DOI 10.35948/2532-9006/2020.3299
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Si legge nei verbali della Crusca che il 27 di marzo del 1888, nella seduta mattutina, presenti gli accademici Milanesi, Gotti, Tortoli, Rigutini, Del Lungo, Conti, Dazi Fornaciari, Ricci, Alfani e Guasti, quest’ultimo in funzione di segretario, assente il solo Tabarrini, si procedette alla votazione di nuovi accademici1. Quattro erano i posti vacanti, e risultarono eletti Carlo Negroni di Novara con 11 voti, Giuseppe Meini di Firenze con 11 voti, Giuseppe Cugnoni di Roma con 9 voti, e infine il professor Alessandro D’Ancona dell’Università di Pisa con 7 voti, meno degli altri, benché fosse poi destinato ad essere tra tutti il più celebre. Cinque voti toccarono anche al commendatore Giulio Rezasco, autore del Dizionario del linguaggio italiano storico e amministrativo. Però, avendo riportato meno consensi degli altri, non risultò tra gli eletti. La mattina del 26 di giugno dello stesso anno, ultimo martedì del mese, gli accademici si riunirono nuovamente e presero atto del decreti reali del 17 maggio, con i quali veniva approvata l’elezione dei quattro nuovi accademici corrispondenti2. La nomina richiedeva allora un decreto reale, così come ancora, fino a poco tempo, occorreva il decreto del Ministro dei Beni culturali. Il 30 di giugno, da Novara, Negroni scriveva all’Accademia di Firenze, grato dell’onore ricevuto, tanto più gradito quanto era “lontano da ogni mia aspettazione”3. I verbali dell’Accademia non fanno cenno ai meriti per i quali al Negroni era stato riconosciuto il diritto alla cooptazione nel prestigioso consesso. Mi sembra tuttavia lecito supporre che i meriti più significativi che gli venivano riconosciuti fossero quelli relativi alla sua attività di dantista. I verbali non dicono nemmeno quale fosse l’accademico della Crusca che avesse avanzato la candidatura di Negroni, e tuttavia un particolare rapporto intratteneva con Giovanni Tortoli, a cui nel 1884 aveva dedicato la sua edizione delle lezioni petrarchesche di Giovanni Battista Gelli.
Queste lezioni petrarchesche dei Gelli erano ben legate alla cultura fiorentina, perché erano state recitate proprio di fronte all’Accademia Fiorentina (anteriore alla fondazione della Crusca), ed erano state stampate nel 1549 dal Torrentino di Firenze, successivamente riunite in un libro dello stesso Torrentino stampato nel 1551. Non a caso Negroni aveva scelto di pubblicare proprio quel libro del ’500, non solo per amore della Toscana: come ricordava nell’introduzione, il Gelli aveva dedicato tre di quelle lezioni a Livia Tornielli, una donna dell’aristocrazia novarese vissuta a metà del Cinquecento, poi andata sposa a un Borromeo milanese, conte di Arona. La Tornielli “nel secolo XVI che di donne letterate non ebbe certamente penuria, fu ottima poetessa” - scriveva il Negroni4.
L’interesse per la cultura Toscana si univa dunque alla pietas della memoria locale, che sempre fu di ispirazione per il Negroni. La prefazione alle lezioni del Gelli forniva anzi l’occasione per ricostruire la figura di Livia Tornielli, molto meno conosciuta, ovviamente, dell’autore fiorentino, che è comunque un classico della nostra letteratura rinascimentale. Negroni poteva così ricordare l’assedio di Novara durante il quale il padre di Livia, il capitano Tornielli, era stato barbaramente ucciso dai francesi. La vita dell’infelice Lidia era stata rattristata anche dalla morte di un figlioletto. Nel 1560, secondo la ricostruzione di Negroni, la Tornielli era già morta, lasciando vedovo il conte Dionigi Borromeo. L’argomento novarese aveva sicuramente appassionato Negroni, che se ne scusava, chiedendo al lettore di perdonare la lunga digressione “all’amore della mia Novara”5. Le lezioni petrarchesche del Gelli erano poi liquidate in poche righe, ma la dedicatoria al Tortoli conteneva anche un caloroso ringraziamento per l’aiuto che gli era stato prestato dallo studioso, maestro nel campo della “buona lingua” e della “buona letteratura”6. Il Tortoli, accademico della Crusca (e più tardi arciconsolo, dal 1905), era dunque l’amico che aveva unito Negroni all’Accademia Fiorentina. Risale al 1887 un’altra operazione filologica di maggior respiro, dedicata di nuovo a Giovan Battista Gelli: la pubblicazione delle letture edite e inedite sopra la commedia di Dante. Non soltanto veniva ripreso il testo delle lezioni del Gelli pubblicate nel ’500, ma se ne aggiungevano altre inedite, reperite in un codice fiorentino magliabechiano.
Ecco di nuovo, dunque, il legame tra Negroni, Gelli e Firenze, e di qui anche il legame con l’accademia della Crusca, perché questo volume, pubblicato proprio a Firenze, porta la dedica alla Reale Accademia della Crusca. La prefazione è molto interessante: intanto, vi ricorre in maniera specifica, ancora una volta, il ringraziamento al Tortoli. Poi ci interessa l’interesse per Dante, che qui si manifesta: si tratta appunto di lezioni dantesche. Inoltre le prime pagine di quest’introduzione fanno riferimento alla questione della lingua, un tema in cui Negroni sembra muoversi in una maniera che definirei piuttosto sgusciante, perché ricorre il nome di Quintino Sella (“il mio ottimo e da tutti compianto amico Quintino Sella”7), e noi sappiamo che, se ci si voleva riferire a un nemico della fiorentinità linguistica, l’antimanzoniano Sella non era secondo a nessuno: celebre rimane nella memoria dei posteri la lite di Sella con Manzoni avvenuta a Brusuglio, descritta nella prefazione del Vocabolario fiorentino di Giorgini - Broglio8.
Sella era convinto che la lingua dell’Italia nuova sarebbe sorta da un miscuglio tra le diverse lingue esistenti nella penisola, e sarebbe stata qualcosa di molto lontano dal fiorentino. Tuttavia Negroni riusciva a introdurre Sella all’interno di una sorta di panegirico nei confronti di Firenze e dell’Accademia della Crusca, in sostanza evocando l’imminente perdita dei vernacoli, dovuta all’Unità d’Italia, ma affermando nel contempo che con la coesione politica la lingua fiorentina sarebbe comunque rimasta la guida delle altre, qualunque fosse il nome che ad essa si potesse dare. Scriveva: “In ogni caso mi pare evidente, che tanto vale il dir fiorentina la lingua che si parla e scrive degli Italiani, quanto il dir parigina quella dei francesi, madrilena quella degli Spagnoli, berlinese quella de’ Tedeschi, londinese quella degl’Inglesi, e così ogni altra”9, quasi si trattasse di una semplice questione nominalistica, senza mostrare di accorgersi che Parigi, Berlino e Londra erano capitali politiche, ma e Firenze in quel momento già non lo era più. Del resto il saggio si chiudeva con un altro atto di ossequio a Firenze e alle sue tradizioni culturali, perché veniva avanzata la proposta, rivolta all’Accademia della Crusca, di farsi promotrice della fondazione di una Società dantesca. Infatti la Società dantesca fu fondata a Firenze nel 1888, il 31 luglio in Palazzo vecchio, e a costituirla collaborò effettivamente l’accademia della Crusca, secondo il consiglio ricevuto da Negroni, che, nel frattempo, come abbiamo visto, era diventato Accademico corrispondente. Prima ancora di diventare tale, nel giugno del 1887, aveva scritto una lettera all’Accademia della Crusca (la si conserva nell’archivio della Accademia medesima) in cui ringraziava gli Accademici per aver accolto la proposta della fondazione della Società dantesca. Negroni scriveva:
L’essersi l’Accademia accinta alla nobilissima impresa [di fondare una Società dantesca] mi dà la sicurezza, che la Società per lo studio di Dante in Italia non solamente si formerà, ma non sarà meno florida e potente che quella per lo studio di Goethe in Germania, e sarà anzi tanto maggiore quanto il poeta italiano vince l’alemanno10.
Al di là della gara di valore tra Dante e Goethe, è evidente che l’Accademia della Crusca aveva fatto tesoro del suggerimento intelligente venuto dal Negroni.
L’altra operazione filologica sulla quale il Negroni aveva sicuramente affinato i propri strumenti di studioso era stata l’edizione della Bibbia in volgare antico, il cui primo volume era riuscito a Bologna nel 1882. In questo caso, il legame si era stretto con Francesco Zambrini, presidente della Commissione per i testi di lingua. Tale edizione della Bibbia fu sicuramente importante. Un filologo esperto del nostro tempo, quale è Lino Leonardi, ha riconosciuto che essa contiene la prima rassegna di testimoni biblici in volgare italiano, una quarantina11. Tuttavia, nonostante questo sforzo di ricognizione, l’edizione risulta di fatto limitata, perché la collezione dei codici è “utilizzata solo per emendare il testo dell’incunabolo pseudo-jensoniano (ora attribuito ad Adamo di Ambergau) riprodotto nella sua presunta qualità di fedele derivato della tradizione trecentesca”12. Era l’esemplare di incunabolo a cui Negroni, come racconta, era giunto fortunosamente in possesso, seguendo la propria passione di bibliofilo e di collezionista di edizioni antiche e di edizioni di Crusca. Comunque, per quante pecche vi possa individuare la moderna filologia, il lavoro di Negroni sulla Bibbia volgare fu decisamente importante, e gettò le basi di una ricognizione della testo biblico agli albori dell’arte della stampa, tanto è vero che se ne parla ancora oggi tra gli specialisti.
Negroni fu filologo acuto, eccezionalmente acuto per essere un dilettante. Diede il meglio di sé intervenendo su questioni dantesche. Direi che operò con intuizioni folgoranti oltre che con il lavoro metodico sulle traduzioni della Bibbia e sui manoscritti danteschi del Trecento. Non a caso, l’abbiamo visto tra coloro che si davano da fare per le fondare la Società dantesca italiana. Quest’aspetto dei suoi studi è forse il più noto. Nel 1884 aveva dato alle stampe, a Novara, un discorso critico sui lessi dolenti dell’Inferno13. Il sottotitolo del breve saggio spaziava però verso un argomento molto più vasto, al centro delle attenzioni della cultura europea del tempo, cioè il problema del “testo della Divina Commedia”. Non soltanto l’analisi puntuale di un passo dubbio di Dante, dunque, con le correzioni che si potevano apportare, ma anche la riflessione su di un problema fondamentale della filologia italiana, che ancora oggi sta a cuore agli studiosi: era in questione la metodologia per la ricostruzione del testo della commedia di Dante, di cui non si possiede l’autografo, e la cui trasmissione affidata a centinaia di codici in cui è difficilissimo anzi impossibile mettere ordine costruendo un albero stemmatico. Possiamo sperimentare qui la competenza dantesca di Negroni, che si esprime fra l’altro con un particolare brio di scrittura, perché di fronte a un passo di Dante di difficile interpretazione (quello appunto dei lessi dolenti), dopo avere esplicitato tutte le varianti che si rintracciano nei codici antichi, Negroni spiegava al lettore che la scelta restava un problema molto difficile. Quale poteva essere, tra le copiose varianti del passo che aveva esaminato, la vera parola che Dante aveva scritto e voluto che rimanesse nel poema sacro? difficile dirlo. Per rispondere a questa domanda, “il mezzo più semplice e più sicuro sarebbe di far ricorso a uno spiritista, il quale richiamasse dall’altro mondo lo stesso Dante, e lo costringesse a dirci il fatto suo”14. E continuava: “il male però si è che gli spiritisti non trovarono tra i letterati il credito che pur sempre acquistaronsi tra il volgo e le donnicciole. Onde nella cosiddetta Repubblica letteraria quelle tali spiritiche o spiritate rivelazioni non ebbero né sembra che sieno per avere fortuna”15. Ecco quanto suggeriva Negroni: “invece degli spiritisti bisognerà dunque che ci rivolgiamo alla Critica”16. Negroni esercitava il suo sarcasmo contro un gusto che per secoli aveva danneggiato il testo di Dante, perché gli editori del testo avevano scelto la variante che ritenevano migliore e più ragionevole, ma non l’avevano fatto seguendo un criterio oggettivo e impersonale, ma secondo un criterio a priori, basato sul loro gusto di lettori. Negroni detestava quella che chiamava la “critica soggettiva”17, quella in cui l’interprete sceglie in base al suo buon senso o al suo gusto le parole di Dante da mettere a testo. La crociata di Negroni colpiva la soggettività nell’interpretazione del testo di Dante, laddove “la ragione del critico” stava “nel luogo della ragione di Dante”, cioè sostituiva Dante con altro, che però Dante non era18. Il risultato di un simile procedere erano tanti testi della Divina commedia “quanti furono e sono e saranno i suoi editori e i suoi interpreti”19. Nell’impossibilità di tenere conto di tutti i testimoni della Commedia di Dante, a causa della loro eccessiva quantità, la soluzione proposta da Negroni consisteva nello scegliere i codici più antichi, ricavando dunque, se non il testo di Dante in assoluto, almeno la ‘lezione dei contemporanei di Dante’. Scriveva dunque Negroni:
fino a tanto che non avremo o un autografo del poeta o una copia da lui accettata, ciò che egli abbia veramente scritto lo dovremmo domandare a’ suoi contemporanei, piuttosto che ai posteri; lo dovremmo ricercare nei manoscritti dell’età sua, piuttosto che in quelli delle età successive, o peggio ancora nei ragionamenti ingegnosi e sottili che si sono fatti, e si faranno, cinque o più secoli dopo che egli andò nel cielo empireo a rivedere la sua Beatrice20.
Ovviamente i problemi non si ponevano dove c’era unanimità dei codici, ma, nei passi dubbi, in presenza di varianti: in quei casi, ci si doveva tenere all’antica vulgata. Era la medesima formula poi adottata per l’edizione moderna, realizzata da Petrocchi per il centenario dantesco del 1965, uscita nel 1966-67 (poi, rivista, nel 1994), anche se dobbiamo prendere atto che la moderna edizione di Petrocchi, sui lessi dolenti, respinge la proposta di Negroni, pur ricordandola.
Il saggio sui lessi dolenti danteschi può essere considerato un’anticipazione del più impegnativo Discorso sul testo della Divina Commedia proposto nel giugno del 1889 all’Accademia delle Scienze di Torino, e pubblicato nel 1890 negli atti dell’Accademia medesima con una dedica alla Società dantesca italiana, costituita nel frattempo anche grazie alle sollecitazioni di Negroni21.
In questo nuovo e più ampio saggio, viene nuovamente esposta la teoria secondo la quale l’edizione della Commedia non può che basarsi sulla scelta dei codici trecenteschi, i più antichi, individuati come tali per prove storiche e paleografiche. Uno dei pregi di questo saggio è il bilancio molto attento della situazione delle edizioni dantesche intorno agli anni ottanta dell’Ottocento, anni cruciali per questo tipo di discussione filologica. Possiamo tornare a riassumere brevemente il pensiero di Negroni, che resta quello che abbiamo già descritto: una vera edizione critica della commedia è impossibile per il numero eccessivo di elementi da esaminare tra codici, stampe e testi dei commentatori. Su questo punto il pensiero dei moderni è identico al suo. I 700 codici della commedia non permettono la costruzione di un albero stemmatico. Di fronte a questa impossibilità, Negroni esaminava le posizioni dei dantisti della sua epoca, cominciando da quelli che chiamava i seguaci del “libero esame”. Costoro si sentivano autorizzati a scegliere muovendosi allegramente tra tutte le varianti possibili ripescando di volta in volta la più gradita. Tra le edizioni italiane della Commedia, Negroni dimostrava particolare antipatia per quella dell’abate Giambattista Giuliani, che era stato uno dei protagonisti delle celebrazioni dantesche del 1865. La formula di Giuliani era quella del “Dante spiegato con Dante”, in una sorta di analogia e confronto tra parti diverse della Commedia. Secondo Negroni, questa formula era prima di tutto una ripresa del passato, essendo stata inventata mezzo secolo da un altro dantista, il settecentesco Dionisi. Nel 1880, Giuliani aveva pubblicato una Commedia “raffermata nel testo”, come si legge sul frontespizio, “secondo la ragione e l’arte dell’autore”. Negroni, però, rifiutava correzioni che non poggiassero sull’autorità dei codici. D’altra parte Negroni prendeva le distanze anche da coloro i quali avevano praticato la filologia, ma avevano scelto di appoggiarsi a un solo codice, o si muovevano liberamente da un codice all’altro, pescando di volta in volta la lezione migliore. Secondo Negroni questa era stato l’errore compiuto da Giovanni Andrea Scartazzini, insieme a una buona compagnia d’altri editori. Qui Negroni arrivava al filone più importante della filologia dantesca, riferendosi al Carlo Witte, editore della commedia a Berlino nel 1862. Witte aveva scelto di correggere la Commedia mediante quattro dei più autorevoli codici manoscritti. Ma il problema era a questo punto il seguente: perché quei quattro codici piuttosto che altri? Negroni si confrontava anche con le tesi del Monaci, la celebre tesi dei loci selecti, che però, a suo giudizio, aveva il difetto di fare rientrare nell’esame tutti i codici possibili, se pure su un numero limitato di passi da esaminare. Negroni sapeva benissimo che non si possono considerare inutili i codici più recenti, perché possono trasmettere una lezione antica più autentica di altri. Tuttavia ribadiva la necessità di limitare la selezione ai codici più antichi, quelli dell’antica vulgata, e anzi elencava i codici trecenteschi a lui noti che potevano essere presi in considerazione. L’interesse della tesi del Negroni sta dunque nella sua anticipazione della scelta moderna, perché, come già abbiamo già detto, l’edizione di Petrocchi nel 1966-67, poi ristampata nel 1994, ha seguito appunto il criterio dell’antica vulgata, anche se è un criterio su cui ancora si discute.
Se le cose stanno così certo è per noi interessante vedere quale sia stato il giudizio dei critici moderni di fronte a una brillante coincidenza di questo genere. Può essere utile rileggere la voce dedicata al Negroni dall’Enciclopedia dantesca, voce compilata nel 1970 da Marziano Guglielminetti. Devo dire che questa voce si presenta con una notevole severità di giudizio nei confronti del Negroni. Negroni avrebbe anticipato qualcosa che davvero si è poi realizzato, ma, secondo Guglielminetti, la proposta del Negroni
provenendo sì da un amatore della Commedia e da un collezionista dei suoi codici (appartenevano lui due quattrocenteschi posseduti dalla biblioteca civica di Novara), ma non certo da un filologo, deve considerarsi poco più di una fortunata previsione di risultati testuali ancora impossibili sul finire del secolo scorso22.
Questo giudizio mi pare piuttosto ingeneroso nei confronti del Negroni, che non era sicuramente un filologo di mestiere, ma ne aveva tutte le capacità. Nemmeno mi sembra che abbia ragione Guglielminetti quando attribuisce al Negroni una “speranza, tipicamente romantica, di arrivare a ricostruire la lezione originale della Commedia”, perché in realtà questa speranza nel Negroni non c’è affatto, o almeno io proprio non l’ho trovata. Dobbiamo anche prendere atto che il giudizio sul Negroni, nel raffronto con il lavoro di Petrocchi, è stato valutato in maniera molto più favorevole da un illustre dantista come Francesco Mazzoni, nel celebre saggio Dante e il Piemonte, dove anzi viene ribadita la validità della scorciatoia indicata a suo tempo da Negroni per l’edizione della commedia, e si conclude che il lavoro di Petrocchi, pur nell’inevitabile diversità rispetto al lavoro moderno, “ben risponde ai concetti propugnati a suo tempo dal novarese Negroni”23, il quale non aveva torto dunque di prendere le distanze dei metodi di personaggi di grande levatura ed illustri, come Ernesto Monaci e Michele Barbi, per quanto nomi sacri della filologia italiana, anche se la sua tesi “non trovò grazia presso i critici di allora”24. Sicché il giudizio di un esimio dantista come Mazzoni gli farebbe certo piacere, o gli farà piacere, se gli potrà giungere nella tomba.
Sicuramente il capitolo dantesco rappresenta il punto cruciale delle ricerche di Negroni, così come a mio giudizio il punto debole è rappresentato per contro dall’edizione del commento del Talice di Ricaldone, non soltanto perché Negroni sopravvalutava la natura di ‘commento’ per un testo che agli occhi degli studiosi moderni rappresenta piuttosto la semplice copiatura del commento dantesco di Benvenuto da Imola. Il Mazzoni osserva che fu esagerazione la pubblicazione con la solenne dedica a Umberto I nel 1888, anche se quel lavoro di copista è importante per dirci qualche cosa sulla circolazione di Dante in Piemonte nel Quattrocento. A mio giudizio, inoltre, il saggio su Talice di Ricaldone è anche quello in cui il Negroni si fa prendere maggiormente la mano da un certo spirito campanilista e patriottico, e si lascia travolgere dai falsi del Malacarne nel ricostruisce un mitico Piemonte italiano in epoca quattrocentesca, offrendoci un quadro che non ha nessuna rispondenza con l’antica realtà linguistica della nostra regione.
Ma anziché soffermarmi su di un’opera che purtroppo rivela i limiti dovuti a un’affezione per la piccola patria, voglio ricordare invece un intervento che collega di nuovo Negroni all’Accademia della Crusca: nella tornata del 27 dicembre del 1891, a Negroni, ormai avanti negli anni, fu affidata la celebrazione di Antonio Stoppani, poi pubblicata nel 1892 con il titolo I tre amori dell’Abate Antonio Stoppani. Qui usciamo dal terreno del dantismo e della filologia, perché, come è noto, Stoppani fu uno dei fondatori delle scienze geologiche in Italia, e allo stesso tempo fu un fervente manzoniano, e si occupò anche del paesaggio nella Commedia di Dante. Siamo ormai nell’ultimo periodo della vita del Negroni, che morì nel 1896. Nell’elogio dello Stoppani pronunciato di fronte agli Accademici della Crusca (anche Stoppani era stato Accademico) non si trova soltanto l’attenzione agli studi manzoniani di questo straordinario geologo-letterato, ma c’è anche una completa e accuratissima descrizione dei suoi lavori scientifici, valutati perfettamente, con una competenza che non ci si aspetterebbe da un avvocato-letterato. Vorrei chiudere il mio intervento citando proprio un passo dell’elogio dello Stoppani in cui, con intelligenza davvero mirabile, Negroni coglie i rischi della moderna scienza, quando si fa eccessivamente specialistica, così come cominciava ad essere al suo tempo, e come è toccato a quella della nostra epoca:
Ai nostri giorni, per effetto di minuta e fastidiosa analisi, sì è la scienza disgregata in una presso che infinita moltitudine di frazioni, ciascuna delle quali, separata dalle altre, assume dignità e nome di scienza speciale; onde altrettante scienze si crearono, quanti sono gli oggetti e le serie di oggetti, intorno ai quali si rivolge o può rivolgersi l’umano pensiero. E ognuna di queste fa causa da sé; e occupando, in atto di regina, quello che dice essere campo suo proprio, vi si trincera e fortifica, né bada a quello che se ne trova fuori; ed è una gran merce, se come inutile non lo disprezza, e come falso e inimico non lo combatte25.
Il Negroni, che praticava la scienza filologica e la cultura letteraria con il disinteresse di un uomo dedito ad attività professionali completamente diverse, poteva ben giudicare con la serenità di osservatore il fenomeno del frazionamento eccessivo della scienza, che vanifica ogni sguardo d’insieme sull’uomo, sulla sua storia, sulla complessità del reale.
Note:
1. Verbali manoscritti conservati nell’Archivio dell’Accademia (1887-88, Diario 1888, N. 9).
2. 1887-88, Diario 1888, N. 15.
3. La lettera di Negroni è anch’essa conservata negli archivi dell’Accademia.
4. Lettera dedicatoria delle lezioni petrarchesche di Giovan Battista Gelli, raccolte per cura di C. Negroni, Bologna, Presso Gaetano Romagnoli, 1884, p. VII.
5. Ibid., p. XIX.
6. Ibid., pp. III-IV.
7. G. B. Gelli, Letture edite e inedite sopra la Commedia di Dante, raccolte per cura di C. Negroni, vol. I, Firenze, Fratelli Bocca editori, 1887, p. VIII.
8. Cfr. G. B. Giorgini, Prefazione – Lettera a Quintino Sella, in Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, Vol. I, Firenze, Cellini, 1870, p. I e ss.
9. Negroni, in Gelli, Letture edite e inedite sopra la Commedia di Dante cit., p. IX.
10. Da una lettera inedita di C. Negroni “Alla R. Accademia della Crusca”, datata 7 giugno 1887 (n. 657), conservata nell’Archivio dell’Accademia della Crusca.
11. L. Leonardi, I volgarizzamenti italiani della Bibbia (sec. XIII-XV). Status quaestionis e prospettive per un repertorio, in « Mélanges de l'école française de Rome », Année 1993, 105-2, pp. 837-844.
12. Ibid., p. 838.
13. Cfr. C. Negroni, Discorso critico sui lessi dolenti dell’Inferno e sul testo della Divina Commedia, in Novara, Colle stampe dei fratelli Miglio, 1884.
14. Ibid., p. 14.
15. Ivi.
16. Ivi.
17. Ibid., p. 16
18. Ibid., p. 15.
19. Ibid., p. 16.
20. Ibid., p. 34.
21. Cfr. C. Negroni, Sul testo della Divina Commedia. Discorso accademico, nelle Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino, Serie II, Tomo XL, 1890, pp. 209-43.
22. Cito la voce Negroni, Carlo di M. Guglieminetti (1970) dalla versione elettronica dell’Enciclopedia dantesca: http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-negroni_%28Enciclopedia-Dantesca%29/.
23. F. Mazzoni, Dante e il Piemonte (Alpignano, Tallone, 1965), ora in Id., Con Dante per Dante. Saggi di Filologia ed ermeneutica dantesca, I, Approcci a Dante, a cura di G.C. Garfagnini, E. Ghidetti, S. Mazzoni, con la collaborazione di E. Benucci, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2014, p. 265 (109 della numerazione originale).
24. Ibid., p. 262 (106 della numerazione originale).
25. C. Negroni, I tre amori dell’abate Antonio Stoppani, Discorso accademico letto nella solenne tornata dell’Accademia della Crusca il XXVII di dicembre 1891, Firenze, Cellini, 1892, p. 16.