La Crusca rispose

Di talché

  • Federigo Bambi
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2023.27921

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Copyright: © 2023 Accademia della Crusca


Abstract

Silvana Sarlo di Reggio Calabria chiede: è corretta l'espressione di talché, usata spesso nelle sentenze, ma più specificatamente a chiusura di un verbale, come nel caso di "di talché il presente verbale..."?


A parlare difficile, di talché si dovrebbe dire un connettivo, ma io son rimasto alle mie vecchie scuole elementari, e per me resta congiunzione. Che non pare – nonostante l’aspetto antiquato e anticheggiante – appartenere a un passato molto remoto. Non c’è nel volgare dei primi secoli, mentre ricorre con valore consecutivo il “semplice” tal che, anche nel Dante della Commedia: “Io era tra color che son sospesi, / e donna mi chiamò beata e bella, / tal che di comandare io la richiesi” (Inf. II, 54).

Significherà qualcosa che in una recente pubblicazione che raccoglie alcuni scritti di uno dei più grandi penalisti del XIX secolo, Francesco Carrara, di talché manchi nelle pagine del professore e avvocato ottocentesco, mentre faccia capolino nell’introduzione del curatore, scritta ai giorni nostri? Ecco il passo: “Felice figura di docente/avvocato in cui le due componenti – per così dire – si integrano e si arricchiscono reciprocamente di talché il secondo verifica le riflessioni del primo dandovi concreta operatività, così come il primo attinge dall’esperienza del secondo sollecitazioni altrimenti inimmaginabili” (Luigi Stortoni, Introduzione, in Francesco Carrara, Reminescenze di cattedra e foro, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 12).

Del resto, la nostra congiunzione composita neppure appare nelle banche dati storiche della lingua giuridica, come l’Archivio unificato Vocanet-LLI dell’Istituto di teoria e tecniche dell’informazione giuridica. Non che sia molto più fortunato chi vi cerchi solo talché: troverà appena sette occorrenze, sparse tra due sole fonti legislative, il Codice di leggi e costituzioni per gli Stati Estensi del 1771 e la Costituzione del Regno di Sicilia del 1812; nulla invece in opere dottrinali, o in leggi più recenti. E anche la lessicografia storica offre pochi appigli. Anzi, nessuno: di talché non è elevato all’onore di lemma, e nei vari dizionari sotto la voce talché non compaiono esempi in cui la congiunzione (ops!... il connettivo) sia preceduta dal di. Nonostante ciò, spigolando qua e là tra vecchie pagine di secoli più o meno lontani, qualche di talché s’incontra, anche fuori dall’ambito giuridico: “La qualità assunta dai contendenti, fissa la personalità giuridica dell’attore e del reo, di talché mutandosi qualità, si muta altresì la persona” (Giurisprudenza civile della Corte di Cassazione di Napoli, a cura di Luigi Capuano e Vincenzo Napolitani, Napoli, Stabilimento tipografico degli scienziati, letterati ed artisti, vol. III, 1864, p. 173); quasi un secolo prima: “Essendo dunque di pari costruzione le Terme napolitane, esse occupavano quel luogo, che additammo nella Topografia co’ Numeri 193, e 197; fra del Circo, e del Ginnasio; di talché infino a di’ nostri vi è rimasta la denominazione sul sito di Cortebagno“ (Niccolò Carletti, Topografia universale della città di Napoli, Napoli, nella Stamperia raimondiana, 1776, p. 155). Ma la frequenza è sempre tale da far ritenere più che giustificata la scelta degli autori di vocabolari di non dare troppo peso all’espressione. Anche perché non c’è da sbagliarsi: i significati e la funzione son sempre gli stessi di talché scempio, e il lettore non corre il rischio di essere tratto in inganno da quella preposizione premessa a riempimento della congiunzione.

Eppure, l’odierna lingua del diritto non l’ignora, e non solo quella della pratica. “Usato di solito nel linguaggio forense” marca il Sabatini Coletti 2006 (Dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli Larousse, 2005, s.v. talché). Di talché si può leggere assai di frequente in sentenze, sia con valore consecutivo, sia con valore dichiarativo. Per rendersene conto basta sfogliare un repertorio elettronico, e già saranno utili le prime massime in cui ci si imbatte: “In tema di interesse e legittimazione all’impugnativa di titoli edilizi presupposto fondamentale è la vicinitas che presuppone in estrema sintesi un nesso tra l’intervento edilizio o urbanistico e la sfera giuridica del soggetto che tale iniziativa censura in via giurisdizionale di talché l’intervento sia in grado di incidere in maniera oggettivamente apprezzabile sulla sfera del ricorrente” (Tar Liguria, sez. I, 26 novembre 2012, n. 1507); “la Corte ha respinto la tesi dei ricorrenti secondo cui la sentenza impugnata aveva errato nel richiamare l’art. 2227 c.c., sostenendo invece che nel caso in esame, si sarebbe dovuto applicare l’art. 2237 c.c., che disciplina il recesso del cliente del contratto di prestazione intellettuale, di talché secondo i criteri ivi previsti, la Corte territoriale avrebbe dovuto liquidare le spese sostenute dai professionisti, ed il compenso ad essi spettante per l’opera svolta” (Cassazione civile, II sez., 09 novembre 2012, n. 19524, in Diritto & Giustizia 2012, 12 novembre). Che s’usi altrettanto spesso in dottrina, s’è già fornito l’esempio, e può bastare.

Non è una sgrammaticatura, piuttosto appartiene al genere di quei vocaboli che talvolta i giuristi adoprano per conferire alla loro lingua sembianze auliche e paludate. Non serve certo alla chiarezza dei contenuti del discorso giuridico, tutt’altro; di talché sarebbe certo il caso che se ne perdesse il vizio.