varietà presenta caratteristiche differenti. Comunemente la frutta secca ha un guscio che racchiude il seme, ricoperto da una pellicola che spesso viene rimossa attraverso cottura (ad esempio nel caso delle mandorle bollite o tostate). Nella III edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, alla voce buccia si ha una citazione che coinvolge i pistacchi:

Ed i pistacchi, fatti loro ingoiar colla buccia. (Saggi di Naturali Esperienze fatte in Firenze nell’Accademia del Cimento, descritti dal conte Lorenzo Malagotti Segretario di quelli dell’Accademia, e nostro Accademico, p. 268)

Come le noci, anche i pistacchi si mangiano prevalentemente senza privarli dell’epicarpo sottile che li ricopre e dunque buccia sembrerebbe significare ‘guscio’. Nel caso invece delle mandorle risulta più comune l’uso del verbo sgusciare per ‘togliere il guscio’ e del verbo sbucciare per ‘togliere la pellicina’.

Ingredienti: 250 gr. di zucchero, 100 gr. di mandorle dolci e 50 gr. di amare, 2 chiare d' uovo. Preparazione: sbucciare le mandorle, passarle un poco in forno e poi tritarle finissime. (s.f., Mandorle e uova: il segreto è nell’impasto, Repubblica.it, 22/10/2006)

A mezzogiorno Sabatino sbuccia mandorle che compra crude (s.f., Bottega Sirica con le torte anni Sessanta, Repubblica.it, 16/5/2019)

Nel caso delle nocciole (ma anche delle arachidi), visto che il guscio è racchiuso a sua volta da una sorta di baccello che le unisce a coppia, il verbo sbucciare può indicare anche l’azione che riguarda la sua rimozione, come si può notare dall’uso del participio aggettivale nel passo seguente tratto da una descrizione del celebre ritratto dell’imperatore Rodolfo, dipinto da Arcimboldo:

La barba è formata da un paio di ricci di castagne, i denti da fragoline sotto a baffi potenti (nocciole non sbucciate). (Goffredo Silvestri, Quei potenti ridotti a ortaggi a Milano (quasi) tutto Arcimboldo, Repubblica.it, 14/4/2011)

Va fatto un discorso a parte per le castagne, che presentano, oltre al riccio esterno (per cui si hanno a disposizione i verbi diricciare e sdiricciare, sia pure entrambi di basso uso), una scorza coriacea marrone (pericarpo) e la pellicina attaccata al frutto (epicarpo). Attraverso alcune ricerche in rete e confrontando i disciplinari delle castagne con Indicazione Geografica Protetta (come la castagna di Cuneo o di Montella) o con Denominazione d’Origine Protetta (come la castagna di Vallerano), si nota che il pericarpo viene spesso chiamato guscio, alternato a buccia. L’operazione di decorticazione viene denominata però sbucciatura.

La “castagna di Montella” può essere commercializzata anche allo stato secco: in guscio, sgusciata, intera o sfarinata. (Riconoscimento della denominazione d’origine controllata della Castagnadi Montella, "Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana" n. 30, 5/12/1987)

Parte edibile 84-88%; Bucce 12-16%. (Disciplinare di produzione della Denominazione d’Origine Protetta della Castagna di Vallerano, 20/3/2003)

È ammessa inoltre la conservazione tramite sbucciatura e successiva surgelazione. [...]. Le castagne secche sgusciate devono presentarsi intere. (Disciplinare di produzione della Castagna di Cuneo, 13/9/2006)

Per le ricerche su Google (19/12/2019, pagine in italiano) prevalgono numericamente le occorrenze “buccia delle castagne” su “guscio delle castagne”, così come “sbucciare le castagne” prevale su “sgusciare le castagne”. I dati sono significativi se confrontati con quelli di mandorle, noci e nocciole per le quali l’aggettivo “sgusciate” risulta avere molte più occorrenze rispetto a “sbucciate”:


Uscendo dal campo dei prodotti di origine vegetale, il verbo sbucciare viene usato anche con insaccati e formaggi: quest’uso fa riferimento al significato estensivo di buccia registrato nel GRADIT:

Io a Rizzi do 7 a prescindere, perché è l’unico direttore di quotidiano che ho visto sbucciare una fetta di salame con le mani (ma Paolo Mieli merita di essere seguito, promette bene). (Gianni Mura, Hotel desiderio, Repubblica.it, 19/12/1993)

Sbucciare il salame e tagliarlo al coltello a fette spesse (post sul blog caramellosalato.com, 3/5/2017)

Il verbo viene anche usato con crostacei e pesce:

Sbucciare i gamberoni lasciando le teste; cospargerli della buccia grattugiata di lime, sale, pepe, olio e lasciarli marinare per almeno tre ore. Prendere la buccia dei gamberoni e metterli in acqua (s.f., Gamberoni in versione molto speciale, Repubblica.it, 16/11/2009)

Sul porto si vive una piacevole atmosfera, con i pescatori che sbucciano i ricci per i turisti (Paola Migliorino, Salento Antica ‘Isola Magica’, Repubblica.it, 11/7/1994)

Il verbo viene anche frequentemente usato con le uova, specialmente se sode, da cui sbucciare ‘togliere il guscio dell’uovo’:

Si porta l’uovo sodo da casa e lo sbuccia sulla scena del delitto. (Enrico Sisti, Colombo, i quarant’anni di giallo di un tenente improbabile e geniale, Repubblica.it, 24/2/2011)

Nell’archivio della “Repubblica” alcune attestazioni mostrano usi metaforici di sbucciare nel senso di ‘eliminare la carta di rivestimento di un uovo di cioccolata’ e in rete si trova anche quello di ‘staccare la pellicola da un adesivo’. Quest’uso non è del tutto appropriato in quanto l’oggetto della sbucciatura dovrebbe essere l’oggetto racchiuso nella carta, che viene considerata una sorta di buccia:

Sbucciata la carta, spaccato l'ovetto, aperta la capsula appare la sorpresa: un modellino o un piccolo giocattolo in plastica (Stefano Bartezzaghi, Il padre dell’ovetto che covò sorprese per milioni di bambini, Repubblica.it, 31/12/2016)

Sbucciate la carta [dell’adesivo] e poi attaccate sulla parete, aprite dal centro verso sinistra e destra. (post in haytemarket.com)

Per le frasi fisse (o collocazioni), nella “Repubblica” viene registrata con 6 risultati sbucciare la patata bollente cioè ‘affrontare un problema delicato o difficile’, che rielabora il detto passare la patata bollente. Il verbo viene spesso associato alle patate tanto che tra i composti più vitali si registra sbucciapatate. Il GRADIT registra anche sbucciafrutte e sbuccialimoni e sono stati rilevati nel corpus “Repubblica” anche altri lessemi di facile coniazione come sbuccia-aglio, sbuccia-ananas, sbuccia-arance.

Nell’accezione di ‘togliere la buccia’, il verbo si alterna a pelare, derivato per conversione dal sostantivo pelo. Pelare nasce in italiano (già a partire dal 1342 ca.) per indicare l’azione di levare i peli agli animali (nel caso degli uccelli privarli delle penne) e per estensione ‘radere a zero’, ‘tagliare eccessivamente i capelli a qualcuno’ (GRADIT). Il significato di ‘privare della pelle o della buccia, frutta, ortaggi e verdura’, non registrato nelle edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca e nel Tommaseo-Bellini, comincerebbe a essere usato in italiano alla fine dell’Ottocento e sarebbe un francesismo, forse mediato dall’area settentrionale (DELI); nella lingua francese infatti il verbo peler ha come primo significato quello di ‘enlever (à quelque chose) sa partie superficielle’ [togliere a qualcosa la sua parte superficiale]. Ovvero, riferendosi a peau ‘pelle’, ‘ôter la peau’, ‘décortiquer’: peler une pomme, une poire, une banane, des oignons (TLFi Trésor de la langue française informatisé). Negli esempi riportati nel TLFi peler viene associato a pommes de terre ‘patate’, racines ‘radici’, asperges ‘asparagi’ e stando alle definizioni nei vari dizionari italiani sembrerebbe che il verbo pelare venga utilizzato più frequentemente rispetto a sbucciare in rapporto alla verdura.

Quando sbucciamo un frutto, una zucca o peliamo una carota, chiediamoci perché lo facciamo (Julia Binfield, Il lato sexy di bucce e baccelli, Repubblica.it, 2/2/2019)

La vitalità del significato di pelare ‘sbucciare’ è stata probabilmente incrementata, come in francese, dall’associazione paraetimologica con pelle finendo per indicare la parte che riveste la frutta e la verdura, soprattutto se sottile come nel caso di mele, pere, patate, carote ecc. In molte varietà regionali italiane infatti, l’epicarpo della frutta e della verdura viene più frequentemente chiamato pelle anziché buccia (cfr. quanto si legge nel portale Teccani per i sinonimi regionali di buccia). Nel questionario LinCi vòlto a descrivere le varietà regionali delle maggiori città italiane, la domanda n. 145 (‘sbucciare [le patate]’) offre una panoramica che vede al Nord un sostanziale equilibrio tra le forme sbucciare e pelare, accanto al quale si trova anche spelare (che si può considerare derivato da pelare con s- intensiva, o anche da pelo, con lo stesso procedimento visto per sbucciare). A Genova viene registrato anche mundà, riscontrato nella forma italiana mondare nelle province toscane più prossime alla Liguria come Massa e Lucca ma anche Prato e Pistoia. Al Centro si preferisce sbucciare mentre man mano che si scende verso il Meridione si affianca il tipo capà-capare.

L’appropriatezza del verbo pelare però, seppur da alcuni ritenuto scorretto, è ormai un dato certo: basti pensare che con una verdura come i pomodori si è avuta la lessicalizzazione del participio passato pelato (ad es. una scatola di pelati) con cui si indica un pomodoro lessato a cui non necessariamente è stata tolta la pelle:

Se negli anni ’80 il celebre pomodoro oblungo ‒ che si chiama pelato anche prima d’essere sbucciato e messo in lattina ‒, rappresentava la metà del consumo italiano dei prodotti lavorati, oggi è poco sopra il dieci per cento. (Emilio Marrese, Pomodoro pelato addio. Anche in Italia è schiacciato dai sughi pronti, 17/11/2016)

L’associazione con la verdura dalla buccia sottile si coglie anche dalla maggiore fortuna che ha il composto pelapatate rispetto a sbucciapatate: nelle pagine in italiano di Google (ricerca del 20/12/2019), le occorrenze di pelapatate sono 387.000 mentre quelle di sbucciapatate 14.500. Nel corpus della “Repubblica” sono stati trovati anche altri composti simili: pela-mela (con 3 risultati risalenti al 2005, 2011 e 2012), pela-carote, pela-cipolle. Per quanto riguarda le frasi fisse, pelare a vivo cioè ‘togliere la buccia e la pellicina ad arance o agrumi tramite un coltello’ è un sintagma fisso non registrato nei vari dizionari italiani ma che ormai è entrato nell’uso comune dall’ambito della cucina. In questo caso il verbo non può essere sostituito da sbucciare: su Google (ricerca del 20/12/2019) pelare a vivo ha 5.160 occorrenze mentre sbucciare a vivo solo 516; sulla “Repubblica” pelare (anche nei participi passati) a vivo ha 15 risultati mentre sbucciare (e participi) a vivo non ha alcuna occorrenza.

Alcuni lettori ci chiedono inoltre se sia corretto l’uso pronominale del verbo sbucciare (e includiamo anche pelare) in frasi del tipo: mi sbuccio una mela, mi pelo un’arancia. In italiano l’uso di pronomi personali intensivi associati a verbi transitivi non è infrequente e serve a sottolineare un coinvolgimento particolare del soggetto: mangiarsi una pizza, fumarsi una sigaretta, ascoltarsi una canzone (a tal proposito si legga la risposta di Massimo Bellina). Come afferma Bellina: “si tratta di un uso proprio del registro familiare e colloquiale, diffuso soprattutto nell’italiano centro-meridionale, generalmente ammesso nel parlato ma inopportuno negli scritti più formali e sorvegliati”.

Infine, l’uso pronominale del verbo sbucciare è obbligatorio nel significato di ‘ferirsi superficialmente una parte del corpo’ (GRADIT), usato sia transitivamente (“mi sono sbucciato il gomito”) sia intransitivamente (“Ti sei fatto male?” “No, mi sono solo sbucciato”). Quest’accezione è ben attestata nell’italiano letterario, come si vede dagli esempi tratti dal GDLI:

Non appena si sbucciano un dito / chiamano / una schiera di dottori (Aldo Palazzeschi, Cuor mio, ediz. Milano 1968, p. 151).

Ad un tratto era caduto...sbucciandosi un ginocchio (Giorgio Bassani, Le storie ferraresi, ediz. Torino 1964, p. 11).

Si tratta di attestazioni novecentesche e infatti il verbo sbucciarsi ‘escoriarsi’ non è presente nelle edizioni del Vocabolario della Crusca e neanche nel Tommaseo-Bellini. Controllando però il verbo dibucciare (sempre da buccia, con un altro prefisso privativo), solo nel lemmario della V edizione del Vocabolario (1923) si rileva un significato affine a quello di ‘escoriarsi’ associato anche all’uso riflessivo di sbucciare: “Neutr. Pass. Propriamente perdere la buccia, Sbucciarsi: ma trovasi usato solo per similit. e figuratam., riferito alla pelle del corpo umano” così come dibucciato fa riferimento sempre alla pelle umana: “Per similit. e scherzevolmente detto di volto, vale spellato, scorticato”. Questo significato deriva comunque da un’accezione estensiva di buccia con cui si indica per metafora la ‘pelle umana’. Nel questionario LinCi, alla domanda n. 38 (‘sbucciarsi [il gomito]’) si affiancano a sbucciarsi, attestato in tutte le città del progetto, verbi che presentano, oltre al suffisso privativo s-, una base etimologica con cui si indica per metafora la pelle umana: scorticarsi, sgusciarsi, scrostarsi, da corteccia, guscio, crosta. Accanto a sbucciarsi, che è la forma maggiormente registrata, si ha frequentemente spellarsi (attestata al Nord, al Centro e al Sud), e al Nord spelarsi (la forma pelarsi è registrata a Cuneo). Come nel significato di ‘togliere la buccia a frutta e verdura’ anche in questo caso sbucciarsi trova sinonimia nel verbo pelarsi, entrato solo recentemente nei dizionari italiani (infatti è assente nel GDLI) con il significato di ‘lacerarsi, spellarsi in seguito a una caduta, per un’eccessiva esposizione al sole’ (GRADIT) ovvero ‘spellarsi, escoriarsi: strisciando sull’asfalto mi sono pelato un braccio’ (Zingarelli 2020). Questo significato potrebbe derivare dal significato di pelare ‘scottare o intirizzire l’epidermide’ ovvero ‘produrre una sensazione dolorosa e intensa di caldo o di freddo, dando l’impressione di strappare la pelle, i capelli, i peli (per lo più di fenomeni atmosferici)’ nel GDLI con esempi risalenti al Quattrocento. Oppure come nel significato precedente, anche in questo caso si tratta di una neosemia proveniente dal francese in cui, a partire dall’Ottocento peler indicava ‘perdre son épiderme par parcelles’ [perdere la propria epidermide in piccole parti].

In definitiva il verbo sbucciare ‘togliere la buccia’ può essere applicato alla frutta e agli ortaggi in generale. Per alcuni legumi e per la frutta secca si alterna a sgusciare e a pelare (quando indica ‘eliminare la sottile pellicina’) mentre per la castagna si preferisce il verbo sbucciare a sgusciare visto che la scorza della castagna è più comunemente chiamata buccia e non guscio. Si registrano esempi in cui sbucciare viene usato anche con insaccati, crostacei, uova sode e carte di rivestimento. Sempre con questo significato si alterna a pelare, che è preferito quando si parla di verdura (pelapatate e il (pomodoro) pelato) ma ricorre anche con la frutta, almeno in certi contesti fissi (pelare a vivo un’arancia). Per quanto riguarda l’uso pronominale di sbucciare (e pelare), esso è frequente nel registro colloquiale, familiare e non si può ritenere scorretto in quanto la lingua italiana necessita di costruzioni di questo tipo quando si vuole sottolineare un particolare coinvolgimento affettivo del soggetto. L’uso pronominale di sbucciare può avere anche il significato, ben attestato nella lingua italiana a partire dal Novecento, di ‘escoriarsi’. Recentemente si sta registrando anche il verbo pelarsi nel senso di ‘escoriarsi’ probabilmente per il riferimento all’eliminazione di peli (e poi pelle) a causa di eccessivo freddo o caldo.

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