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"Je décline l’honneur d’être un ange". Dai tòpoi letterari ai cliché della canzone

  • Francesca De Blasi
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2020.3160

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2020 Accademia della Crusca


Dai tòpoi letterari ai cliché della canzone: il percorso cui si allude con questo titolo è lungo e articolato, e lo spazio a disposizione non è proporzionato all’argomento. Si è scelto, per questo motivo, di limitarsi a fare alcune brevi considerazioni introduttive sulla natura del cliché, richiamando alcuni esempi antichi di donne cantate in poesia, per poi proporre, l’analisi più approfondita di alcuni testi della canzone italiana scritti o interpretati da donne che cantano le donne. Tale percorso si muove sul filo di ciò che genericamente chiamiamo “luogo comune” e si avvale degli strumenti che in questa sede sono più a portata di mano: quelli dell’analisi linguistica2. Il tentativo è quello di mettere a diretto confronto i luoghi ricorrenti – che sono luoghi della lingua, ma, in qualche modo, anche luoghi della cultura – di momenti storici diversi, permettendoci di notare come tali luoghi ricorrenti convergano verso l’archetipo e, pur non potendo aspirare a un trattamento sistematico, lasciandoci almeno anche solo intuire quanto possano essere profonde le radici culturali di alcuni stereotipi di genere e percepire quanto, nella fattispecie, tutto questo sia in qualche modo parte dell’eredità delle donne.

Ma partiamo proprio dal filo conduttore: il cliché. Con questo vocabolo si intende, in senso generale, ‘un’espressione fissa divenuta banale a forza di esser ripetuta’ e anche la stessa ‘idea banale veicolata da tale espressione cristallizzata’3. Queste accezioni non rappresentano il primo significato della parola cliché, che piuttosto è un tecnicismo della tipografia indicante una «placca metallica in rilievo a partire da cui si possono stampare un gran numero di esemplari di una composizione tipografica»4. Il vocabolo, utilizzato in lingua italiana per la prima volta nel 1837 nei Periodici popolari del risorgimento5 è registrato nei dizionari dell’italiano contemporaneo con entrambi i significati appena citati per il francese: ‘matrice zincografica usata per l’inserimento delle immagini nella stampa tipografica’ e ‘fig., regola, modello di comportamento convenzionale, stereotipato; espressione, frase o concetto ormai cristallizzato, privo di originalità’6. Al francesismo non adattato cliché corrisponde esattamente l’italiano stereotipo (da mettere comunque in relazione al francese stéréotype), in tutti e due i sensi citati. L’uso figurato di cliché, che è quello che qui ci interessa, deve la sua introduzione, in lingua francese, ai fratelli Goncourt (1890), romanzieri ottocenteschi, che per primi avrebbero utilizzato la parola anche nella sua connotazione peggiorativa, in particolare in riferimento a una scrittura trita e banale7. È stata poi la stilistica a proporre, per cliché, una sistemazione teorica. In questa nuova accezione tecnica, cliché non è associato necessariamente alla mediocrità di uno scrittore dalle idee e dalle parole già troppo usate, ma a un procedimento retorico ben consapevole. Il significato di cliché può ora accostarsi a quello di un’altra delle parole che si sono citate sopra: tòpos (dal greco, letteralmente, ‘luogo’), che è originariamente termine tecnico della retorica (poi anche questo della stilistica), indicante un ‘tema che ricorre’8, se considerato in senso neutro, o un ‘tema troppo usato’, se inteso con l’accezione negativa di ‘cosa banale’ di cui si è già detto; in entrambi i casi, comunque, ci si riferisce non solo alla forma linguistica ma anche al contenuto.

Finora abbiamo richiamato una serie di parole e concetti non perfettamente sovrapponibili9, ma, se nella nostra analisi non consideriamo solo la lingua ma anche tutto il contesto in cui avviene la comunicazione, notiamo che i tòpoi, i cliché, i luoghi comuni, le frasi fatte, gli stereotipi, hanno qualcosa in comune, cioè funzionano solo se sono immediatamente riconoscibili: ossia se l’espressione di una lingua (es. amare alla follia) richiama subito una determinata idea, seppur vaga (nella fattispecie, quella di un ‘amore intenso’). Perché questo accada – e questa volta stiamo osservando i fatti da un punto di vista strettamente linguistico – è necessario che le parole usate per esprimere il cliché siano, per es., sempre le stesse (si ama alla follia, ma non si può *odiare alla follia) ed è necessario che si prestino, nell’uso reiterato di diversi contesti, a un processo di desemantizzazione, di impoverimento del significato, fino quasi talvolta alla banalizzazione della stessa idea veicolata con quell’espressione. Insomma, nessuno di noi ha mai potuto davvero “amare alla follia” e non solo perché non ha letteralmente mai perso il senno, ma perché non è dato sapere a che grado di intensità amorosa corrisponda questa espressione – è solo, appunto, un “modo di dire”.

Per avere un’idea del rapporto di proporzionalità che lega la ripetuta condivisione del tòpos fra più parlanti o scrittori e il suo spessore linguistico, il suo peso semantico, concettuale e realistico, è perfetto il caso della produzione dei poeti all’origine della nostra letteratura, che di tòpoi hanno riempito le loro poesie. Come è noto, il tema principale della lirica siciliana, fatte le dovute eccezioni, è la fin’amor d’ispirazione trobadorica, che porta il poeta a cantare il sentimento smisurato e totalizzante per la sua donna. Le poesie della Scuola siciliana cantano sia le virtù morali che le qualità fisiche dell’amata, essendo punti cardinali nella fenomenologia d’amore. Ma, è un dato di fatto che questi componimenti lodino solo genericamente la bella figura, la bella cera, i bei sembianti. Vediamone qualche esempio:

Lo chiaro viso de la più avenente, / l'adorno viso, riso me fa fare: / di quello viso parlane la gente, / che nullo viso a viso li pò stare. / Chi vide mai così begli ochi in viso, / né sì amorosi fare li sembianti, / né boca con cotanto dolce riso? / Quand'eo li parlo moroli davanti, / e paremi ch'i' vada in paradiso, / e tegnomi sovrano d'ogn'amante. (Giacomo da Lentini, Lo viso mi fa andare alegramente, vv. 5-14)

Ov'è madonna e lo suo insegnamento, / la sua bellezza e la gran canoscianza, / lo dolze riso e lo bel parlamento, / gli ochi e la boca e la bella sembianza, / lo adornamento e la sua cortesia? (Giacomino Pugliese, Morte, perché m’ài fatta sì gran guerra, vv. 31-35)

“Oi lasso mene, com' faraggio, / se da madonna mia aiuto nonn aggio?”. / Li ochi mei c'incolparo, / che volsero riguardare, / ond'io n'ò riceputo male a torto, / quand'egli s'avisaro / cogl'ochi suo' micidare, / e quegli ochi m'ànno conquiso e morto; / la boca e li denti, / e li gesti piagenti m'àn conquiso / e tute l'altre gioi de lo bel viso. (Pier delle Vigne, Uno piagente sguardo, vv. 10-18)

La bellezza femminile nei poeti della Scuola siciliana è adeguata ad un tòpos letterario che vuole indistinguibili le diverse donne celebrate10, e che non prevede che quella bella sembianza che caratterizza la donna si declini poi, nel linguaggio poetico, in una serie di tratti fisici reali e ben definiti; dalle loro poesie emergono infatti figure di donna praticamente evanescenti, di cui è impossibile anche solo abbozzare un profilo fisico realistico.

Dunque: referente inafferrabile, da una parte, lingua inconsistente, dall’altra. Ma allora come è possibile quanto abbiamo detto prima? Cioè come si può richiamare immediatamente una determinata idea con espressioni inafferrabili? Lo si fa evocando, con quella, un insieme di idee che si sostengano a vicenda. Si comprende allora che, affinché il cliché funzioni davvero, è necessario che si radichi in un contesto che sia anch’esso interamente riconoscibile e richiamabile, perché, evocato sullo sfondo dello stesso luogo comune, gli dia più forza, quasi più credibilità, ma non per questo una maggiore fondatezza. Dal punto di vista semantico, infine, l’unico piano che può arricchirsi è quello della connotazione, per cui, anche se non è sempre possibile definire puntualmente il significato di un cliché, è invece molto facile che se ne afferri la valenza positiva o negativa. Scelte autoriali a parte, quella che il linguista Gian Luigi Beccaria ha chiamato un’«epidemia»11 che impoverisce la lingua (in riferimento all’abuso di cliché specialmente nel linguaggio dei media), forse è conseguenza di uno speculare impoverimento del pensiero, della capacità di formulare un giudizio, qualsiasi esso sia, fondato su riscontri reali che diano profondità all’idea stessa e, necessariamente, alla lingua che la veicola12.

Ma ora che la premessa è fatta, finalmente parliamo di donne. È noto che Freud, alla fine della sua speculazione teorica, sia rimasto con un solo vero interrogativo insoluto: cosa volesse una donna13. Nonostante l’impossibilità dichiarata di inquadrare perfettamente il desiderio femminile nel castello edipico14, fondamento della sua teoria, il protopsicanalista propose una categorizzazione del femminile che sfuggiva allo schema di cui sopra. In questa sede non interessano naturalmente gli aspetti teorici – tantomeno quelli clinici – della speculazione freudiana, tuttavia le sue riflessioni risultano utili per l’individuazione di una dicotomia fondamentale, nel cui schema sintetizzare molti dei luoghi comuni che saranno citati: da un lato, la donna oblativa, tutta realizzata nella sua funzione; e dall’altro, la donna narcisista, tesa soltanto ad essere amata. Tale ramificazione contrappone varie figure di donna che ritroviamo declinate in vario modo in base all’epoca e all’ambiente culturale: la madre dolce e la femme fatale (si pensi a Klimt, Madre con bambino vs Giuditta, dello stesso), la donna dignitosa e schietta, “tutta d’un pezzo”, e quella facile e volubile (Mary Haines vs Crystal Allen, interpretate da Norma Shearer e Joan Crawford in The women, 1938, George Cukor), la ragazza fresca e ingenua e la donna intellettuale e complicata (Mary Wilkie e Tracy, rispettivamente Diane Keaton e Mariel Hemingway, in Manhattan, 1979, Woody Allen), la ragazza della porta accanto e la diva sofisticata (Meryl Streep nei panni di Miranda Priestly e Anne Hathaway in quelli di Andrea Sachs, ne The Devil Wears Prada, 2006, David Frankel), e via così…

Tutte queste figure tipizzate – in fondo non meno evanescenti delle donne dei Siciliani –, se scomposte nei loro pur pochi e poveri tratti caratterizzanti, alla fine, ci lasciano intravedere i due modelli femminili archetipici alla base della nostra cultura di matrice giudaico-cristiana: Eva, la disobbediente madre dei viventi, e Maria, la vergine madre di Dio – come ci ha fatto notare Michela Murgia in Ave Mary. E la chiesa inventò la donna15; la quale Murgia, oltre che scrittrice di romanzi, è anche saggista ben nutrita di studi teologici.

Su tale sfondo di figure stilizzate, quasi evanescenti, troppo vaghe per avere corrispondenza reale speriamo insomma che, con la carrellata di testi che seguiranno, risulti, citando una nota frase di Jacques Lacan, che "la donna non esiste"16, e non nel senso in cui questa frase è stata malintesa, ma nel suo senso originario: la donna non esiste perché è impossibile la sua concettualizzazione, la donna non esiste perché esistono le donne, ognuna a modo suo e ciascuna con la sua D maiuscola.

Ma, se ha ragione Umberto Eco, quando dice che "su ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare"17, noi ora proviamo a far parlare i testi: non più quelli in cui le donne sono oggetto della scrittura maschile, bensì quelli in cui sono soggetto della loro arte; parliamo di donne, insomma, che, dicendola alla Virginia Woolf, hanno avuto la possibilità di quella famosa stanza tutta per sé18.




Note:

1. ‘Declino l’onore di essere un angelo’ (traduzione mia), Maria Deraismes, Eve dans l’humanité (1868), a cura di Laurence Klejman, Paris 1990, p. 37.

2. Si avverte che, nel corso di tutto l’articolo, cliché non è in ogni caso da intendersi nel senso strettamente linguistico di ‘sintagma cristallizzato’, ma anche retorico stilistico di tòpos ‘ripresa di uno stesso concetto’ ed è accostato, come si vedrà, anche a quello sociologico di motivo ‘idea culturalmente condivisa’ e quello semantico di stereotipo inteso come ‘significato prima generalizzato e poi genericizzato’, fino alla flaubertiana idée reçue ‘credenza comune (vera o falsa, ma in ogni caso infondata)’. Per tutti i concetti appena citati, le discipline che rispettivamente se ne occupano e la relativa bibliografia di riferimento, cfr. almeno Gianfranco Marrone, Luoghi comuni. Un’ipotesi semiotica, in Nunzio La Fauci (a cura di), Il telo di Pangloss. Linguaggio, lingue, testi, Palermo, L’Epos, 1994.

3. Si cita traducendo liberamente da "Expression toute faite devenue banale à force d'être répétée; idée banale généralement exprimée dans des termes stéréotypés" (Trésor de la Langue Française Informatisé (TLFi), Nancy, CNRS – ATILF (Analyse et traitement informatique de la langue française), UMR CNRS & Université Nancy 2, www.atilf.fr/tlfi [Trésor de la Langue Française (1971–1984), Paris, Gallimard]).

4. "Plaque métallique en relief à partir de laquelle on peut tirer un grand nombre d'exemplaires d'une composition typographique, d'un dessin, d'une gravure sur bois, sans avoir à composer, dessiner ou graver à nouveau" (ibid.).

5. La fonte è il Dizionario etimologico della lingua italiana (DELIn), di Michele Cortelazzo e Paolo Zolli, seconda edizione, a cura di Manlio Cortelazzo e Michele A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli, 1999.

6. Come dizionario della lingua italiana contemporanea, si consulta il Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT), ideato e diretto da Tullio De Mauro, Torino, Utet, 1999 e oggi consultabile in rete all’indirizzo www.dizionario.internazionale.it.

7. "Un discours [...] contenant tous les clichés, tous les lieux communs, toutes les expressions éculées, toutes les homaiseries imaginables" (E. et J. de Goncourt, Journal, 1890, p. 1267).

8. ‘Luogo comune, motivo ricorrente, in un’opera, nella tematica di un autore o di un’epoca, e sim. (significato, questo, che il linguaggio critico contemporaneo assume dalla retorica greca antica)’ (Enciclopedia Treccani, Torino, Utet, consultabile online al sito www.treccani.it/enciclopedia).

9. Cfr. nota 2.

10. Un altro tòpos letterario prescrive che tale indeterminatezza sia necessaria per salvaguardare il nome e quindi l’onore di madonna: «[...] se contare le volesse / le sue bellezze, certo non poria, / poi si savria / qual èste quella donna per cui canto» (Iacopo Mostacci, Mostrar voria in parvenza, vv. 22-25).

11. Gian Luigi Beccaria, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Milano, Garzanti, 2006, p. 16.

12. Sull’argomento, che qui non possiamo approfondire, è interessante una raccolta di studi dall’emblematico titolo: Claudine Raynaud - Peter Vernon, Fonctions du cliché: du banale à la violence, Tours, Presses universitaires François-Rabelais, 1997.

13. Was will das Weib?, scrisse Freud in una lettera dell’8 dicembre del 1925 alla sua allieva Marie Bonaparte (cfr. Alan C. Elms, Apocryphal Freud: Sigmund Freud’s most famous “quotations” and their actual sources, in "The Annual of Psychoanalysis", 29.83-104, 2001).

14. Cfr. lo scritto più maturo sull’argomento: Sigmund Freud, Sessualità femminile, in Id., Opere, Vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

15. Michela Murgia, Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna, Torino, Einaudi, 2011.

16. Lacan pronunciò questa frase con intento volutamente provocatorio davanti a un’assemblea di femministe nel corso di una conferenza tenuta a Milano nel 1973 (sull’episodio e, in generale, sul femminile lacaniano cfr. Colette Soler, Quel che Lacan diceva delle donne, Milano, Franco Angeli, 2005).

17. "Se avesse voluto sostenere una tesi, l’autore avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto). Se ha scritto un romanzo, è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare". Il celebre aforisma – costruito sulle parole di Wittgenstein «su ciò di cui non si può parlare» – chiude il risvolto di copertina della prima edizione de Il nome della rosa (Milano, Bombiani, 1980).

18. Il riferimento è al saggio A Room of One's Own, pubblicato per la prima volta nel 1929 (basato su due conferenze tenute dalla scrittrice all’Università di Cambridge, nel 1928).