DOI 10.35948/2532-9006/2021.5472
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“Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella,
credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua.
E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana;
ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto”
(Dante, Convivio, I, XI)
Il 4 novembre 2020, dopo che era stato diffuso il nuovo bando PRIN, cioè il bando per i Progetti di ricerca di interesse nazionale rivolto ai nostri atenei, ho mandato, a nome dell’Accademia della Crusca, questa lettera al Signor Ministro dell’Università, prof. Gaetano Manfredi:
Onorevole Signor Ministro Manfredi,
con grande rammarico ho constatato che la domanda per rispondere al bando dei finanziamenti PRIN 2020 da poco pubblicato prevede (art. 5 comma 2) un testo ufficiale redatto solo in lingua inglese, mentre la versione italiana, definita “ulteriore”, è considerata accessoria, da allegare a scelta del proponente. Mi sembra evidente che in tal modo le due lingue non sono poste su di un piano di parità, e anzi l’italiano risulta visibilmente svilito.
Mi permetto di ricordarLe la ‘storia linguistica’ delle domande PRIN. Fino al 1997 la domanda fu sempre redatta in italiano. Dal 1998 (Ministro Berlinguer) le domande furono richieste in italiano e in inglese, con la motivazione di estendere in questo modo il numero dei valutatori internazionali. Nel 2012 (Ministro Profumo), la domanda fu ancora richiesta in due lingue, italiano e inglese, poste su di un piano di parità. Nel 2015 (Ministra Giannini), la domanda fu in italiano o in inglese, ma “a scelta del proponente” (art. 4, comma 2). Nel 2017 (Ministra Fedeli), la domanda fu imposta solo in inglese, con un’eventuale versione ancillare in italiano, secondo la medesima formulazione che si ritrova nel bando 2020 ora emanato sotto il Suo Ministero.
Nel dicembre 2017 e poi nel 2018, ci fu una reazione contro la domanda ufficiale del PRIN 2017 richiesta obbligatoriamente e solo in inglese. La polemica fu avviata da un articolo del Sole 24 ore, a cui seguì un intervento dell’Accademia della Crusca (che si legge ancora, ricorrendo a questo collegamento: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/il-miur-d-un-calcio-all-taliano/7420 ). Ci fu una risposta della Ministra Fedeli, che si legge mediante un altro collegamento posto nella stessa pagina web dell’Accademia. Si aprì un vivace dibattito, che ebbe un seguito anche in alcune pagine di un mio libro (cfr. C.M., L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, Rizzoli, 2018, pp. 74-98).
Non ripeterò qui gli argomenti emersi in quel dibattito. Mi limiterò a chiederLe per quale ragione non sia possibile porre le due lingue allo stesso livello, richiedendo le domande sia in italiano sia in inglese. Se la giustificazione dell’inglese sta nella necessità di una valutazione internazionale, è evidente che alcune discipline non possono avere valutatori che non conoscano l’italiano (si pensi alla letteratura italiana, alla linguistica italiana, al diritto italiano). Per queste discipline, la redazione in inglese potrebbe non essere indispensabile, come del resto potrebbe non esserlo quella in italiano in altri ambiti disciplinari.
Tuttavia, tenendo conto che l’inglese è la lingua della comunicazione scientifica internazionale e che l'italiano è la lingua ufficiale della nazione, è opportuno che l'uso di entrambe le lingue sia richiesto a tutti, anche a coloro che non usano o non vogliono usare l’italiano nelle loro ricerche scientifiche. Ciò li aiuterà a non dimenticare in quale paese vivono, e aiuterà tutti noi a tener vivo anche l’italiano tecnico-scientifico.
Le sarò grato, Signor Ministro, se vorrà riflettere sul problema, in considerazione di questo e di altri bandi PRIN.
Mi creda suo
C.M.
La lettera fino ad oggi non ha avuto risposta. So che alcune istituzioni culturali hanno a loro volta scritto al Ministro lettere analoghe. Non so se questi sforzi abbiano raggiunto lo scopo più profondo che ci animava: non tanto smuovere la burocrazia per uno specifico atto, ma sollecitare la riflessione su di un tema di grande importanza per la sopravvivenza della lingua italiana come strumento di elevata cultura, collegato all’uso dell’italiano negli atenei, argomento su cui si è discusso tempo fa, coinvolgendo il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale. Nel 2017 l’identica questione ebbe come esito una vivace polemica, che allora si avviò proprio in questa medesima rubrica, favorita da un titolo impressivo che attirò l’attenzione della stampa: “Il MIUR dà un calcio all’italiano”.
Avrei potuto adottare oggi un titolo corrispondente, ad esempio “Il MIUR dà un altro calcio all’italiano”. Non l’ho fatto, così come non ho voluto rendere subito pubblica la mia lettera al Ministro Manfredi. Non ho voluto sollevare polemiche in un momento difficile per la vita del paese e per la stessa organizzazione della ricerca e della didattica universitaria, duramente messa alla prova dalla covid-19. Ora, però, siamo giunti a ridosso della data di scadenza delle domande del PRIN. Pur mettendo in atto ogni sforzo per comprendere le ragioni avverse, continuo a non capire perché le due lingue, l’italiano nazionale e l’inglese internazionale, non possano convivere pacificamente, presentandosi in casi come questi abbinate, con pari diritti. Perché una lingua deve scalzare l’altra? Se a un italianista, o a uno studioso di diritto italiano, viene richiesto di stilare la propria domanda in inglese, benché sia chiaro che la sua ricerca non potrà mai essere giudicata e compresa da chi non intenda l’italiano, perché uno sforzo analogo non dovrebbe essere richiesto a chi, per converso, ritenga di dover essere valutato solo da chi legga la sua domanda redatta in inglese, nella certezza (quanto legittima?) che mai lo capirà chi legge il nostro idioma del sì? Tutti gli studiosi devono accettare lo sforzo di farsi intendere dalla comunità scientifica di riferimento, ma al tempo stesso tutti dovrebbero maturare il massimo rispetto della loro lingua nazionale, per quanto questo possa costare loro un po’ di fatica, favorendo comunque lo sforzo del tradurre, che è sempre un modo per riflettere vantaggiosamente su significati e contenuti, come ci insegnava Umberto Eco. Dico questo sapendo che già oggi alcuni membri della nostra comunità accademica appoggiano la soluzione adottata dal MIUR, sostenendo, quasi con vanto, di non essere in grado di discorrere in italiano della loro scienza. Proprio in questa affermazione sta il pericolo più grave: una lingua che non venga usata per la scienza, che anzi ne sia reputata contenitore impossibile, decade rapidamente al rango di dialetto. L’italiano non merita questa fine, e il MIUR non dovrebbe avere interesse a favorire una decadenza del genere.
Un confronto su questo delicato tema, sollecitato, spero, dalla pubblicazione di questo mio intervento, servirebbe a pesare le ragioni a confronto di chi, come me, difende l’italiano, e di chi ostinatamente, per la seconda volta, ha preferito abolirlo, pur ammettendo, debole e umiliante vicolo d’uscita, un eventuale testo italiano facoltativo (a beneficio non si sa di chi…).
L’italiano non merita di essere tollerato in nome di una concessione benevola. Semmai dovrebbe diventare obbligatorio anche per coloro che altezzosamente ritengono di poterne fare a meno. Tutti accettiamo di scrivere il testo inglese per favorire il confronto internazionale e per estendere la rosa dei possibili valutatori. Dunque tutti accettino anche di rendere pubblico il loro testo nella lingua ufficiale della nazione, perché possa essere letto da qualunque cittadino italiano desideri farlo, in ossequio a un principio di trasparenza nell’uso di pubbliche risorse. Questa è vera parità linguistica, senza la quale la nostra lingua riceve un danno, proprio nell’anno di Dante.
Aggiornamento del 12 gennaio 2021:
Il 10 gennaio, dopo la pubblicazione della mia lettera nel sito della Crusca, è giunta una prima risposta del Ministro Manfredi, seppure in forma indiretta, nel corso di un'intervista concessa a "la Repubblica" (p. 4 dell'edizione di Napoli). L'intervista prende le mosse dalle argomentazioni dello scienziato Andrea Ballabio, che ha criticato la distribuzione dei finanziamenti ministeriali per la ricerca, i quali avverrebbero aggirando le norme e facendosi beffe della meritocrazia.
Riproduciamo qui una parte dell'articolo, quella in cui ricorre la menzione dell'Accademia della Crusca:
Premettiamo che la divisione dei finanziamenti PRIN non è problema in cui l'Accademia della Crusca sia intervenuta o abbia intenzione di intervenire in qualunque modo, essendo questione estranea alle nostre competenze istituzionali. La risposta del Ministro mostra tuttavia un totale fraintendimento degli argomenti linguistici di nostra specifica competenza: