Temi di discussione

Passato, presente e futuro dei dialetti e dell’italiano

  • Vittorio Coletti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2025.41592

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2025 Accademia della Crusca


Abstract

In occasione della Piazza delle lingue 2025, manifestazione annuale della nostra Accademia, quest’anno dedicata ai dialetti in letteratura, teatro e musica, l’Accademico Vittorio Coletti ha pubblicato sull’Huffpost del 15 novembre l’articolo che, per gentile concessione dell’editore, ripubblichiamo qui – con un titolo diverso e con minime modifiche – come Tema.



A Firenze si festeggia questa settimana l’annuale Piazza delle lingue, una delle due grandi manifestazioni d’autunno (l’altra, precedente, è dedicata all’italiano nel mondo) con cui l’Accademia della Crusca cerca di promuovere la conoscenza, la qualità d’uso e lo studio della nostra lingua. Non solo della lingua nazionale, però; anche dell’intero patrimonio linguistico italiano, arricchito e articolato, come si sa, in decine di lingue locali: i dialetti. E ai dialetti è proprio dedicata la Piazza di quest’anno, che si occupa in particolare del loro uso letterario, nel teatro e in musica. 

Cinquant’anni fa Pasolini vedeva nella crisi dei dialetti il segno di quella di una civiltà povera ma dignitosa e plurale, soppiantata da una ricca ma volgare e conformista, il passaggio dalla verità dei prodotti della terra alla finzione di quelli dei supermercati. Giusta o sbagliata che fosse la sua diagnosi, la prognosi non è stata corretta, perché i dialetti non sono morti e in certe regioni restano abbastanza vivi anche nell’uso quotidiano. Pochi notano che lo sono soprattutto dove la lingua locale ha una struttura fonomorfologica non troppo diversa da quella dell’italiano, che consente di passare dalla lingua al dialetto e viceversa con molta facilità (per questo resistono meglio a Roma e nel Sud o, nel Nord, in Veneto, ma peggio nel Nord-ovest). 
I dialetti sono stati persino rilanciati da una politica secessionista, che non ha avuto successo ed è stata abbandonata dagli stessi che l’avevano lanciata (Lega), ma è servita a riabilitarli anche nelle aree (appunto del Nord-ovest) dove erano più trascurati. Sull’onda del separatismo leghista qualcuno si è spinto persino a esigere per essi di nuovo il nome di lingua, che ovviamente non si può negare (i dialetti sono lingue a tutti gli effetti), ma non deve far dimenticare che lo sono in dimensioni molto contenute (sia geografiche che sociali, che di uso), tanto che non è neppure giusto parlare di una lingua lombarda o ligure o emiliana, perché fatte di molti dialetti anche assai diversi tra di loro.

In ogni caso, i dialetti sopravvivono, ma non prosperano, e non è detto che sia solo un male, anche perché i motivi per cui, diversamente da Pasolini, non entusiasmavano Calvino restano tutti: coprono segmenti limitati della comunicazione (molto parlata e poco scritta), consentono alta espressività ma hanno modesta efficienza informativa (chi userebbe il dialetto per una diagnosi medica?), stanno in spazi ridotti di interscambio. Tuttavia, nella storia linguistica d’Italia, i dialetti sono stati coprotagonisti. Nel Medioevo, quando tutte le lingue locali si chiamavano volgari (anche il fiorentino futuro italiano), se la giocavano con quella di Firenze quasi alla pari. Dopo il Cinquecento sono regrediti di nome e di fatto al rango di dialetti (cioè, di lingue che non soddisfano tutte le esigenze comunicative di una comunità), ma hanno conservato quel tratto del linguaggio che l’italiano, estraneo a tanti cittadini non toscani, non copriva con efficacia: quello della quotidianità, delle emozioni più intime, dei colori della strada. 

Di qui, come ricorda la Piazza delle lingue di quest’anno, la fortuna dei dialetti in poesia, a teatro e in musica. I più grandi uomini di teatro in Italia (da Ruzante a Goldoni, da Eduardo De Filippo a Dario Fo) hanno lavorato con il dialetto, lo hanno usato puro o mescidato, perché più adatto della lingua a esprimere il discorso della realtà in un Paese come il nostro, in cui l’italiano è diventato davvero nazionale e di tutti solo dal secondo dopoguerra. E in dialetto hanno scritto alcuni tra i più grandi poeti italiani, sia una poesia non lirica, ma realistica, corposa, sociale (come Carlo Porta e Giuseppe Gioachino Belli, con Leopardi i maggiori poeti del nostro Ottocento), sia una poesia intima, che parla il linguaggio dell’anima e dei ricordi, o che prende di petto la realtà da dentro il cuore del poeta, come hanno fatto i grandi dialettali del secolo scorso: Biagio Marin, Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Edoardo Firpo, Albino Pierro e ovviamente lo stesso Pasolini, poeti di razza non inferiore a quella dei sommi in italiano. Anche la canzone, specie quella d’autore, ha fatto ricorso al dialetto come voce dell’autenticità umana e dei rapporti sociali diretti e lingua degli ultimi: basti ricordare il grande Fabrizio De André. Chissà che cosa penserebbe Pasolini, che temeva che l’italiano consumistico spegnesse i dialetti, vedendo che invece oggi rischia di essere sopraffatto a sua volta dall’inglese e di diventare anch’esso un dialetto, lingua del bar o della cucina, mentre i discorsi socialmente importanti, la conoscenza scientifica, l’insegnamento accademico si diranno solo in un inglese globish! 

I dialetti non sono morti, anche se non sono più tornati ad essere delle lingue, nel senso di idiomi capaci di coprire tutti i bisogni della comunicazione, i più alti e complessi e i più semplici e bassi. Nessuno più oggi parlerebbe di filosofia in dialetto, come facevano Alessandro Manzoni e i suoi amici, trovandosi poi in difficoltà la volta in cui, aggiuntosi alla compagnia un non milanese, avevano dovuto passare all’italiano “finito”. I dialetti non posseggono più il vocabolario della modernità avanzata, anche se conservano quello dell’umile realtà umana di sempre. Oggi, però, l’italiano sembra avviarsi a seguire la loro strada: continuare a fornire le parole dell’intimità e della strada e restare fuori dai palazzi del potere, della scienza, della conoscenza. Potrebbe essere un guaio grosso, perché la crisi funzionale dei dialetti riguardava comunità limitate e a volte molto piccole, con danni quindi modesti; quella dell’italiano riguarderà un’intera, grande comunità nazionale, che rinuncia alla sua lingua e alla sua storia, per farne un dialetto, non pensa più in essa, o perlomeno, se ci pensa, poi non la usa quando deve comunicare i suoi pensieri più complessi e importanti.

Ma, comunque vadano a finire le cose (si sa che le profezie dei linguisti non sempre hanno fatto centro), è giusto e bello non dimenticare il contributo dei dialetti alla storia del nostro patrimonio linguistico e al prestigio della letteratura italiana. Se, tra qualche centinaio di anni, l’italiano, uscito dagli usi cόlti e ufficiali della nazione, si salverà almeno in letteratura, teatro e musica come hanno fatto i dialetti, mi sa che potremmo metterci la firma.