DOI 10.35948/2532-9006/2020.5440
Licenza CC BY-NC-ND
Copyright: © 2020 Accademia della Crusca
Nel bel volume dal titolo Leonardo Sciascia trent’anni dopo (numero monografico de “Il Giannone” dedicato alla figura e all’opera dello scrittore siciliano, cfr. Motta 2018), il curatore osserva che "Sciascia è uno degli scrittori italiani più studiati sul piano storico-letterario (negli ultimi dieci anni sono usciti una trentina di libri su di lui), ma poco esplorato dal punto di vista linguistico" (Motta 2018: 13). Eppure, negli anni, i lavori di taglio linguistico non sono mancati. Sgroi (2020) opera un riordino degli studi linguistici dedicati all’autore siciliano e nella sua tipologizzazione giunge a individuare ben 6 specifiche categorie di contributi, sulla base dei rispettivi approcci: filologico, linguistico, variazionistico, sociolinguistico, lessicologico, stilistico. Ovviamente, l’indagine in prospettiva linguistica finisce per coincidere molto spesso con "un’analisi descrittiva, storica, etimologica e contrastiva riguardo a parole diverse" (ivi: 250). Questa prospettiva, utilissima per la "comprensione in genere della parole letteraria sciasciana" (ivi: 259), solo in pochi casi ha però riguardato le parole del dialetto, che tanta parte hanno avuto nella costruzione letteraria dell’autore di Racalmuto. Per contribuire ad arricchire il côté dialettale degli studi linguistici su Sciascia, si propone qui l’analisi della voce taddema (Il giorno della civetta) che presenta, tra gli altri, un elemento di grande interesse: essa si costituisce come hapax sia nell’opera sciasciana (dove invece, molto spesso, le parole dialettali presentano una certa ricorsività tanto all’interno della stessa opera quanto all’interno di opere diverse) sia, in generale, nel corpus di opere dovute agli altri autori plurilingui isolani (nei quali è altrimenti individuabile uno “zoccolo” di parole dialettali, che rimbalzano da un libro all’altro – ricorrendo nei lavori di Sciascia come in quelli di molti altri scrittori – costituendosi come un bagaglio lessicale comune che fonda una sorta di “plurilinguese siciliano”, cfr. Sottile 2018: 272).
1. Le pagine conclusive de Il giorno della civetta coincidono con la sconfitta del capitano Bellodi, che, tornato a Parma per un breve periodo di licenza, apprende dai giornali che la sua inchiesta è stata archiviata. Bellodi ha fallito: la sua indagine è stata demolita da "inoppugnabili alibi. O meglio: era bastato un solo alibi, quello di Diego Marchica. Persone incensurate, assolutamente insospettabili, per censo e per cultura rispettabilissime, avevano testimoniato" che, la matttina dell’uccisione di Salvatore Colasberna, Marchica/Zicchinetta si trovava "alla bella distanza di settantasei chilometri".
E, scagionato l’assassino, risultano di conseguenza estranei al delitto oltre a Rosario Pizzuco anche don Mariano Arena, il capomafia mandante dell’omicidio: "inutile dire che il paziente rammendo di indizi che il capitano e il procuratore della Repubblica avevano fatto a suo carico, si era dissolto nell’aria: e una taddema di innocenza gli illuminava la testa greve, pareva anche dalle fotografie, di saggia malizia".
Come si coglie dalle parole usate da Sciascia per descrivere il modo in cui don Mariano appare agli occhi di Bellodi nelle foto riportate dai giornali, taddema, voce dialettale siciliana, vale ‘aureola’. Sciascia, dunque, inserisce nel tessuto della sua narrazione una voce locale ovvero un lessema dialettale non presente nell'italiano comune.
Com’è noto, Leonardo Sciascia è uno tra i primi scrittori che, nella seconda metà del Novecento, inaugurano una particolarissima pratica di scrittura letteraria, detta “plurilingue” e che negli anni più recenti è culminata, quanto agli autori siciliani, nel “camillerese”, con una lingua risultante dal forte mescolamento di elementi italiani e dialettali grazie a "un fitto e continuo code-mixing, in cui sembrano non esserci confini prestabiliti tra l’italiano e il dialetto, codici caratterizzati da un interscambio simmetrico, aventi come unico comun denominatore il registro dell’informalità" (Castiglione 2014: 66). Una "commistione di registri che Camilleri dissemina nei romanzi, ibridando varietà di italiano e dialetto e norme diverse di realizzazione dello stesso codice" (Valenti 2014: 244) e producendo, quindi, una scrittura in cui "tutti i livelli linguistici (fonetico, lessicale, sintagmatico, morfologico, sintattico) e molte parti del discorso (articoli, sostantivi, aggettivi, congiunzioni, avverbi, verbi) sono oggetto dell’ibridazione" (Castiglione 2014: 63)1.
Ma il plurilinguismo di Sciascia, come quello di Denti di Parajno, Bonaviri, Consolo e molti altri, appare molto più misurato rispetto a quello di Camilleri (che in parte è anche di tipo “stilistico”) e va letto in stretta connessione con la volontà da parte degli autori di rispecchiare nella lingua letteraria gli usi linguistici reali ormai costantemente caratterizzati dal mescolamento di elementi della lingua e del dialetto.
Gli anni ’60 rappresentano, in effetti, un momento di rottura e di svolta riguardo all’uso del dialetto nella narrativa. Prima di allora le opere letterarie avevano fatto del dialetto un mezzo per ricalcare, per lo più, le abitudini linguistiche di certe classi sociali (abitudini che venivano riproposte per rispondere a esigenze di realismo che spesso sfociavano nel caricaturismo) o per conferire alla scrittura una nuance folklorica ottenuta mediante la proposizione di elementi dialettali “cristallizzati”, come locuzioni, proverbi, modi di dire, toponimi, antroponimi. Ma adesso l’elemento dialettale si staglia spesso come inserto lessicale che tende a riflettere gli usi linguistici dei luoghi in cui è ambientata la narrazione. Molte parole dialettali sono usate accanto a quelle italiane per dire cose che, nel luogo di ambientazione del romanzo, si dicono o si possono dire in dialetto anche quando si parla italiano. Si inaugura dunque la comparsa nella narrativa di voci dialettali spesso corrispondenti a dialettismi o a regionalismi, mentre molte forme prettamente e “strettamente” dialettali finiscono per ricorrere in assoluta simbiosi con quelle italiane (in alcuni casi accompagnate da glossari che ne chiariscono il significato nella lingua nazionale). Si tratta di una pratica, consapevole e voluta, che in quegli anni si afferma compiutamente con Gadda (La cognizione del dolore) e Consolo (La ferita dell’aprile). Adesso la varietà locale è usata per “rispecchiare” nella lingua letteraria quella compresenza di lingua e dialetto che è tipica della comunicazione ordinaria, caratterizzata dall’uso combinato dei due codici.
Avviene, quindi, che leggendo le opere di Sciascia capiti spesso di imbattersi in parole di origine dialettale. Ma la “reale dialettalità” di queste voci va considerata di volta in volta, in ragione del grado di distanza o di vicinanza dal lessico della lingua italiana.
Se una voce sciasciana come coppo (A ciascuno il suo, 1992 [1966], p. 88; Morte dell’inquisitore, 2016 [1964], p. 68) è effettivamente rifatta su siciliano coppu, essa sarebbe, in linea di principio, una voce “dialettale”. Senonché coppo esiste anche nell’italiano letterario e non possono esservi dubbi che siciliano coppu e italiano coppo si devono allo stesso etimo. Ma mentre nell’italiano letterario la voce vale (almeno) ‘recipiente largo e panciuto, più stretto all’imboccatura e al fondo, in genere di terracotta, usato per conservare l’olio o il vino / tegola curva, a forma di mezzo tronco di cono, utilizzata per la copertura dei tetti’ (cfr. Gradit e GDLI, s.v.), in Sciascia essa assume il valore, ripreso dal dialettale coppu, di ‘pacco/involucro a palloncino’ (Sgroi 2013: 167). Trattandosi, dunque, di un calco semantico dal dialetto, lo sciasciano coppo si configura come un regionalismo semantico pertinente al piano dell’italiano regionale più che a quello del dialetto, mentre, d’altra parte, la sua italianità non sarebbe in nessun modo dipendente dalla sua struttura formale (vocale finale -o). Coppo, cioè, non è parola “italiana” in forza della sua caratteristica di apparire integrata nel tessuto morfonologico dell’italiano; lo è perché è effettivamente una parola dell’italiano, pur usata con un significato dialettale. Tale condizione si lega al fatto che la parola dialettale coppu appartiene a una famiglia lessicale che trova un membro anche nell’italiano, rientrando dunque in quella porzione di lessico dialettale con corrispondenti formali nella lingua nazionale.
Diverso è il caso di una parola come calcherone ‘forno delle zolfare siciliane’. Essa pur apparendo simile, sul piano formale, alla parola coppo – in quanto, come quest’ultima, risulta dall’italianizzazione della rispettiva forma dialettale (carcaruni) – è una parola che esiste esclusivamente nel codice dialetto (appartiene cioè a una famiglia lessicale che non ha membri nell’italiano) costituendosi, dunque, come parola dialettale, eventualmente (e semplicemente) italianizzata nella forma. Non che quest’ultima non possa essere, come la prima, anche parola dell’italiano regionale, potendo farsi rientrare in quella specifica categoria di regionalismi non “semantici”, ma “segnici”, risultanti, cioè, dalla mera italianizzazione della corrispettiva voce dialettale (per entrambe, il loro statuto di parole pertinenti all’italiano regionale è comunque da valutarsi in ragione della loro reale diffusione nella comunità italofona siciliana). Ma solo calcherone è, tra le due, un “autoctonismo”, una parola che, indipendentemente dalla sua veste fonetica dialettale o italianizzata e indipendentemente dalla sua circolazione nell’italiano di Sicilia, non trova corrispondenti formali o semantici nell’italiano, costituendosi come voce solo siciliana o tutt’al più solo meridionale, ma non (anche) italiana.
Si consideri, inoltre, che a definire il carattere autoctono di una parola dialettale concorre non necessariamente la forma, ma anche il significato. Nel dialetto possono darsi casi di parole che pur essendo formalmente simili a quelle italiane hanno però un significato proprio, non riscontrabile nell’italiano.
Le voci sciasciane che possono definirsi “propriamente dialettali” (autoctonismi) possono, a loro volta, essere distinte in quattro categorie:
Il primo caso fa riferimento alle parole per le quali Sciascia non trova un “traducente” italiano, laddove il rispettivo referente (“cosa” o “concetto”) coincida con un elemento prettamente locale: “C’erano le mandorle dalla scorza verde e aspra, dentro bianche come latte, mandorle cagliate qui si chiamano...” (Gli zii di Sicilia 1963 [1958], p. 12); “i migliori da mangiare erano quelli con la testa rossa, cioè gli uccelli che i contadini chiamano testarossa” (Il mare colore del vino 1973, p. 69).
Quanto alla categoria sub 2), le parole “evocative” sono quelle che Sciascia usa nelle sue opere nonostante nell’italiano esistano (adeguati) corrispondenti che certamente sono stati nella disponibilità di un parlante come Sciascia, dotato di competenza bilanciata nei codici lingua e dialetto: “gli asini dei vurdunari (approssimativamente mulattieri)...” (Le parrocchie di Regalpetra 1963 [1956], p. 155). Eppure l’autore opta in questi casi (che include, come vedremo, anche quello di taddema) per la forma dialettale, possibilmente per ragioni strettamente espressive. In proposito è interessante notare come questa categoria di parole rimandi spesso a una dimensione (biografica o autobiografica) che potremmo dire “personale”, “familiare” o “ecologica” (dell’ambiente domestico o del paesaggio siciliano) e che fonda una sorta di personale lessico della affettività, spesso usato dall’autore per descrivere gli stati d’animo dei suoi personaggi (entusiasmo, rabbia, delusione): “andavo alle adunate di buona gana” (Le parrocchie di Regalpetra 1963 [1956], p. 38); “... dover vestirsi con la lunga giubba abbottonata al collo e il cappello a caciotta gli aggroppava” (Gli zii di Sicilia, 1963 [1958], p. 98); “com’è vero Dio, li impiombo” (Gli zii di Sicilia 1963 [1958], p 129; anche in Il giorno della civetta).
Il trionfo delle due categorie di parole appena considerate è in Kermesse/Occhio di capra, laddove Sciascia, narrando la sua parrocchia, da un lato si trova a fare i conti con una serie di cose la cui designazione e descrizione non trova altre parole se non quelle del dialetto, dall’altro riprende, per lo più consapevolmente, una serie di voci del suo lessico famigliare e comunitario. Lo scarto tra le parole dialettali che si trovano qui e quelle delle altre opere si risolve principalmente nel fatto che in Kermesse/Occhio di capra l’autore interviene con proprie riflessioni metalinguistiche a interpretare, spiegare, dare senso alle parole delle cose disseminate nelle stanze della parrocchia di Racalmuto.
Quanto alla categoria 3, si tratta di voci che si riferiscono a cose la cui designazione e descrizione non trova altre parole se non quelle del dialetto.
Il quarto gruppo di autoctonismi sciasciani fa riferimento alle parole che compaiono nelle sue opere come voci riprese da documenti storici, che tanta parte hanno nelle costruzioni letterarie dell’autore. In molti casi si tratta di termini che pertengono alla sfera del linguaggio burocratico: algozzino ‘usciere’, ‘carceriere’ (Cronachette 2016 [1985], p. 15); attrassare [attrassate] (Le parrocchie di Regalpetra 1963 [1956], p. 16). Sono voci che, essendo proprie, per lo più, della documentazione storica siciliana dell’epoca preunitaria, si configurano come “sicilianismi” non ancora sostituiti dalle corrispondenti voci italiane, come invece avverrà, in maniera massiccia e per effetto della graduale toscanizzazione delle scritture burocratiche, a partire dalla seconda metà dell’800 (cfr. Sottile 2011).
2. La parola taddema (da accentare sulla penultima sillaba: taddèma) appartiene senz’altro al secondo gruppo (parole “evocative”): è impensabile, infatti, che Sciascia non conoscesse la parola italiana aureola. Ma trovandola possibilmente poco espressiva, l’autore si rivolge al fondo lessicale dialettale dove taddema ha lo stesso significato, come si evince dal Vocabolario Siciliano (VS), cfr.
taddema f. (Spa., Vi., DB, Pa., Mo., Tr., Ma., Man., Pi.7: SR 12; Gua.5: RG 3, ASTP, Sic.: CL 6, PTC, SR6) aureola dei Santi. 2. fig. (Av.) ornamento in forma di corona portato in capo dalle signore. 3. (Tr., Tri.) cappello a tese larghe. 4. (CT 53, 54, AG 15) spreg. cappello confezionato male e indossato in modo poco elegante. 5. (CL 19) si mància na t. è un mangione. Anche (EN 5) taddemma, (CL 6) tardema.
Com’è noto, il VS, fondato da Giorgio Piccitto, è un’opera lessicografica, pubblicata tra il 1977 e il 2002, che ha il pregio di specificare la fonte di ciascuna voce lemmatizzata. Le diverse abbreviazioni e sigle tra parentesi, che si trovano sempre nelle voci, fanno riferimento rispettivamente ad opere lessicografiche o di interesse demologico precedenti dalle quali la parola è stata tratta e ai centri/comunità in cui la parola è stata raccolta dalla viva voce dei parlanti. Così, nel caso di taddema, notiamo che essa è documentata, oltre che in una ricca serie di vocabolari dialettali sette-ottocenteschi, anche in alcuni centri del siracusano, del ragusano, del catanese, dell’agrigentino e del nisseno. La voce è dunque di ampia diffusione (sicuramente pansiciliana) e quanto ai repertori dialettali essa compare a partire dal ’700.
Pur essendo parola relativamente “giovane” (è del tutto assente nella documentazione medievale – cfr. oltre), essa deve essere stata di uso frequente, se è vero che a partire dal significato principale di ‘aureola’ ne ha sviluppati altri che, pur distanti da quello prototipico, sono ad esso collegabili e collegati: ‘cappello a tese larghe’, ‘cappellaccio poco elegante’ oltre a ‘ornamento femminile del capo in forma di corona’.
La voce (usata anche al maschile) è ancora assai vitale in Sicilia ricorrendo pure in testi italiani come sorta di tecnicismo riferito all’ornamento metallico, spesso in forma di raggiera, che sovrasta il capo delle statue dei santi, di Cristo o della Vergine (così anche in molti inventari sette-ottocenteschi di beni ecclesiastici). Si osservi, in proposito, il seguente post recentemente pubblicato sulla pagina FB della Congregazione di Sant’Anna del quartiere Borgo Vecchio di Palermo:
Altrimenti la parola è utilizzata più genericamente come semplice sinonimo di aureola: "A conclusione della vestizione tutti gli apostoli mettono la “taddema”, l’aureola. Questa, un semplice disco di cartone, viene fissata sulla testa facendo passare da un piccolo foro centrale un ciuffo di capelli poi distesi a raggiera e bloccati con delle gocce di cera che vi vengono fatte cadere da una candela accesa" (Anselmo 2012). Non manca, infine, un caso di uso della parola col significato di copricapo: "all’ingresso della via Campanaro c’è un monumentale altarino e all’interno vi è un’effige della Fuga in Egitto della Sacra Famiglia, si sconosce l’autore e il periodo. Interessante è la figura della Madonna che porta sul capo un caratteristico copricapo, il 'Taddema'…" (Strade di Jaci-Via Campanaro (Aciplatani), 2017, https://www.fancityacireale.it/).
3. Quanto all’origine della voce, sia la forma che il significato indurrebbero a considerarla un toscanismo/italianismo (Faré 1972: 2623a)2; taddema sarebbe, dunque, da italiano diadema, mentre l’etimo ultimo sarebbe da rintracciare nel latino diadēma, a sua volta "dal gr. diádēma –atos 'benda che recinge le tempie' (diadéō 'lego intorno')" (DEI, II: 1276). Dal punto di vista formale, la parola appare caratterizzata da desonorizzazione consonantica e monottongazione nella prima sillaba, presentando, dunque, due fenomeni piuttosto comuni nelle varietà siciliane (soprattutto di area orientale) dove si osservano casi simili, come quello di tabbàllara/tapàllara ‘statua di Cerere, comunemente detta “dea Pallade”, collocata sulla fontana settecentesca che sorge al centro di piazza Cavour a Catania’ (cfr. VS, IV: s.v.) nonché il passaggio teofania > tufanìa ‘epifania’.
Quanto al genere grammaticale, la voce siciliana, come è stato osservato, può essere sia femminile che maschile; la forma al femminile sembra prevalente (e anche la più antica) e la sua diffusione può essere stata favorita dalla terminazione in –a. Tuttavia, si consideri che anche in italiano diadema è maschile o femminile, come si trae da GDLI (IV: 315) che comunque classifica le forme femminili come antiquate (l’uso di diadema al femminile – col valore di ‘aureola’ – si arresta agli inizi del XVIII sec.).
Occorre anche considerare che in italiano la parola italiana diadema presenta oggi significati diversi da quello dialettale adoperato da Sciascia: consultando due vocabolari dell’uso come il Treccani on line o il GRADIT di De Mauro, si osserva che entrambi i dizionari riportano in prima accezione il significato di ricco ornamento del capo (fascia, nastro di stoffa variamente decorati; cerchio o semicerchio d’oro), portato come contrassegno di potere civile o religioso nell’antichità classica e presso i popoli orientali. In tempi più recenti e nella contemporaneità la voce italiana diadema è specialmente usata come sinonimo di corona, se portata da donne, quale insegna di sovranità o nobiltà e, più estensivamente, per indicare un ricco ornamento femminile (del capo) usato in particolari cerimonie o nelle acconciature delle spose.
Tra le accezioni principali di italiano diadema non compare, dunque, quella di ‘aureola’ o anche di ‘ornamento/corona del capo delle statue dei santi’, sebbene i due dizionari considerati non trascurino di documentare anche tali sensi. Infatti, Treccani on line dà come ultima accezione ‘corona splendente posta intorno al capo della figura di Cristo, della Vergine e di santi’, mentre GRADIT riporta, subito dopo l’accezione principale, quella di ‘aureola’ che però appare contrassegnata dalla marca OB. Questa indica che, nonostante numerosi dizionari, anche molto diffusi, registrino la voce diadema col significato di ‘aureola’, l’uso della parola con tale significato è oggi obsoleto. Si tratta di una condizione che deve essersi verificata nel corso del XX sec., se è vero che, quanto, per esempio, all’uso letterario, la sua documentazione col significato di ‘aureola’ si arresta alla seconda decade del Novecento (cfr. GDLI, IV: 316). Abbiamo quindi una condizione molto interessante: la voce siciliana taddema deriverebbe dalla voce italiana diadema, ma il significato principale della prima è quello di ‘aureola’ che è invece desueto per la parola italiana, pur essendo questo il suo significato più antico, come si trae da TLIO che per il Trecento documenta la voce diadema con valore di ‘aureola’ (cfr. anche DEI, II), accanto a quello di ‘corona’ (che corrisponde, quest’ultimo, al valore prevalente che si trova nei volgarizzamenti siciliani quattrocenteschi, cfr. supra, nota 2)3.
E, a proposito di documentazione lessicografica, la voce taddema si trova anche in GDLI che la classifica come parola regionale col significato di ‘aureola’ e, in senso figurato, ‘espressione del volto’. Per essa viene naturalmente riportato il solo esempio sciasciano e si precisa che si tratta di "voce di area sicil., registrata dal Biundi" che effettivamente la dà nel suo Vocabolario manuale completo siciliano italiano, Palermo, 1851 (p. 341), quale parola di genere maschile, sciogliendola come ‘cerchio luminoso che adorna il capo delle immagini sacre, aureola’.
Sarà interessante notare, in proposito, due aspetti assai curiosi:
1) GDLI recupera la distribuzione diatopica della parola dal Biundi che però non è tra le fonti della voce riportata nel Vocabolario Siciliano (vedere sopra) pur essendo il Vocabolario manuale tra le opere sottoposte a spoglio dai redattori del VS e contrassegnato dall’abbreviazione Bi.1;
2) per taddèma GDLI rimanda alla voce tadèma ‘copricapo femminile a più punte anticamente in uso a Gerusalemme’, lasciando intendere che la prima sia variante della seconda, considerata "[v]oce di probabile origine ebraica". Il Grande Dizionario di Battaglia trae infatti tadèma da Giovanni Francesco Gemèlli Careri che la usa nel suo Giro del mondo (1699-1700): "Le donne... portano coperto... il rimanente del corpo involto tutto in un lenzuolo bianco tenendo in testa un tadema, che è una berretta con molte punte". Dunque, per GDLI, taddèma, di area siciliana, è variante di tadèma che sarebbe voce di probabile origine ebraica. Ma nell’ebraico non sembra esistere una voce simile o uguale a tadèma per designare un copricapo femminile portato dalle donne di Gerusalemme a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Esiste, invece la voce tadhema col valore di ‘stupore’ che sembra però assai distante da quello qui considerato (cfr. https://www.pealim.com/he/dict/7615-tadhema/?fbclid=IwAR0QtQISV-hB7qZX__2IcOmlgsa21EjaG5GknWti3Hvp5YYznEXgzedyJtE).
Oltretutto, a non voler considerare che il Giro del mondo di Gemèlli Careri è opera assai controversa in quanto molti la reputano del tutto “inventata” e comunque caratterizzata da numerose imprecisioni (cfr. Pietro Doria, voce Gemelli Careri, Giovanni Francesco, in Dizionario biografico Treccani), il contesto in cui ricorre la voce proposta dallo scrittore-viaggiatore sembrerebbe lasciare qualche dubbio circa la possibilità che il nome ebraico della "berretta con molte punte" indossata dalle donne di Gerusalemme sia effettivamente tadema. Se così fosse, la mancanza di un traducente italiano avrebbe possibilmente indotto Gemèlli Careri a utilizzare qualche stratagemma grafico o retorico (per es. uso di virgolette o della forma “[veniva/viene] chiamato”) come egli suole fare, altrove, quando descrive oggetti o pratiche tipiche e proprie di una certa cultura i cui nomi si configurano come realia: "Il ballo veniva chiamato ‘cappello’, e consisteva in passeggiar per mano cavalieri e dame per tutte le camere, che altro più artificioso non può riuscire ove si vuol dar piacere a molti" (Gemèlli Careri citato in GDLI, IV: 3).
Più verosimilmente la parola tadema che si trova in Gemèlli Careri potrebbe essere il personale modo dell’autore di chiamare quel copricapo e non il modo in cui esso veniva chiamato a Gerusalemme. Gemèlli Careri era calabrese (nato a Reggio Calabria) e non è da escludere che la parola ta(d)dema possa essere passata dal siciliano al reggino anche con il significato di ‘copricapo’ che, come è stato osservato, è uno degli ulteriori valori della parola dialettale (vedere sopra) per di più diffuso nell’area orientale della Sicilia. Contro questa ipotesi confligge, comunque, il fatto che nessuno dei repertori dialettali calabresi registra la voce tadema (né col significato di ‘aureola’ né con quello di ‘cappello/copricapo’).
In ogni caso, l’origine della voce sciasciana taddema non va rintracciata in una presunta parola ebraica (come vorrebbe GDLI).
4. È stato notato sopra come le parole dialettali usate da Sciascia possano essere classificate in diverse categorie a seconda della funzione che esse svolgono nel tessuto narrativo. Nel caso di taddema si tratterebbe di una parola “evocativa” in quanto è verosimile che Sciascia conoscesse la parola aureola e quindi la scelta della voce dialettale sembra connessa a ragioni squisitamente espressive. È stato anche osservato che nel caso delle parole “non precisamente italiane” usate da Sciascia, come dagli altri autori plurilingui isolani, è sempre utile considerare che non tutte possono dirsi dialettali tout court, mentre appare cruciale distinguere l’eventuale statuto di parole dialettali autoctone (senza corrispondenti formali o semantici nell’italiano) o di parole appartenenti a famiglie lessicali presenti anche nell’italiano (è evidente che le prime sono di maggiore interesse linguistico in quanto conferiscono alla scrittura letteraria una rilevanza antropologica di non poco conto – cfr. Sottile 2018). Nel caso di taddema è stato mostrato che essa esiste anche nell’italiano (diadema) e pertanto, sul piano strettamente formale, la voce taddema non sarebbe stricto sensu una parola dialettale autoctona. Tuttavia, è possibile ammettere che, sul piano del significato, la voce siciliana rivela un significativo scarto semantico rispetto alla corrispondente voce italiana: essa mantiene come significato principale e più diffuso quello di ‘aureola’ che invece si è quasi del tutto perso nell’italiano. Inoltre la voce dialettale reca anche i significati di ‘cappello a tese larghe’ e ‘cappello confezionato male e indossato in modo poco elegante’, che invece non si riscontrano nell’italiano (dove la parola diadema è oggi per lo più usata come sinonimo di corona). Queste peculiarità mostrano come la voce dialettale abbia conosciuto uno specifico sviluppo semantico rispetto italiano diadema nonostante quest’ultima sia la parola dalla quale taddema possibilmente deriva.
Note:
1. Cfr. anche Bertini Malgarini-Vignuzzi (2002, in partic. pp. 1022-1023).
2. Da ARTESIA si ricava la presenza della voce latina diadema nel Caternu di Senisio: “Item liber Diadema monachorum” (1371-1381) ma si noti, in aggiunta, che la voce – solo in questa forma – compare, poi, in numerosi volgarizzamenti del ‘400 che ne attestano l’ampia circolazione in ambito colto e che indurrebbero a ipotizzare che si tratti qui di un latinismo mediato dal toscano (dove appare già nel ‘300, cfr. infra, nota 3): “in la quali receverà el diadema di la belliza di la manu di misser Yesu” (Ordini di la confessioni "Renovamini", seconda metà del XV sec.); “altru li mecti la curuna di li spini in testa per diadema rigali” (Meditacioni di la vita di Christu, XV sec.); “Undi, non lo contrariando nixuno, di lo Regno la diadema prisi” (Acquistamentu di lu Regno di Sichilia factu per Archadiu (Lu), fine XV sec.).
3. La voce è anche nel Canzoniere di Petrarca che la usa nel senso di ‘oggetto risplendente di bellezza’: "Questa fenice de l'aurata piuma / al suo bel collo, candido, gentile, / forma senz'arte un sì caro monile, / ch’ogni cor addolcisce, e ‘l mio consuma: / forma un diadema natural ch'alluma / l’aere d'intorno..." (cfr. TLIO).
Nota bibliografica: