DOI 10.35948/2532-9006/2021.14658
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L’espressione avverbiale a babbo morto trae origine da una particolare forma di prestito praticata anticamente dagli usurai nei confronti di giovani che, trovandosi in disastrose condizioni economiche, avrebbero restituito la somma di denaro ricevuta solamente dopo la morte del padre, cioè dopo la riscossione dell’eredità familiare. Si sottintende quindi che il debito in questione venga saldato in tempi molto lunghi. Proprio per questo motivo, il significato si è esteso scherzosamente a indicare, come si afferma nel GRADIT, "acquisti e simili con lunghe e improbabili dilazioni di pagamento", o, addirittura più ironicamente, come si legge sul Dizionario dei modi di dire della lingua italiana di Lapucci, "dare un prestito a fondo perduto". Attualmente, nel linguaggio, ci si riferisce a qualsiasi pagamento, conto o debito che preveda attese molto lunghe per la riscossione, la quale potrebbe anche non avvenire mai. Tra le costruzioni verbali registrate si segnalano: pagare a babbo morto, prendere soldi a babbo morto, restituire a babbo morto, dare soldi a babbo morto.
Il DELI registra la prima attestazione di questo particolare modo di dire nel Dizionario universale, critico, enciclopedico della lingua italiana del 1797,dove Francesco Alberti di Villanova scrive "contratto a babbo morto". Successivamente, soltanto nella quinta edizione del suo vocabolario (1863-1923), l’Accademia della Crusca accoglie il sostantivo babbomorto (con univerbazione), definendolo come ‘Debito che si fa con gli usurai dai figlioli di famiglia, obbligandosi a pagarlo dopo la morte del padre’, e segnalando come esempio ‘Per prendersi quel semplice trastullo […] Dovrà farsi uno scrocchio (= prestito ad usura), un babbomorto’ tratto dal poemetto La civetta (1799) di Filippo Pananti. Tuttavia, nella definizione si aggiunge che ‘s’usa però più comunemente nei modi avverbiali Prendere, Dare, Prestare danari a babbo morto’.
Il detto, come immediatamente ci suggerisce la parola babbo, nasce in Toscana, dove è ancora oggi molto diffuso. In questo contesto regionale, esso si allontana dal significato originario e si evolve in tre accezioni particolari. Nella prima, più legata al senso iniziale, esso rimanda all’idea di indolenza, di svogliatezza (es. "Che fai lì a babbo morto?"); quest’uso, secondo l’edizione 2014 del Devoto-Oli, è quello più attestato fra i toscani. La seconda è quella registrata dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo ovvero ‘senza informarsi, a caso’(Es. "Ma che vòi, gl’è andato lì a babbo morto, un sapéa nulla"). Ad essa può essere assimilata l’ultima che, secondo quanto affermano Quartu e Rossi nel Dizionario dei modi di dire della lingua italiana, è decisamente comune in Toscana e si riferisce a un gesto o a un comportamento d’impulso, senza riflessione. Tutte queste sfumature dimostrano che ci troviamo di fronte a una locuzione molto radicata in terra d’origine e quindi sentita come naturale dai parlanti toscani.
D'altra parte in Toscana non è questa l'unica locuzione che ha il babbo defunto come protagonista: testimoniata nelle commedie del Salviati e del Fagiuoli e tuttora in uso, troviamo la locuzione a babborivéggoli (o rivéggioli) formata con un immaginario toponimo scherzoso indicante il luogo dove poter rivedere il padre deceduto (composto di babbo e riveggo, antica forma della prima persona singolare dell’indicativo presente di rivedere, con suffisso -oli tipico dei toponimi toscani come, ad esempio, Montespertoli e Pontremoli). Introdotta solitamente dai verbi andare o mandare, è un modo gergale per significare ‘morire’ e ‘far morire’.
Tornando all’argomento principale, si può notare come l’espressione a babbo morto abbia comunque avuto anche nel resto d’Italia una sua diffusione, quella maggiormente legata all’accezione primaria, come dimostrano gli archivi online dei quotidiani "La Repubblica" (359 attestazioni dal 1984 a oggi) e "Il Corriere della Sera" (82 attestazioni dal 1992 a oggi). In entrambi i corpora, inoltre, se ne riscontra un significativo incremento dall’inizio degli anni Duemila, con un picco nel 2006 in occasione delle elezioni politiche. Durante la campagna elettorale infatti, i vari schieramenti utilizzarono frequentemente la locuzione con il significato di ‘a urne ormai chiuse’.