Incontri e tornate

Ricordo di Gianfranco Folena

  • Gian Luigi Beccaria
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2021.7526

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Gian Franco Folena resta l’indimenticabile maestro di quanti di noi si sono dedicati allo studio della Storia della lingua italiana, disciplina che Folena aveva cominciato a insegnare a Padova nel ’54. Nel ’53 già ci aveva coinvolto la novità di un libro preparato con Migliorini, i Testi non toscani del Quattrocento. Nei decenni successivi ci coinvolse ancor più nelle sue iniziative culturali (Bressanone, il Circolo linguistico e filologico padovano), e ci mise frattanto in contatto coi suoi eccezionali allievi, con una scuola che per numero qualità e personalità delle voci non ha avuto poi, nel secondo Novecento, uguali in Italia.

Tutto nasceva in dipendenza di meriti, di doti ben sue: la capacità di saper esaltare le qualità di ogni giovane allievo, come mostra tra l’altro il fatto di aver avuto scolari che hanno lavorato sui temi più differenti, dal Medioevo al Novecento, dalla filologia romanza alla storia della lingua. Il fascino di Folena non risiedeva soltanto nella sua grande dottrina, e curiosità intellettuale, ma anche direi in quel suo fare paterno, fraterno, affettuoso, come stimolo quotidiano e continua sollecitazione capace di trasmettere l’entusiasmo per la ricerca e per le aperture pluridisciplinari di cui la sua scuola, e non solo la sua, fece tesoro.

Animava in modo impareggiabile i mercoledì del Circolo filologico e linguistico padovano, vi si andava (lo ricordava Mengaldo)  più che per sentire il relatore, per sentire Folena e i suoi interventi: travolgenti, trabordanti, prodigiosamente ricchi di cultura e di letture, e che lui porgeva, con l’imperio della sua voce autorevole e robusta, in lunghi interventi, distesi e pervasivi, affabulatori, diffusamente narrativi, digressivi, che arricchivano e stimolavano chi li ascoltava.

Cadevi nelle sue reti. E anch’io gli sono riconoscente per  esservi stato trascinato. L’occhio suo affettuoso guardava generoso ai nostri primi lavori, e questo dava fiducia a noi giovani alle prime armi. Aveva una grande capacità di ascoltare, di disporsi con benevolenza verso le novità che anche i meno attrezzati, come noi allora, gli potevamo suggerire. Per cui lo ricordo ora certo come scienziato sommo, ma a questa immagine si sovrappone in me sempre quella indimenticabile dell’uomo, paterno e severo, cordiale e rigoroso, dalla socratica capacità di scovare sempre qualcosa di buono e di entusiasmante nelle cose che gli si comunicava.

Ho molti ricordi di lui. Ne cito uno soltanto, perché fu il mio battesimo, indelebile perché era la prima volta che mi toccava di parlare in pubblico: e fu a Padova, ad un mercoledì del Circolo (era il maggio del ’66), tema dell’incontro “Lo spagnolismo nei testi letterari italiani del ’500 e ’600”; preannunciava il libro che sarebbe uscito due anni dopo. Ero molto emozionato già per il fatto di avere accanto uno come Folena che ti ascoltava,… ma come se non bastasse ecco che a un certo punto compare sulla soglia, dopo mie poche battute introduttive, la barba di Tagliavini, con sommo stupore anche di Folena: tra i due, si sa, non correvano idilliaci rapporti, e Folena in un orecchio mi sussurrò: “È la prima volta che Tagliavini varca questa soglia”. Non caddi nel panico per fortuna, superai l’imbarazzo davanti a quella barba famosa. Non l’aveva certo attratto il mio nome, ma il tema lo interessava. Fu una giornata per me memorabile: la sera poi Folena mi accompagnò sino a tardi per le strade di Padova, illustrandomi ogni palazzo, piazza, chiesa… vagabondammo, come anni dopo rifacemmo nelle strade di Madrid, quando lo accompagnai a sera molto tarda ad ascoltare flamenco, nostra comune passione.

Seguirono poi gli anni di Pordenone: là grazie sua conobbi scrittori, poeti, da Giudici, a Bandini, a Fortini, che la sera ci intratteneva recitando con eloquenza poesie sotto l’arcata risonante d’ingresso al Duomo. Non esisteva ancora il web, ma la rete era già Folena stesso: per suo tramite, attraverso i suo fili, ci si collegava non soltanto con lui, ma era lui che ci allacciava con tutto un mondo di intellettuali e studiosi (conobbi grazie a Folena l’indimenticabile Francesco Orlando), e ci allacciò con la fucina dei suoi meravigliosi allievi, miei coetanei, Mengaldo, Limentani, Renzi, e Paccagnella, e altri ancora, restati amici di una vita, legame che continua non solo con quei figli suoi ma anche cogli attuali bravissimi vitalissimi nipoti…

Altre consonanze: accenno appena a chi come me e come altri nei propri studi si interessava di “periferici” rispetto alla centralità toscana. Si trovava nutrimento immediato e guida nel Folena toscano che nei suoi lavori si collocava costantemente in periferia, guardando al cerchio più che al centro: prima, la lingua di uno scrittore meridionale, Sannazaro, visto in rapporto col particolare ambiente dialettale e culturale napoletano; poi uno studio di un testo siciliano, la Istoria di Eneas, trascrizione di un volgarizzamento toscano dell’Eneide, allo scopo anche di valutare una situazione culturale e sociolinguistica siciliana; poi il milanese quattrocentesco di un bizzarro viaggiatore fiorentino; poi l’esperienza linguistica di un Goldoni, ma anche la Bibbia padovana, e Dante certamente, e Petrarca, ma Dante a Padova, Treviso e Vicenza, Dante e il primo imitatore veneto, Giovanni Quirini; e Petrarca volgare, ma la sua ricezione e fortuna e imitazione nella “schola” padovana; infine il veneziano, ma al di là del mare; e anche quando studiava il toscano, nei Motti e facezie del piovano Arlotto, trattava di un testo di tradizione popolare che era fuori dei canoni letterari toscani.

Quanto al modo e al metodo di lavorare, me la sbrigo in un attimo. Il recente grande Convegno di Padova l’ha ampiamente illustrato, e dunque non mi soffermo più di tanto. Dico soltanto che Folena ha dato un senso alla storia della lingua soprattutto come storia di scambi e di costruzioni politiche, sociali ed economiche oltre che letterarie e culturali in senso specifico, pur lavorando sempre con aderenza attentissima e primaria ai documenti e ai testi. Della storia della lingua ha fatto una scienza storica: storia di una società, storia del costume, della moda e dei commerci, storia di una civiltà, di una cultura. Se affrontava testi letterari, non prestava tanto attenzione all’individuo creatore, ma all’individuo e la sua lingua nel momento in cui si fa società e tradizione.  Una scienza descrittiva come la nostra lui l’ha ritessuta costantemente secondo una prospettiva storica e di vita associata, come mostra il più stimolante dei suoi libri, L’italiano in Europa (1983, ora ristampato da Franco Cesati a cura di Daniela Goldin), dove ci ha insegnato come le idee generali, le nuove concezioni della politica e della vita civile si evidenzino meglio se ripercorse su tutta la fisionomia del lessico, delle parole-guida relative alla vita associata: quei termini rilevanti che nel Settecento si rinnovarono, mutarono di significato (nazione, patria, opinione pubblica, progresso e tutta una nutrita serie di importanti parole-testimonio). A studiare incontri, rapporti, confluenze lo avrà, credo, aiutato il fatto di esser capitato a svolgere il suo lavoro in un’area culturale, il Veneto, predisposta da secoli all’incontro vivace e profondo di correnti culturali e linguistiche, territorio vario e stratificato, con una Venezia poi aperta al mare e all’entroterra, crocevia della cultura europea, tramite tra occidente latino e oriente bizantino e slavo, un’area appunto di circolazione vastissima.

Correnti culturali e linguistiche, vita associata, stratificazioni, fatti di lingua inseriti in una rete contestuale di relazioni, rapporti, influssi, antagonismi, azioni e reazioni: Folena è sempre stato convinto che la storia linguistica non si può fare senza tener conto di movimenti, tensioni e interazioni tra livelli sociali e linguistici differenti. Varietà e dinamismo linguistico, questa tematica ben sua (tra i ricordi felici ricordo la felicità e la verve di Folena la sera in cui alla “Libreria del sole” a Torino il sottoscritto, Maria Luisa Doglio e Ivano Paccagnella discorremmo di questi temi presentando il suo volume Linguaggio del caos) è stata esemplarmente portata da Folena a fior di lingua nei suoi luminosi studi su Goldoni, là quando dimostra che la visione del dialetto di Goldoni non è una realtà, come se fosse una trascrizione fonografica di una parlata, ma una rappresentazione, una figura dell’oggetto, poiché il fondamentale problema linguistico di Goldoni era un problema di lingua e società, di lingua e pubblico, un problema di comunicazione con un pubblico teatrale al quale Goldoni doveva provvedere lo strumento linguistico adatto, che ancora non c’era, né la tradizione letteraria poteva offrirgli; per cui Goldoni inventa una lingua teatrale fantasma-scenico che ha la vivezza di un parlato (venetismi, regionalismi lombardi, francesismi accanto a modi colloquiali toscani) che deve convivere con l’altro strato sociolinguistico che proponeva le dorature delle stilizzazioni auliche: baruffa e pettegolezzo, lingue delle comari e motteggio devono convivere con l’artificio e l’affettazione della lingua dei cavalieri, dei cicisbei e delle dame prudenti e delle donne di merito, e dunque, poiché un italiano teatrale e medio e comune in Italia non c’è, occorre inventare un “come se” di italiano, una ipotesi persuasiva "fondata su un presupposto di intelligibilità comune". Questo l’asse portante di quei meravigliosi studi foleniani.

La sua ricerca si è mossa lontano da interessi speculativi, teorici, troppo avulsi dai concreti contesti legati a un costume, a una società e alla variabilità della comunicazione. Si cita in prosito spesso la modestia con cui concludeva l’ultima lezione del suo insegnamento padovano: "ho sempre preferito il commercio al minuto, il particolare al generale, o meglio cercare il generale nel particolare". Ma viaggiando tra particolare e generale, il Folena che si occupava di testi letterari, non si allontanava mai dall’idea del circolo - dal cerchio al centro e dal centro al cerchio -, dall’idea voglio dire che niente è nella lingua che prima non sia stato un fatto stilistico, ma anche che ogni fatto stilistico, ogni scelta è sempre condizionata dal sistema linguistico. Comunque sia, Folena non è stato uno studioso che abbia sofferto di eccessiva passione per i concetti. Lo guidava nel fondo l’idea portante, già spitzeriana, che “tutto si tiene”. Anche le parole si tengono, ribadiva in una nota al suo ben noto intervento su “monello” apparso nel ’56 in “Lingua nostra”, dove scriveva: «se ogni parola ha un’anima individuale e una storia particolare, è anche vero che questa storia non è mai un aneddoto ma è legata a quella di molte altre ed è un po’"la storia di tutte”», secondo quel felice paradosso di Spitzer, che per l’appunto recitava: «la conseguenza del detto “Ogni parola ha la sua storia” è che ”La storia di una parola è anche quella di un’altra”». Il tout se tient, in Folena sempre dominante, mi rimanda poi 1) ad un suo punto di vista metodico, che si coglie per esempio, e assai bene, nel caso già citato degli studi goldoniani dove il testo del grande scrittore di teatro gli dà modo di riflettere su alcuni problemi non marginali, anzi diremmo costituzionali della nostra lingua se non della lingua in generale (popolarità e non-popolarità, letterarietà e antiletterarietà e non-letterarietà, innovazione e tradizione, lingua parlata e lingua scritta, dialetto e lingua comune, nazionalismo o tradizionalismo o cosmopolitismo linguistico 2) un tout se tient dicevo, che infine mi rimanda ad un’altra sua scelta, d’altro tipo certo: mi riferisco a un suo merito sommo, a quell’aver continuamente ribadito nei suoi lavori, nella sua attività didattica e di ricerca, l’unità di filologia, storia della lingua e linguistica, quella che oggi, per la sempre più grande specializzazione settoriale, si va man mano perdendo; battaglia perduta del resto, come sanno bene quei pochi che ancora cercano vanamente di sostenerla tentando di seminare in ettari ormai troppo vasti invece di zappare in un più limitato orticello… ma ora, è imprescindibile scelta, le settorializzazioni e le specializzazioni sono diventate prevalenti, e le visioni d’insieme si vanno smarrendo. Folena è uno degli ultimi luminosi esempi di quelle capacità interdisciplinari che tanto gli invidiammo e che seguitiamo ad ammirare nel suo magistero.