DOI 10.35948/2532-9006/2023.27924
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Le polemiche contro l’uso sessista della lingua hanno una storia più che trentennale. All’origine (1987) c’è un aureo libretto di Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, risultato di un’indagine sulla terminologia specifica ricorrente nei libri di testo e nei media. La ricerca metteva in risalto la prevalenza “storica” nella lingua italiana del genere maschile, che si manifesta in nomi usati con doppia valenza, ritenuti validi per il maschile e per il femminile; tale prevalenza di fatto annulla in moltissimi casi la presenza del soggetto femminile. Con forza veniva sottolineato il mancato uso di termini istituzionali e di potere declinati al femminile (ministra, sindaca, assessora, ecc.) e per conseguenza il prestigio intrinsecamente accordato al termine maschile a scapito del corrispettivo femminile (non usato o usato pochissimo e in maniera saltuaria). Il libro conteneva delle Linee guida (con precisi suggerimenti operativi) rivolte alle scuole e all’editoria, volte a favorire l’eliminazione delle discriminazioni di genere dal linguaggio.
Ecco alcune raccomandazioni a proposito di titoli, cariche, professioni e mestieri. 1.Evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche, per segnalare posizioni di prestigio quando esiste il femminile. Ad esempio: no "Maria Rossi, amministratore unico (di grandi aziende, società, ecc.)", sì "Maria Rossi, amministratrice unica (di grandi aziende, società, ecc.)"; no "Maria Rossi, procuratore legale", si "Maria Rossi, procuratrice legale"; no "Maria Rossi, ambasciatore", sì "Maria Rossi, ambasciatrice". 2. Evitare di usare al maschile nomi di cariche che hanno la regolare forma femminile. Ad esempio: no "il senatore Maria Rossi", sì "la senatrice Maria Rossi"; no: "il notaio Maria Rossi", sì "la notaio Maria Rossi"; no "Maria Rossi, ricercatore universitario", sì "Maria Rossi, ricercatrice universitaria"; no "il commendatore Maria Rossi", sì "la commendatrice Maria Rossi". 3. Evitare di usare al maschile, con articoli e concordanze maschili, nomi che presentano la medesima forma, con doppia valenza maschile e femminile. Ad esempio: no "il giudice Maria Rossi", sì "la giudice Maria Rossi"; no "il parlamentare Maria Rossi", si "la parlamentare Maria Rossi"; no "il preside di Facoltà Maria Rossi", sì "la preside di Facoltà Maria Rossi". 4. Evitare di usare al maschile o di femminilizzare con il suffisso –essa nomi di professione che hanno un regolare femminile in –a. Ad esempio: no "il deputato Maria Rossi", sì "la deputata Maria Rossi"; no "il magistrato Maria Rossi", sì "la magistrata Maria Rossi", no "il ministro Maria Rossi", si "la ministra Maria Rossi", no "il sindaco Maria Rossi", sì "la sindaca Maria Rossi". Ulteriori indicazioni, costruite sulla base dei medesimi criteri, offrivano un vero e proprio amplissimo campionario a disposizione di parlanti e scriventi intenzionati a sottrarsi al prevalente uso sessista della lingua, a volte praticato anche preterintenzionalmente.
Come capita alle novità importanti, il libro fu oggetto di apprezzamenti e di critiche e aprì un dibattito reale sui temi trattati: dietro le parole che utilizziamo c’è il mondo, evocatore di questioni che non sono solo linguistiche. Il libro fu ripubblicato a Roma nel 1993, sotto l’egida della Presidenza del Consiglio dei Ministri, all’interno della Commissione Nazionale per le pari opportunità tra uomo e donna, corredato tra l’altro da un saggio di Francesco Sabatini, significativamente intitolato Più che una prefazione (i due Sabatini non sono imparentati, a dispetto della omonimia nel cognome). Fu un segnale importante, la discussione era ormai entrata nella società e a livello istituzionale.
Ancora oggi, permangono al riguardo opinioni molto diverse, anzi contrapposte. Molti esprimono perplessità di fronte a forme femminili sentite come inusitate, giudicate manifestazioni di una sorta di ipersindacalismo linguistico ("le differenze non si eliminano con trucchetti terminologici"). Inoltre frequentemente affiorano valutazioni che potremmo definire di tipo estetico: i nuovi sostantivi femminili appaiono “brutti”, “non piacciono”, di conseguenza risultano inaccettabili. Nel dicembre 2016 Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, durante il discorso di ringraziamento per un premio che gli era stato attribuito, rivolgendosi con tono fermo a Valeria Fedeli, ex ministra all’Istruzione, disse: "Valeria non si dorrà se insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca". Un applauso accolse le sue parole, evidentemente condivise da uomini e donne di varia cultura e ideologia. Infine c’è chi ritiene che declinando una carica al femminile si perda una parte del prestigio intrinseco alla carica o si rischi di essere meno rispettate. Come se la declinazione al femminile fosse in qualche modo sminuente per quella persona. Giorgia Meloni vuole essere qualificata come “il presidente”, rivendicando la parità ideologica di genere proprio con l’adozione del maschile. Sinistra e destra non differiscono granché, nei due episodi che abbiamo ricordato.
Sul versante opposto si collocano molti che rivendicano orgogliosamente l’uso dei nomi femminili come simbolo di un’insopprimibile esigenza paritaria, originata da profondi rivolgimenti sociali. Per la prima volta nella storia, le donne raggiungono posizioni di responsabilità un tempo esclusivamente maschili. Non suscitano perplessità parole come cuoca, infermiera, maestra, sarta, ecc.; le donne praticano da sempre quelle attività, troviamo ovvio e naturale parlare cosi. In ambito sportivo, non generano obiezioni sciatrice o nuotatrice (qualcuno definirebbe Sofia Goggia sciatore o Federica Pellegrini nuotatore?). Analogamente, argomentano molti, poco alla volta, ci abitueremo a magistrata, rettrice, architetta, ecc. La fine della discriminazione, il trionfo dell’inclusività, l’annullamento del differente trattamento linguistico riservato ai generi possono essere obiettivi della società intera. Ci collochiamo su questa strada quando diciamo "Care colleghe, cari colleghi", "Care studentesse, cari studenti" (non è un obbligo, semmai un invito che ricalca il tradizionale "Signore e signori").
Alcuni si spingono oltre. Nella volontà di “opacizzare” il genere grammaticale, si ricorre ad artifici diversi, sostituendo in vari modi la terminazione tradizionale di nomi e aggettivi. Alcuni usano l’asterisco in fine di parola, in forme come "Car* collegh*" e "Car* tutt*"; oppure ricorrono allo schwa, come in "Carə studentə"; oppure ancora adottano come finale anche il numero 3, come in "Quello che è successo di riguarda tutt3, a prescindere dal colore politico di ognun3 di noi". Non sappiamo se questi stratagemmi prevarranno (la lingua appartiene a tutti e non ammette forzature), ma le finalità paiono condivisibili. Bisogna tuttavia chiedersi fin dove è possibile inoltrarsi. Resto perplesso quando leggo che proprio in questi giorni nel mondo anglosassone, ci si pone il problema di definire il genere (grammaticale) di Dio e ci si chiede se sia ancora il caso di intercedere presso il "Padre nostro" (al maschile, finora). In Germania, un gruppo di giovani progressisti propose un paio d’anni fa di cambiare il pronome relativo maschile "Der" con il neutro "Das" quando si nomina la Divinità. La faccenda è complicata, non solo linguisticamente. Come si potrebbe cambiare il "Padre nostro", preghiera ed espressione indicata direttamente da Gesù? ("Voi dunque pregate così"). Discutere del sesso di Dio richiama alla mente le medievali discussioni sul sesso degli angeli, inconcludenti e interminabili (lo dico con il massimo rispetto e senza nessuna competenza teologica). A volte anche opinioni all’origine condivisibili possono generale effetti esagerati, o forse ridicoli.
Per concludere. È giusto e opportuno, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte relative al genere, evitando ogni forma di sessismo. Ma, per raggiungere l’obiettivo, non si può forzare la grammatica mettendola a servizio di un’ideologia. Trasferire brutalmente nella lingua posizioni ideologiche non è possibile, le estremizzazioni non sono opportune né offrono soluzioni effettive al problema della mancata inclusività, che è un fenomeno sociale da affrontare con strumenti idonei.