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SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

Il lungo corso (declinante) della forma piacente

Barbara Fanini

PUBBLICATO IL 10 dicembre 2025

Quesito:

Nella prima terzina del celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, Dante presenta la donna amata come “sì piacente a chi la mira / che dà per gli occhi una dolcezza al core / che ’ntender no la pò chi no la prova” (vv. 9-11). È senz’altro lecito chiedersi come debba essere inteso quel piacente: l’aggettivo qualifica una figura femminile ‘bella’ oppure, come ci scrivono, ‘che può piacere anche se non è bella’?

Il lungo corso (declinante) della forma piacente

Il componimento, certamente fra i risultati più alti e memorabili della fase stilnovistica dantesca, è inserito nel XXVI capitolo della Vita nuova ed è interamente dedicato alla “loda” di Beatrice e delle sue “mirabili ed eccellenti operazioni”, ossia degli effetti che la vista e il saluto di tale “gentilissima donna” generano nei suoi contemplanti (ivi, 1-4). Lo stesso autore presenta il sonetto come “sì piano a intendere” (ivi, 8) e, ancor oggi, a distanza di oltre sette secoli, i suoi versi appaiono mirabilmente limpidi e accessibili, anche senza il lungo corredo di note che, immancabilmente, accompagna qualsiasi edizione scolastica. A una più attenta lettura, tuttavia, quel corredo si rivela tutt’altro che accessorio: come ha dimostrato l’analisi condotta da Gianfranco Contini nel 1947 e divenuta ormai canonica, si dovrà ammettere che nel componimento dantesco “non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell’originale” (Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante, “L’Immagine”, 5 [novembre-dicembre], 1947, pp. 289-295; poi raccolto in Id., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1970, pp. 21-29; la citazione è dalle pp. 21-22). La distanza semantica appare in tutta la sua disarmante evidenza sin dal primo verso: gentile, vero e proprio tecnicismo del vocabolario cortese, vale infatti ‘nobile, distinta’ (dal lat. gentīle(m) ‘appartenente a una famiglia’, da gens ‘famiglia, stirpe’; cfr. DELI, s.v.) e non ‘di buone maniere, affabile’; onesta qualifica una nobiltà “esterna”, che si manifesta attraverso la compostezza e il decoro nei gesti, nel portamento, nel linguaggio (dal lat. honĕstu(m), un derivato di hŏnos ‘onore’, variante più antica di hŏnor; cfr. DELI, s.v.); infine, pare non sta per ‘sembra’ ma per ‘è o si manifesta nella sua evidenza’ (cfr. GDLI, s.v. parere, § 15). A tale verbo-chiave, che si ripete strategicamente al v. 7 e al v. 11, corrisponde pienamente il mostrasi del v. 9, che apre la nostra terzina (“Mostrasi sì piacente a chi la mira”).

A tale processo di trasformazione semantica non si sottrae neppure l’aggettivo piacente, su cui ora converrà soffermarsi. Nell’italiano contemporaneo, l’attributo qualifica una persona che, “anche se non particolarmente bella o non più giovanissima, è capace di attrarre, di esercitare un certo fascino” (Devoto-Oli 2025, s.v.). Piacente ha oggi, dunque, una carica moderatamente positiva, che appare vincolata a un giudizio individuale, soggettivo, e che è talora posta in correlazione con la simpatia (già nel Tommaseo-Bellini, s.v., § 4: “Quel ch’ora si dice Simpatico. – Non è bella ma è piacente”; Bruno Migliorini, Vocabolario della lingua italiana, Torino, Paravia, 1965, s.v. piacere: “Che piace all’aspetto […]; ed è più che Simpatico”).

Decisamente più forte è, invece, il valore che l’aggettivo possiede nell’uso dantesco e, più in generale, nell’italiano antico. Le prime attestazioni di piacente (anche nelle forme plazente, pia- o plagente) risalgono già alla prima metà del XIII secolo, ossia agli albori della nostra tradizione letteraria; i più antichi esempi si rilevano infatti nei componimenti dei poeti siciliani, che, assecondando un processo già avviato nella lirica provenzale, stringono in una correlazione inestricabile il piacere (dato da una cosa che piace perché è bella) e la bellezza tout court (cfr. Enciclopedia Dantesca, s.v. piacere, § 2). Ecco, allora, che nei versi di Giacomo da Lentini, di Pier della Vigna o di Re Enzo piacente non occorre tanto nel valore etimologico di ‘che piace’ ma, in piena coerenza con il plazen occitanico (cfr. Dictionnaire de l’Occitan Médiéval, s.v.), in quello di ‘bello, avvenente, affascinante’, con particolare riferimento alla donna amata e al suo volto. Per esempio, nella canzone Isplendïente stella d’albore di Giacomino Pugliese, in parte trasmessa anche dall’antico manoscritto C 88 della Zentralbibliothek di Zurigo (la trascrizione è databile al 1234-1235, con incipit “[R]esplendiente stella de albur”), l’amata è immediatamente presentata come “pïagente / donna d’amore” (vv. 3-4; nel frammento zurighese: “plaçente / dona d’amur”) e, nei versi successivi, per ben quattro volte, bella.

L’apice della pregnanza semantica si raggiunge tuttavia con la lirica stilnovistica, che conferma all’aggettivo e alla sua famiglia lessicale il valore dell’oggettività, amplificandone la forza: la donna piacente è infatti dotata di una bellezza autentica, al contempo esteriore e interiore, che si manifesta in tutta la sua potenza attraverso gli effetti che essa determina in chi la ammira. Nel sonetto di Guido Cavalcanti Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, la piagenza della donna è tale da porre “ogni gentil vertute” in posizione subalterna, mentre la bellezza stessa la riconosce come “sua dea” (“Non si poria contar la sua piagenza, / ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, / e la beltate per sua dea la mostra”, vv. 9-11). Molte delle immagini del componimento cavalcantiano tornano in Tanto gentile e tanto onesta pare; in quest’ultimo, tuttavia, l’oggettività della bellezza di Beatrice è ulteriormente comprovata dalla dimensione universale e condivisa del suo miracolo terreno. Nell’introdurre il sonetto, Dante precisa: “Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave” (Vita nuova, XXVI 3). La donna dunque assomma in sé “tutti li piaceri”, ossia tutte le virtù – potremmo dire, riprendendo il Convivio – che “per noi acquistar si possono”, e che “massimamente fanno la persona piacente” (Convivio, II x 7). Una simile bellezza “totale” non può che rivelarsi in modo prodigioso, beatificante, distribuendosi come un dono d’amore ecumenico e non individuale, in grado di operare sulla collettività indipendentemente dai meriti di chi lo riceve (un po’ come la grazia cristiana, cui è facilmente accostabile).

L’efficacia concreta della bellezza di Beatrice trova conferma nel sonetto che, nella composizione dell’opera, Dante colloca subito dopo, cioè Vede perfettamente onne salute (Vita nuova, XXVI 10-13). Qui il poeta dimostra come la luce delle virtù dell’amata si riverberi esternamente, agendo non soltanto sui suoi ammiratori ma anche sulle donne che sono in sua compagnia; queste ultime, tutt’altro che invidiose, diventano così piacenti di riflesso:

E sua beltate è di tanta vertute,
che nulla invidia all’altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza, d’amore e di fede.
La vista sua fa ogni cosa umile;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore. (vv. 5-11)

Conclusa l’esperienza stilnovistica, così come accade a gentile, a onesta e ad altri termini – o, meglio, tecnicismi della tradizione cortese – del nostro sonetto dantesco, anche piacente conosce un processo di depotenziamento semantico: l’aggettivo cessa di qualificare una donna capace di incarnare la massima esperienza di bellezza fisica e spirituale, oggettivamente riconosciuta a partire dai suoi effetti, e viene progressivamente a indicare una certa ‘gradevolezza’ complessiva nell’aspetto di una persona (anche di un uomo), accordata, come si diceva, in modo soggettivo, al netto di qualche difetto. Questo processo di trasformazione può dirsi senz’altro concluso attorno alla metà dell’Ottocento, quando piacente occorre sempre più di frequente preceduto da un elemento avversativo (ma, però), che ben restituisce la compensazione applicata; così si legge, per esempio, nel Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l’agosto del 1854, resoconto pubblicato da Giovanni Battista Cereseto (con lo pseudonimo di Girolamo Bonamici) nel “Cimento” tra il 1854 e il 1855: “Una terza ragione della mia pace con Lucerna (posso dirlo senza scrupolo) è la serva del n° 49. Non è bella, ma piacente; le mancano parecchi denti, ma ride con grazia e ingenuità” (ivi, IV [1854], p. 829). Oppure, ancora, nella novella Un ballo nel convento di Mario Pratesi, di qualche decennio successiva (1883), segnalata dal GDLI: “Allora il viso di Elvira, ovale, non molto delicato, ma piacente, e vermiglio come le rose di maggio, si rallegrava” (GDLI, s.v., § 1).

Dall’Ottocento a oggi, insomma, è possibile riconoscere a piacente il potere di risollevare un bilancio estetico non proprio favorevole, ma di certo non più quello di restituire la bellezza piena e miracolosa della donna-angelo dantesca.

Nota bibliografica:

  • Dante Alighieri, Vita nuova - Rime, a cura di Donato Pirovano e Marco Grimaldi, Introduzione di Enrico Malato, in Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, Roma, Salerno editrice, 2015 [vol. I], 2019 [vol. II].
  • Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995.
  • Giuseppina Brunetti, Il frammento inedito «Resplendiente stella de albur» di Giacomino Pugliese e la poesia italiana delle origini, Tübingen, Niemeyer, 2000.
  • Dictionnaire de l’Occitan Médiéval, diretto da Helmut Stimm, Wolf-Dieter Stempel, Maria Selig, München, Institut für Romanische Philologie, 1987-2013.
  • Enciclopedia Dantesca, I-VI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970-1978.
  • Bruno Panvini, Le rime della scuola siciliana, Firenze, Olschki, vol. I, 1962.
  • Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, tomo II, 1960.

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