DOI 10.35948/2532-9006/2020.3202
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Ci sono arrivate varie domande sulla legittimità di usare il termine necessarietà, che non risulta lemmatizzato nei dizionari, ma che uno studente di giurisprudenza dichiara di aver incontrato nei suoi studi e che sembra costituire qualcosa di diverso da necessità. La parola, tra l’altro, è usata anche da due lettori che ci sottopongono domande di carattere diverso.
Partiamo innanzi tutto da una considerazione di carattere morfologico. Il sostantivo necessarietà è un deaggettivale (deriva, cioè da una base aggettivale); si parte da un aggettivo che finisce in -io (nella fattispecie in -ario) e si aggiunge il suffisso -età: da sazio si forma sazietà, da obbligatorio abbiamo obbligatorietà, da temerario si forma temerarietà, da visionario ricaviamo visionarietà e così via. Sul piano morfologico, quindi, necessarietà è un derivato formato correttamente. Non altrettanto si può dire, invece, dei sostantivi derivati da aggettivi che escono in -are, cui viene arbitrariamente assegnato il suffisso -età invece del corretto -ità: anche da persone colte si sente talvolta dire (o si lascia trapelare in testi scritti), ad esempio, *interdisciplinarietà al posto del corretto interdisciplinarità [cfr. in proposito la risposta di Giovanni Nencioni sulla Crusca per voi, n. 11, ottobre 1995]. Se, dunque, necessarietà è una forma accettabile (nel senso che è pienamente confacente ai meccanismi di formazione delle parole secondo la norma attuale dell’italiano), per quale motivo manca nei dizionari? In questo caso dobbiamo richiamarci alla regola del blocco, la quale prevede che se esiste già una parola della stessa famiglia lessicale che copre un determinato campo semantico, non se ne produce un’altra che abbia la medesima dotazione semantica. Dunque, essendo l’italiano provvisto della forma necessità (che però in italiano costituisce una base semplice in quanto latinismo colto, dalla quale è stato ricavato il verbo necessitare), non è auspicabile la formazione di una parola come necessarietà, che andrebbe a sovrapporsi alla precedente (questa la spiegazione data da Franz Rainer in Grossmann-Rainer 2004, p. 300).
Tuttavia le cose non stanno propriamente così. Il termine necessarietà, infatti, è usato nei testi giuridici, come possiamo scoprire nel GDLI, opera recentemente disponibile e interrogabile in rete nel sito dell’Accademia della Crusca. Ho usato il verbo scoprire non a caso, perché invano cercheremmo il lemma necessarietà in quel dizionario (come del resto negli altri); eppure sotto la voce obbligatorietà leggiamo: “Per estens. Necessarietà; caratteristica di ciò che è necessario, che accade necessariamente (in contrapposto a possibilità e a probabilità)”. A dire il vero necessarietà ricorre altre cinque volte nel GDLI, ma l’esempio precedente mi pare particolarmente significativo, perché il termine è usato come definiente più tecnico di un altro vocabolo. Nel linguaggio giuridico, inoltre, si parla di necessarietà a proposito del rapporto di causalità, e la si può definire come “un legame dimostrabile scientificamente tra azione e evento”. Va poi rilevato che il vocabolo necessarietà, oltre che nel linguaggio giuridico, trova cittadinanza anche in quello filosofico. Vediamo il seguente passo tratto da un articolo di Giacomo Rabbachin su Spinoza reperito in rete (sito LastLand):
La necessarietà dell’esistenza della sostanza, quindi, è di carattere definitorio – cioè risulta deducibile fin dalla sua stessa definizione –. Non è un caso che sia così, in effetti. Spinoza mira, infatti, a dimostrare l’esistenza necessaria ed infinita di Dio partendo dalla sua stessa definizione.
Infine una considerazione sul significato di necessità. Possiamo riprendere la definizione del Vocabolario Treccani online: “L’essere necessario; carattere, qualità, condizione di ciò che è necessario”. La voce indica dunque una condizione, una qualità, uno stato di natura oggettiva e di valore universale. Nella lingua comune, tuttavia, la parola ha subito una banalizzazione passando a indicare un bisogno, un’esigenza particolare. Dicendo ho necessità di frequentare nuove amicizie, non esprimiamo una condizione oggettiva, ma formuliamo un semplice auspicio personale. L’indebolimento semantico di necessità, dunque, può aver stimolato la ricerca di una parola imparentata che recuperasse la modalità deontica; necessarietà pare contenere un’idea di “doverosità” non sempre riconoscibile in necessità.
Concludendo, si può sostenere che necessarietà sia una parola accettata dalla comunità dei parlanti e si può ipotizzare che venga presto inserita nel lemmario dei nostri dizionari. Anzi, non si tratta di un’ipotesi, ma di una certezza: lo Zingarelli 2020 registra infatti necessarietà ‘caratteristica, requisito di ciò che è necessario’ (e, all’interno del lemma, anche non necessarietà) con datazione al 1857 (il che fa pensare a una lacuna lessicografica più che a un vuoto lessicale).