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Consulenza linguistica | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Dal sogno alla vita: i significati del presepeRita LibrandiPUBBLICATO IL 22 dicembre 2025
Quesito: Quasi ogni anno, a Natale, arrivano in redazione domande circa la forma da scegliere tra presepio e presepe. Segno che questa bella tradizione natalizia è ancora viva. Vi invitiamo a scoprirne ancora qualche segreto, con riferimento il particolare al presepe napoletano Dal sogno alla vita: i significati del presepeLe forme presepe e presepio sono molto antiche: entrambe si attestano in italiano nel XIII sec., soprattutto in testi di argomento religioso (cfr. TLIO s.vv.). Sulle loro origini, che risalgono rispettivamente al neutro latino praesēpe, -is (o al femminile presaepes, -is) e al più tardo praesēpĭu(m) o praesaepĭu(m), è possibile leggere un’ampia e documentata risposta del servizio di Consulenza della Crusca, redatta nel 2014 da Matilde Paoli, che ripercorre le preferenze oscillanti nel corso dei secoli ora per l’una ora per l’altra delle due forme, osservandone però l’equivalenza. Qualche anno più tardi, tuttavia, Paolo D’Achille, nel ricostruire e valutare le più antiche attestazioni delle due forme, conclude, a giusta ragione, che dal punto di vista storico tra presepio e presepe sarebbe più giusto scegliere la prima opzione, non solo perché più autorevolmente documentata in àmbito ecclesiastico, ma anche perché più ricorrente in riferimento alla tradizione natalizia. Nell’uso comune, però, oggi sembra prevalere, secondo quanto testimonia la rete, la forma presepe; si tratta di una tendenza spiegabile da un lato con l’erronea percezione di presepio come regionalismo di area meridionale e dall’altro con la maggiore diffusione della forma concorrente nelle regioni settentrionali (Paolo D’Achille, Presepe, presepio o capannuccia?, in Saggi di linguistica e storia della lingua italiana per Rita Librandi, Firenze, Cesati, 2022, pp. 379-390). È bene ritornare, in ogni caso, sul significato originario della parola, che indicava la ‘mangiatoia’, un elemento, cioè, dell’economia rurale privo di ogni connotazione sacra. È con il latino dei cristiani e, in particolare, con la traduzione della Bibbia dal greco che il termine viene usato per rendere la raffigurazione evangelica della nascita di Cristo, come si legge con chiarezza nel Vangelo di Luca: “reclinavit eum in praesepio” (‘lo depose nella mangiatoia’ – Lc 2,7). Da componente della vita quotidiana la mangiatoia passa sia a simbolo del mistero dell’incarnazione di Dio sia, a seguito dell’umiltà del luogo scelto da Cristo, del totale rovesciamento dei valori mondani. Nei primi secoli della cristianità, tuttavia, la parola continuò indicare un’autentica mangiatoia; fu solo a partire dal XIII secolo che si avviò un progressivo slittamento semantico dal particolare del luogo in cui Cristo viene deposto all’intera raffigurazione della sua nascita. Il passaggio viene favorito da Francesco d’Assisi, che nel 1223 realizza a Greccio la più nota e amata delle rappresentazioni figurate della Natività, agevolando, con il passare del tempo, l’identificazione di presepio non solo con la Natività ma con un intero genere figurativo, caratterizzato da personaggi e iconografie particolari. Non sono insoliti, del resto, nella storia della lingua i passaggi da nomi di cose concrete a denominazioni di generi artistici; lo vediamo, per esempio, nello slittamento della parola teatro, che da ‘luogo di rappresentazioni’ passa a indicare una forma d’arte, o di opera, che dal significato di ‘lavoro’ giunge, attraverso la riduzione della locuzione opera in musica, a quello di genere musicale. In entrambi i casi, tuttavia, sia opera sia teatro conservano, nell’uso comune, anche il significato originario, mentre lo stesso non può dirsi per presepe/presepio, che per tutti rinvia alla sola raffigurazione della Natività: è il fenomeno rarissimo per cui una parola del lessico più umile, legata all’antica pastorizia, diventa la denominazione di una delle più alte forme di racconto simbolico. Lo slittamento semantico viene favorito soprattutto nei secoli dell’età moderna, tra Sei e Settecento, quando alcune pratiche devozionali si legano a forme d’arte popolare ricche e complesse, come quella testimoniata dal noto presepe napoletano. Nella Napoli del Settecento, divenuta capitale cosmopolita di un ampio regno, il presepe non è più solo una scena sacra ma un vero “teatro del mondo”, dove accanto alla Natività compaiono botteghe, taverne, mercati, mendicanti, nobili, musici e pastori: il sacro non è più separato dalla vita quotidiana e tutti sono chiamati a contemplare l’evento della nascita di Cristo. Sono evidenti le attualizzazioni, come dimostra la convivenza di soldati dell’antico esercito romano o di colonne dell’antichità classica con osterie in cui si servono pizze o con artigiani che riparano oggetti della nostra quotidianità. Come in una fiaba, infatti, il tempo si annulla e ogni gesto si interrompe nell’attimo in cui si compie, bloccato dall’attesa stupefatta del miracolo della vita (cfr. Giorgio Agamben, Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe, Roma, Città Nuova, 1977). Il presepe napoletano, tuttavia, sebbene abitato, come si è detto, da una fitta popolazione dai tratti contrastanti, è caratterizzato da regole ben precise: c’è, per esempio, un numero minimo di angeli da porre al di sopra della mangiatoia, i re magi devono essere accompagnati da un corteo di musicanti, tra i pastori almeno uno deve portare una pecorella sulle spalle e tra le figure femminili non deve mancare la lavandaia. Due dei pastori, in particolare, giocano un ruolo decisivo nell’aprire e chiudere l’evento e non dovrebbero mai essere assenti: si tratta di Benino dormiente e del cosiddetto pastore della meraviglia. Il primo è forse il più noto, perché reso famoso da un’opera teatrale religiosa, pubblicata nel 1698, con il titolo Il vero lume tra l’ombre, dal gesuita, drammaturgo e librettista, Andrea Perrucci. L’opera ebbe subito grande successo e, tra Sette e Ottocento, subì diversi rimaneggiamenti (cfr. Roberto De Simone, La cantata dei pastori, Torino, Einaudi, 2000): si introdussero nuovi personaggi, il testo acquisì un andamento comico e il lavoro si affermò definitivamente con il titolo di Cantata dei pastori, rimasto inalterato anche nelle notissime rappresentazioni di Peppe Barra. Una costante mai venuta meno, tanto nell’opera teatrale quanto nel presepe, è proprio la presenza di Benino, il pastore che dorme e che certamente sogna. Che cosa sogni, però, non è dato sapere: forse la vita immobile e al tempo stesso brulicante del presepe, forse il miracolo che deve ancora avvenire e di cui non è cosciente; le interpretazioni sono tante e incerte, ma Benino è quasi sempre collocato all’inizio del presepe, quasi a favorire il passaggio dello sguardo di chi osserva dal sogno alla vita. Il pastore della meraviglia, al contrario, non appartiene ai personaggi della Cantata dei pastori, ma presentandosi con le braccia alzate e gli occhi spalancati, diviene il più teatrale dei personaggi del presepe. Anche in questo caso sono molte le risposte che possono darsi a chiunque chieda di che cosa si stupisca: forse della cometa che appare in cielo, forse della discesa degli angeli, forse del miracolo compiuto; per alcuni si collega persino al dono della vista e alla ricorrenza di s. Lucia del 13 dicembre. Comunque stiano le cose, le due figure sono complementari: se Benino, infatti, apre la scena del presepe con la visione inconsapevole del sogno, il pastore della meraviglia la chiude con la consapevolezza di chi ha ormai riconosciuto l’avvento. Che decidiate, però, di illuminare la notte di Natale con le luci del presepe o che preferiate affidarvi a quelle dell’albero vi facciamo, come ogni anno, i nostri migliori auguri.
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