DOI 10.35948/2532-9006/2020.5423
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Tre diversi utenti sottopongono alla redazione tre domande diverse, ma tutte attinenti in qualche misura alla questione dell'immigrazione: i quesiti riguardano i termini clandestino e asilante e i verbi acquisire e acquistare riferiti a cittadinanza.
Oltre ai già trattati migrante e respingimento, c'è un'altra parola ad alto rischio di manomissione (come direbbe Gianrico Carofiglio), o forse già compromessa dall'abuso di cui è continuamente oggetto: clandestino, trattato recentemente anche da Federico Faloppa nel suo Razzisti a parole (per tacer dei fatti), uscito per Laterza nel settembre scorso.
Sembra un dato incontestabile: ormai in ogni discorso, articolo, intervento che tratti di immigrazione non può mancare il riferimento ai clandestini e alla clandestinità. Non si tratta certo di parole nuove per l'italiano: l'aggettivo clandestino, formatosi sulla base dell'avverbio latino clam 'di nascosto' ed entrato attraverso il francese clandestin, è presente dal XVI secolo con il significato molto generale di 'fatto di nascosto, contro il divieto delle autorità'; dal Novecento è stato usato anche con funzione di sostantivo (Cesare Pavese indicò con il sostantivo clandestini coloro che lottavano segretamente contro il fascismo durante la II Guerra Mondiale), e il suo derivato clandestinità ha la prima attestazione, secondo i dizionari, nel 1832 (Silvio Pellico, Le mie prigioni). I significati primari di 'cosa, azione fatta di nascosto' e di 'identità tenuta segreta' sono trasparenti in espressioni quali "matrimonio clandestino", "organizzazione clandestina", "giornale clandestino", "bisca clandestina" e simili, in cui si mette in rilievo la segretezza di qualcosa esistente o compiuto nonostante una prescrizione di legge contraria.
Da qualche decennio clandestino compare con larga frequenza in contesti che riguardano l'immigrazione, ma progressivamente, anche grazie a un'azione congiunta di norme scritte senza troppa attenzione alla corrispondenza tra forma e contenuti (sarà effetto dell'emergenza clandestini?) e di un'informazione approssimativa e "d'effetto", il tratto semantico primario di 'segreto, nascosto' sembra scivolare sempre più verso quello di 'fuorilegge, criminale'.
Come sempre accade sono nuove realtà, nuovi eventi che segnano anche l'avvio di innovazioni o trasformazioni linguistiche: da circa trent'anni il nostro paese è diventato meta prescelta da migliaia di migranti che per mare (soprattutto per chi arriva da sud), ma anche, anzi di più secondo le stime ufficiali, per terra (per tutti quelli che arrivano da est), hanno raggiunto l'Italia per sfuggire alla fame e alle guerre e con la speranza di condizioni di vita migliori. L'immigrazione di massa sembra adesso essere diventata un problema: ma ricordiamo che Roma e, più in generale l'Italia, sono nate come nazioni di immigrati? E proprio la città di Roma, sulle cui basi si formò il più grande impero di tutti i tempi, resta l'esempio di una straordinaria capacità di integrare e far diventare ricchezza le diversità.
Visto che ripercorrere la storia spesso è considerato dietrologia fuori moda, veniamo a dati attuali che però forse non sono stati proposti all'opinione pubblica con sufficiente chiarezza: la stragrande maggioranza degli immigrati (tra il 60 e il 70% secondo i dati 2006 dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), negli ultimi 10-15 anni, è entrata in Italia in modo regolare, mentre si è calcato la mano sulla quantità e la gravità di arrivi che hanno eluso le normali procedure di ingresso nel territorio italiano e che hanno determinato l'aumento via via crescente del numero delle persone entrate senza regolari controlli di frontiera e quindi della diffusione di quei "lavoratori immigrati clandestinamente" di cui già si parlava nella legge 943 del 30 dicembre 1986, la prima in materia di immigrazione. Dal punto di vista del significato del termine, qui l'avverbio clandestinamente sembra ancora conservare in buona misura la sua accezione originaria di 'fatto di nascosto, in segreto, senza essere visti': la legge fa riferimento quindi alla presenza di lavoratori stranieri che sono entrati in Italia di nascosto, sfuggendo al controllo di frontiera e che, di conseguenza, nascondono e tengono segreta la loro identità per non rischiare l'espulsione. Se fino a qualche anno fa questa condizione era limitata nei numeri e soprattutto non immediatamente evidente al cittadino comune, oggi gli immigrati che entrano clandestinamente sono più numerosi, ma anche molto più visibili, quasi moltiplicati dalla frequenza e insistenza con cui i media propongono il termine clandestino, quando va bene, associato all'immagine di un'emergenza sociale che potrebbe minacciare la conservazione dei diritti dei cittadini italiani (lavoro, casa, scuola, ecc.), nei casi peggiori, connesso strettamente al problema della pubblica sicurezza e riferito quindi a protagonisti, reali o presunti, di azioni criminali.
Per spiegare l'aumento vertiginoso della frequenza della parola, non si può trascurare quello che è stato fatto in ambito legislativo: alla legge del 1986 sono seguite altre leggi in materia di immigrazione, in particolare il decreto legislativo n. 286 del 1998 (c.d. legge Turco-Napolitano) che contempla l'aggettivo clandestino (nell'espressione "immigrazioni clandestine"), ma soprattutto la legge n. 94 del 2009 (il cosiddetto "Pacchetto Sicurezza") che ha "promosso" l'immigrazione clandestina a reato e ad aggravante di qualsiasi altro reato: ciò significa che è considerato fuorilegge non solo chi si trova in Italia e ha il permesso di soggiorno scaduto (detto anche clandestino irregolare, dove sarebbe più corretto dire migrante o immigrato irregolare perché in questo caso si sta contravvenendo a un regolamento), ma acquisisce immediatamente questo "marchio di illegittimità" qualsiasi cittadino extracomunitario che entri nel territorio italiano senza visto d'ingresso e prima ancora di poter chiedere, ad esempio, il diritto d'asilo o avere riconosciuto lo status di rifugiato; inoltre la stessa legge prevedeva la clandestinità come aggravante di altri reati, anche se questa parte è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 249 del 2010). Per questa contravvenzione (come tale è stata introdotta nella legge) è prevista una sanzione pecuniaria, ma dall'esame del testo e delle sue ricadute nella procedura processuale, risulta chiaro che la condanna alla pena pecuniaria non è l'obiettivo principale dell'ordinamento, che invece resta l'espulsione dell'irregolare. Nel testo di legge sono inoltre previsti il rapporto, cioè la denuncia alle autorità giudiziarie di notizie di reato (quindi anche del reato di clandestinità) da parte di persone che rivestono la qualifica di pubblico ufficiale e il referto, ovvero l'atto col quale un medico libero professionista riferisce all'autorità giudiziaria di avere prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio. E si tralasciano i dilemmi umani, così ben rappresentati nell'ultimo film di Emanuele Crialese Terraferma (2011), che sorgono nei casi in cui pescatori o marinai, ottemperando alla legge non scritta del mare, prestino soccorso ai migranti in pericolo di vita, rischiando l'accusa di favoreggiamento del reato di immigrazione illegale.
Un impianto complesso e articolato volto alla "caccia e cacciata del clandestino" come, anzi più, che per un delinquente. Se qualcuno ancora avesse avuto qualche dubbio, adesso appariva tutto chiaro: i clandestini sono soggetti pericolosi, fuorilegge, delinquenti. E allora, il passo è breve, non si esita a definire clandestini anche i cadaveri recuperati nel Mediterraneo, persone morte prima ancora di entrare nelle acque territoriali o nel territorio italiano e quindi difficilmente definibili ancora come clandestini (Centocinquanta cadaveri di clandestini ripescati in mare al largo della Tunisia, www.aqvariuscom.blogspot.com, 3/6/2011); o a titolare una notizia con l'espressione cimitero di clandestini per riferirsi a un cimitero di Scicli dove sono stati sepolti "migranti ignoti" (come sono denominati più opportunamente all'interno dell'articolo), morti durante la traversata del Mediterraneo ("Corriere della Sera", 4/4/2011). Sembra che lo status di clandestino non decada nemmeno in caso di morte...
Lo stesso Pacchetto Sicurezza prevede anche l'istituzione degli ormai tristemente famosi CIE (Centri di identificazione ed espulsione), luoghi di accoglienza obbligata in cui si dovrebbero svolgere le operazioni di identificazione dei migranti per arrivare a individuare chi effettivamente ha diritto di restare in Italia; l'espulsione non è legale qualora il migrante presenti richiesta di asilo e qualora ci siano i requisiti per avere lo status di rifugiato o nei casi in cui il migrante sia titolare di una protezione internazionale. I richiedenti asilo rimangono in attesa nei CARA (Centri accoglienza richiedenti asilo): sembrerebbe inutile dire che ogni situazione è una storia a sé e ogni richiesta, di ogni singola persona, andrebbe vagliata e considerata, caso per caso. Proprio questa complicata e delicata procedura rende palese l'illegalità dei respingimenti, che normalmente avvengono dopo una rapidissima e approssimativa ricognizione sui barconi in mezzo al mare.
La gestione dell'immigrazione è evidentemente caratterizzata da un caos abbastanza diffuso e generalizzato, accompagnato da procedure discutibili anche sul piano giuridico: forse sarebbe utile almeno usare e diffondere termini precisi, univoci per non confondere ancor più le idee e non rendere ancora più "oscuro" alla comprensione ciò che è già molto complicato nei procedimenti burocratici e giuridici. Chi non è ancora entrato in un paese straniero non può essere clandestino, così come chi è entrato clandestinamente o ha un permesso di soggiorno scaduto è irregolare, ma non delinquente, cioè non ha commesso nessuna azione criminosa.
Ma torniamo alla questione della richiesta d'asilo perché, anche in questo ambito terminologico, si registrano alcune innovazioni. In particolare ha cominciato a circolare il sostantivo asilante per riferirsi a 'chi ha richiesto o ha ottenuto asilo' (politico o umanitario in caso di guerre, stragi, genocidi in atto nel paese d'origine). Il termine sembra aver avuto origine nel tedesco sulla base di asyl 'asilo (politico)' ed essersi diffuso nell'adattamento italiano asilante attraverso la stampa della Svizzera italiana. Se ne trovano attestazioni nei quotidiani italiani dal 1991: su "Repubblica" il 16 novembre 1991 si leggeva «Gli stessi gruppi che vorrebbero cacciare gli "asilanti". Un tempo c'era lo stesso atteggiamento verso gli italiani. Ora gli italiani sono diventati supersvizzeri...»; sempre sulla "Repubblica", il 30 settembre 1992: «Alla conferenza stampa di ieri, per prima ha preso la parola Dorothee Hess-Maier, presidente dell'Associazione Editori e Librai tedeschi. Parlava con emozione. "Siamo inorriditi di fronte all'escalation di violenza nei confronti di quanti cercano protezione nel nostro paese" ha detto. "In memoria dei grandi autori, editori e librai che hanno salvaguardato quanto rimaneva dell'onore della Germania continuando a lavorare in esilio durante la dittatura nazista, e in memoria grata dei paesi che hanno garantito l'asilo a Thomas Mann, Bertolt Brecht e tanti altri, noi diciamo ai politici: non permettete che quella parola colma di onore che è 'asilo' venga trascinata nel fango in Germania!" ("Asilantes" qui sono i rifugiati, contro i quali si scagliano le "teste rapate", ndr)»; così anche il "Corriere della Sera" del 16 gennaio 1993: «Ciò dimostra chiaramente come il nuovo razzismo non sia direttamente collegabile all'aumento del numero di stranieri, anche se è vero che il flusso continuo di asilanti pone seri problemi alla società tedesca dove risiede il 60% di tutti gli asilanti d'Europa». I termini asilanti e asilantes sono ancora riportati tra virgolette, segno che si tratta di parole ancora avvertite come nuove, non conosciute dalla maggior parte dei lettori. L'uso precauzionale delle virgolette è proseguito per un po' di tempo, ma la parola è diventata sempre più frequente e familiare ai lettori e parlanti italiani, anche se l'ingresso "ufficiale" della parola, come sempre accade, ha avuto tempi più lunghi.
Ne abbiamo conferma dai dizionari: il termine asilante è registrato per la prima volta nell'edizione 2003 dello ZINGARELLI e seguito, ma cinque anni più tardi, nel 2008, da Devoto-Oli e Sabatini-Coletti. Dal punto di vista della trasparenza semantica la parola non sembra porre problemi, è evidente che il nucleo fondante del significato va ricondotto alla base asilo; la novità appunto sta nell'adozione di asilante, al posto delle perifrasi richiedente asilo o riconosciuto come avente diritto di asilo, un'unica parola formata con la desinenza del participio presente, modo verbale che in italiano ha uno statuto facilmente assimilabile a quello dei sostantivi (si pensi a insegnante, vivente, parlante, ecc.), ma che, nelle sue modalità di formazione, prevede normalmente una base verbale. In questo caso invece la base è un nome (asilo, in italiano non esiste il verbo corrispondente *asilare!) e le regole di derivazione seguono quelle del tedesco che danno luogo però a una forma coincidente a un participio presente italiano. Viene mantenuto anche l'aspetto verbale di un'azione che si prolunga nel tempo, la richiesta di asilo apre un procedimento che dura talvolta mesi, e quindi, come sembra confermato anche dagli strumenti lessicografici, è un termine efficace che colma una lacuna, o che comunque ha il vantaggio della sintesi rispetto a espressioni più lunghe e meno immediate. Quando si sceglie di utilizzare asilante bisogna considerare che la parola non ci specifica se la persona (o le persone) a cui si fa riferimento ha solo chiesto o ha anche ottenuto asilo. Nella maggior parte delle occorrenze il contesto scioglie il dubbio, ma perché ciò avvenga è necessario che chi usa una forma semplificata e semplificante sul piano linguistico come asilante lo faccia con la consapevolezza che tale soluzione linguistica non sempre (anzi, in questi casi, molto raramente) corrisponde a una semplificazione nella realtà dei fatti: resta una sostanziale differenza tra chi ha richiesto l'asilo e chi l'ha già ottenuto.
Un'altra questione linguistica, emersa in molti contesti relativi a fatti migratori, che ci viene sottoposta è l'uso alternativo delle espressioni acquisire/acquistare la cittadinanza; i due verbi si alternano indifferentemente nell'uso con una forbice nel dato delle frequenze nemmeno troppo ampia: se si ricercano le due stringhe con Google (ho provato il 26.10.11) si ottengono 90.400 occorrenze per "acquistare la cittadinanza italiana" a fronte di 60.900 per "acquisire la cittadinanza italiana".
In ambito giuridico l'espressione tecnica è acquisto della cittadinanza, presente nei testi di legge (legge del 5 febbraio 1992, n. 91 Nuove norme sulla cittadinanza), nel sito del Ministero dell'Interno, dove si legge (nostri i corsivi): "Si parte da un viaggio nei principi fondamentali su trasmissibilità, acquisto, perdita, riacquisizione, doppia cittadinanza per passare ai casi particolari di riconoscimento e alla disciplina della concessione per matrimonio o residenza fino alle modalità per consultare on line lo stato del singolo procedimento attraverso il servizio attivato nel luglio 2010 dal dipartimento"; in questo caso sembra che la riacquisizione riguardi chi già possedeva la cittadinanza e ne ha perso il diritto per qualche motivo e poi l'ha nuovamente richiesta e quindi riacquisita. Anche i dizionari giuridici (come quello di R. Baratta, Dizionario di diritto internazionale privato, Milano, Giuffrè, 2010) riportano la dizione acquistare/acquisto della cittadinanza, ma non mancano oscillazioni anche in strumenti che dovrebbero orientare i cittadini, o gli aspiranti cittadini italiani, in una materia così complessa: ad esempio nel Glossario di diritto (Cesarina M. Bellotti e M. A. Catarozzo, Hoepli, 2002), si legge: "la cittadinanza italiana si acquista" e, dopo poche righe: "può acquisire la cittadinanza italiana il coniuge straniero..." (p. 30); questa variatio potrebbe forse essere spiegata dall'introduzione del concetto di ottenimento di un diritto non per nascita, ma per una circostanza come il matrimonio con uno straniero.
Sul piano linguistico è del tutto corretto l'uso del verbo acquistare, ovviamente nella sua accezione primaria, di 'ottenere la proprietà o il possesso e l'uso di un bene materiale o immateriale' (Vocabolario Treccani s.v.): acquistare la cittadinanza significa quindi possedere il diritto di essere riconosciuto cittadino di un determinato Stato (con diritti e doveri che ne conseguono). Se usato, quindi, in questo contesto specifico, con questa accezione, il verbo acquistare non contempla il significato di 'spendere denaro' e quindi non è usato come sinonimo di comprare.
L'introduzione, nel già citato "Pacchetto Sicurezza" del 2009, del contributo di 200,00 euro da pagare contestualmente alla richiesta di cittadinanza ha fatto sorgere qualche dubbio in più, non solo e soprattutto in materia di diritto, ma anche sull'uso del verbo acquistare (ma allora la cittadinanza va davvero 'comprata'?) rispetto al sinonimo acquisire che non prevede, in nessuna sua accezione, la sovrapposizione con il verbo comprare e invece è usato perlopiù in contesti formali e tecnici in combinazione con nomi astratti (acquisire un diritto, conoscenze, certezze, competenze, ecc.).
In definitiva quindi non ci sono controindicazioni di tipo linguistico per nessuno dei due verbi quando si parli di cittadinanza: acquistare o acquisire la cittadinanza risultano espressioni sinonimiche. Peccato però che proprio lo Stato con le sue leggi e i suoi regolamenti insinui sempre più il dubbio che anche per godere di diritti primari si debba, anche poco, ma pagare!
Nota bibliografica: