Incontri e tornate | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW La filologiaLuca BarbieriPUBBLICATO IL 31 marzo 2025Parlare dell’attività filologica di Aldo Menichetti è un compito allo stesso tempo semplice e complesso. Da un lato si è facilitati dalla presenza nella sua visione scientifica di elementi costanti e di centri d’interesse ben definiti, sempre affrontati con grande chiarezza espositiva e con un metodo di lavoro che predilige l’attenzione all’oggetto – che si tratti di un testo, di un autore, di un manoscritto o di una problematica linguistica – rispetto alle astratte costruzioni teoriche. Dall’altro lato si ha a che fare con uno studioso di vasta cultura e curiosità intellettuale il cui lavoro non si lascia incasellare in compartimenti stagni e ben distinti. Risulta particolarmente arduo, per esempio, separare il Menichetti filologo dalla sua prediletta attività di metricista, tanto più che molte delle sue pubblicazioni affrontano la zona di confine fra i due ambiti. Inoltre, alcuni tra i suoi interventi più interessanti, come vedremo, indagano proprio le possibili ricadute in campo ecdotico di alcune particolarità metriche e prosodiche da lui studiate in modo approfondito. Ho scelto dunque di procedere nel modo più lineare possibile, ripercorrendo le sue pubblicazioni alla ricerca degli elementi più significativi della sua visione. Ma avendo avuto la fortuna di essere stato prima allievo e poi collaboratore di Aldo Menichetti all’Università cattolica di Milano, non rinuncerò ad attingere ai ricordi personali dei corsi pubblici e dei colloqui privati, per provare a far emergere insieme allo studioso rigoroso e meticoloso l’uomo colto e sensibile che è stato Aldo Menichetti. Considerando la vasta bibliografia di Menichetti, si devono fare alcune considerazioni preliminari. Innanzitutto va osservato che agli estremi cronologici si situano le due importanti edizioni di Chiaro Davanzati (1965)1 e di Bonagiunta Orbicciani (2012)2, mentre nel mezzo sta il fondamentale volume sulla metrica italiana (1993)3. Menichetti ha lavorato prevalentemente sulla lirica italiana e su testi traditi da un manoscritto unico, ma non va dimenticato che agli inizi della sua produzione si collocano anche alcuni studi sui testi francesi traditi dal ms. Reginense 1323 della Biblioteca Vaticana: l’Espistre des Ronmains (1966), poemetto decasillabico polemico contro i romani, e il Nouvelet (1978), trattatello di precettistica amorosa in versi ispirato dal Roman de la rose4. Se, come si è detto, la produzione scritta di Menichetti è prevalentemente dedicata alla lirica italiana, e soprattutto ai siculo-toscani, nell’insegnamento egli rivelava invece pienamente la sua natura di filologo romanzo. I suoi corsi spaziavano infatti tra varie lingue ed epoche, tradizioni e generi diversi. Se nelle sue ricerche, soprattutto in ambito metrico, si occupava con straordinaria competenza degli aspetti più tecnici e specialistici, a lezione preferiva introdurre i suoi studenti ai grandi capolavori e agli snodi fondamentali della letteratura romanza. Le scelte dei suoi soggetti non erano mai banali né eccessivamente erudite, e i tre corsi che ho avuto la fortuna e il piacere di seguire erano dedicati alla lirica trobadorica, alla Chanson de Roland e al Cantar de mio Cid. Oltretutto, il suo corso era l’unico insegnamento di filologia privo di un’introduzione teorica al metodo filologico. Questo non accadeva per un disinteresse di Menichetti nei confronti della questione ecdotica, ma per una chiara consapevolezza che si traduceva nella scelta di affrontare tutte le principali questioni di metodo filologico direttamente a partire dall’analisi dei testi. Per Menichetti, infatti, l’ecdotica non era innanzitutto una teoria, ma un insieme di preziosi strumenti finalizzati a una maggiore comprensione del contesto filologico, linguistico, letterario e culturale dei testi. Un altro aspetto fondamentale che emergeva chiaramente negli insegnamenti di Menichetti era una concezione della disciplina filologica romanza che abbracciava lo spettro più ampio possibile della sua accezione, e che andava di pari passo con la scrupolosa attenzione che ha sempre testimoniato nelle sue ricerche. Egli non considerava gli autori italiani da lui studiati unicamente all’interno del dialogo fra cultura latina classica e lingua volgare di sì (tendenza che costituiva un’abitudine culturale diffusa e caratterizzava un certo tipo di filologia romanza soprattutto negli anni della formazione di Menichetti), ma li collocava correttamente in un contesto romanzo più vasto riconoscendone i debiti nei confronti della precoce letteratura francese e occitana. Esaurita questa breve premessa, vorrei ora cercare di illustrare, sia pure in modo sintetico e necessariamente non esaustivo, l’apporto di Menichetti in campo filologico a partire da alcuni aspetti a lui particolarmente cari: l’attenzione alla questione ecdotica, la cura dell’esercizio attribuzionistico, la valorizzazione del commento ai testi. La questione ecdotica Come si è detto, le pubblicazioni di Menichetti sono dedicate prevalentemente alla tradizione lirica italiana, spesso di attestazione monotestimoniale, e questo di per sé impedisce di ridurre la sua idea di filologia alla sola questione ecdotica. Ma non significa che Menichetti non avesse una posizione chiara su questo punto. Come si evince già dalle prime pubblicazioni, Menichetti si attesta su un solido fondo neolachmanniano nella convinzione dell’estrema utilità del confronto dei testimoni. Si veda per esempio l’articolo del 1978 su una delle rare canzoni di Bonagiunta conservate dai tre principali canzonieri della lirica italiana: “Il testo è dato da tutti e tre i manoscritti fondamentali per la poesia siciliana e siculo-toscana; il che significa che il filologo si trova nella felice condizione di poter correggere gli errori di un codice con il ricorso agli altri, senza doversi affidare a soggettive divinationes (l’utilizzazione di tutti i testimoni non si effettua, beninteso, a casaccio, ma secondo la rigorosa metodologia neolachmanniana, fissata nei suoi fondamenti dalla filologia classica tedesca dell’Ottocento, poi via via perfezionata ed oggi condotta a chiara consapevolezza nella teoresi ed estrema raffinatezza nella prassi per merito soprattutto del Contini)”5. Come si può facilmente constatare, fondamento imprescindibile di Menichetti erano le riflessioni di Contini, non per puro spirito di corporazione, ma per l’autentica coscienza di appartenere a una scuola e a una stagione di straordinaria rilevanza nel panorama filologico italiano ed europeo. Potei rendermi pienamente conto di questa consapevolezza di Menichetti alla fine dei miei studi universitari, quando dovendo decidere a quali concorsi di dottorato presentarmi andai a chiedergli un consiglio, ricevendo sostanzialmente come unica risposta il suggerimento di candidarmi nelle sedi dove ci fossero allievi di Contini. La sostanziale condivisione dell’approccio continiano è ben visibile anche in un articolo-recensione sui poeti siculo-toscani compresi nella pubblicazione di Panvini, Le rime della Scuola siciliana6. In questo contesto Menichetti esprime una posizione netta e insolitamente dura, per chi conosce la sua proverbiale pacatezza, denunciando ciò che lui definisce una “carenza d’impegno critico”: “è sempre troppo facile banalizzare con modesti ritocchi le lezioni difficili gabellandole per errori, ma il compito dell’editore è quello di salvare il salvabile, e meglio un po’ più che un po’ meno”7. Questa frase sottende evidentemente una chiara presa di posizione metodologica, quella che prevede l’intenzione programmatica di usare gli strumenti filologici più affilati con lo scopo primario di valorizzare e rispettare nei limiti del possibile la testimonianza dei manoscritti, evitando d’intervenire arbitrariamente sul testo nei punti più difficilmente comprensibili. In questi casi, sovente gli editori di testi si lasciavano guidare esclusivamente dal gusto personale e da una preoccupazione di immediata leggibilità, senza aver provato prima a comprendere e a spiegare la lezione dei testimoni. In questa presa di posizione di Menichetti si legge anche in filigrana la particolare attenzione da lui dedicata all’elaborazione continiana delle categorie di lectio difficilior e usus scribendi, strumenti estremamente potenti nelle mani del filologo competente, ma che richiedono un’estrema cautela per poter essere applicati correttamente. La prospettiva filologica di Menichetti si esprime fondamentalmente in un’attenzione particolare rivolta a tutto ciò che può completare e precisare i dati forniti dalla collazione dei testimoni e dallo stemma codicum ottenuto, favorendo in questo modo la ricostruzione del testo originale non per via meccanica e quasi indipendente dall’editore, ma come esito di un’approfondita conoscenza di tutte le caratteristiche specifiche del testo e dell’autore in questione: caratteristiche linguistiche, culturali, personali che potevano suscitare la reazione dei copisti successivi. S’inserisce nel contesto dell’approccio filologico di Menichetti anche la sua attenzione curiosa alle novità metodologiche che emergevano via via negli studi, in particolare ancora una volta da parte degli allievi di Contini. Ricordo bene come ai tempi della redazione della mia tesi di laurea Menichetti mi abbia raccomandato insistentemente una conoscenza approfondita e una corretta applicazione delle categorie di lectio difficilior e di usus scribendi, invitandomi anche a considerare gli studi di Maurizio Perugi sulle diffrazioni generate da un uso arcaico dello iato, presentati inizialmente nei Prolegomeni all’edizione critica del trovatore Arnaut Daniel8 e poi approfonditi in contributi successivi. Tali consigli giungevano peraltro in un momento nel quale le posizioni di Perugi suscitavano più di una perplessità nella comunità scientifica ed erano guardate a volte con scetticismo e diffidenza. L’attenzione alle novità metodologiche introdotte da Perugi è ancora ben visibile in un importante contributo di Menichetti del 1998: “Un ultimo problema prosodico-testuale metodologicamente rilevante, e che mi pare quindi opportuno non passare sotto silenzio in questa sede, concerne la teoria dello iato formulata da Maurizio Perugi nei Prolegomeni alla sua edizione di Arnaut Daniel. […] Sulla misura e sul modo di applicare in concreto soluzioni ecdotiche di tal fatta si potrà ovviamente discutere; ma non c’è dubbio che l’ipotesi di lavoro merita la più attenta considerazione”9. A quest’epoca Perugi aveva già stemperato gli eccessi delle analisi dei Prolegomeni e lo sperimentalismo spinto del suo testo critico di Arnaut Daniel, indirizzandosi verso un approccio più prettamente linguistico e forse ancora più ambizioso della tradizione manoscritta provenzale. Ma a Menichetti continuavano a interessare gli sviluppi che gli allievi di Contini davano alle idee fondamentali del maestro, soprattutto quando questi entravano nel suo campo di predilezione (in questo caso la prosodia) e ne percepiva le potenzialità applicative. In estrema sintesi, si può descrivere l’idea filologica di Aldo Menichetti come una sostanziale ortodossia neolachmanniana nella sua accezione continiana, laddove il maestro accoglieva le critiche di Bédier al metodo filologico reinterpretandole tuttavia non già come una sentenza definitiva sul metodo del confronto dei testimoni manoscritti, ma come un invito alla necessaria acquisizione di una maggiore e più vasta competenza culturale e di una comprensione “tecnica” dei meccanismi della produzione e della trasmissione del testo. La conseguenza di tale posizione è inevitabilmente un’analisi più affilata, ma guidata da un solido principio fondamentale: il massimo rispetto per il testimone latore del testo e per la sua concreta oggettività. A Menichetti, infatti, non interessavano particolarmente le ipotesi più astratte, per quanto formalmente interessanti e ben elaborate, ma piuttosto tutto ciò che poteva essere messo al servizio di una migliore interpretazione del testo e quindi, in ultima analisi, della sua esaltazione. La sua è quindi un’idea di filologia convintamente neolachmanniana, ma in un’accezione più latamente “culturale”, non suddivisa in compartimenti stagni e priva di eccessi, dogmatismi e teorizzazioni spinte. Per Menichetti tutti gli approcci possibili di un testo – dalla metrica alla prosodia, dall’ecdotica all’attribuzionismo – sono filologia, perché la filologia, anche nella sua accezione stretta di ecdotica, ha sempre a che fare con la metrica, con la prosodia e con la lingua, e spesso anche con l’interpretazione generale del testo. Peraltro, proprio sul terreno dell’intersezione fra metrica, prosodia e ecdotica la posizione di Menichetti risulta più sviluppata e approfondita, anche a livello teorico. Mi riferisco in particolare a tre contributi distribuiti in un arco cronologico che abbraccia sostanzialmente tutta la sua carriera: un articolo del 1966 sulle rime per l’occhio e le ipometrie, l’intervento dal titolo programmatico All’intersezione di metrica e ecdotica al convegno romano su Filologia romanza e filologia classica che ho già menzionato e un articolo del 2013 su Prosodia e edizioni pubblicato negli “Studi di filologia italiana”. Il contributo del 1998 si apre proprio con l’affermazione dell’importanza di un contatto diretto con l’oggetto-testo ai fini di ampliare le competenze culturali utili al filologo editore di testi; una presa di posizione che si oppone in qualche modo all’illusione positivistica di costruire un metodo in grado di produrre in modo quasi automatico un testo critico, così come a ogni prevalenza accordata a un insieme di assiomi astratti e meccanicistici rispetto all’approccio diretto e rispettoso dell’enorme varietà delle realizzazioni scrittorie e in particolare di quelle letterarie: “Nessuno ignora quanto la poesia – beninteso nelle sue forme tradizionali e cioè in virtù della sua configurazione ‘periodica’ o ‘ricorsiva’ – contribuisca ad ampliare le conoscenze sia del linguista sia del filologo-editore che si occupi di testi antichi in volgare”10. È la lettura dei testi a fornire i migliori strumenti al filologo, e tali strumenti non vanno innanzitutto utilizzati per piegare i testi a qualche idea normativa astratta. Occorre poi aggiungere che all’interno del discorso di Menichetti un’attenzione speciale è dedicata alla prosodia e al ruolo di dieresi e dialefe, nonché alle diverse particolarità e rarità linguistiche: “Del resto, scopo primario di questo studio è di additare a chi curi testi antichi un’eventualità di lettura che, se trascurata, indurrebbe a considerare senz’altro errati versi prosodicamente corretti”11. Lo scopo, ancora una volta, è quello di fornire all’editore di testi romanzi una serie di nuove competenze su alcuni strumenti specifici atti a perfezionare la separazione ecdotica fra errori e buone lezioni, e finalizzati soprattutto a cercare di comprendere e promuovere, dove possibile, la lezione dei testimoni manoscritti. Del resto, anche nel contributo più recente la convinzione che metrica, prosodia e lingua abbiano un’importante implicazione ecdotica e che non debbano essere separate dalla ricostruzione del testo critico è affermata in modo esplicito: “Mi occuperò, ancora una volta, di dieresi: cercherò di mostrare come la presenza/assenza di questa figura metrica non tocchi solo l’assetto strettamente prosodico del verso (numerismo e ictus) né, tanto meno, sia un mero espediente grafico, bensì coinvolga e anzi evidenzi questioni di specie più latamente ecdotica, orientando il filologo nella determinazione del testo critico”12. Alla fine di questa prima parte, soprattutto grazie alle citazioni dirette degli interventi di Menichetti, credo che si possa dire che la sua idea di filologia è più pragmatica che teorica, più culturale che normativa e più rispettosa del dato che astrattamente impegnata a modificarlo, nel senso che si tratta di uno strumento forgiato dalla lettura e dallo studio approfondito dei testi posto sempre al servizio della comprensione e dell’esaltazione del testo stesso, in una sorta di circolo virtuoso ideale. Filologia e attribuzionismo. Non sono numerosi i contributi di Menichetti dedicati a questioni attributive, ma mi sembrano particolarmente significativi in quanto confermano la sua attenzione e il rispetto per il dato testuale, permettendo inoltre di approfondire le preoccupazioni metodologiche che sostenevano il suo lavoro e anche di cogliere aspetti meno noti della sua formazione che ne mostrano bene la curiosità intellettuale. Due interventi precoci (1979 e 1983) sono dedicati all’Esortazione alle poverelle attribuita a San Francesco d’Assisi13, mentre un terzo contributo del 2002 riguarda una canzone attribuita a Bonagiunta Orbicciani14, alla quale vengono applicati gli stessi criteri metodologici illustrati nei contributi precedenti. Prima di addentrarci nelle questioni affrontate in questi contributi, sarà opportuno situare l’attenzione di Menichetti per le questioni attributive all’interno dei suoi interessi culturali e del suo percorso di formazione. Menichetti sosteneva infatti di aver mutuato alcuni criteri di metodo filologico e soprattutto attributivo anche dai corsi di storia dell’arte tenuti da Roberto Longhi. A questo proposito, raccontava spesso di una lezione durante la quale Longhi aveva fatto circolare la riproduzione di un dipinto di “Cristo coronato di spine” chiedendo di formulare ipotesi attributive. Non credo che Menichetti abbia mai precisato di quale dipinto si trattasse, ma dalla descrizione fattane risulta abbastanza facile identificarlo con una tempera su tavola conservata ora nella Cappella del Santissimo Sacramento del Duomo di Livorno (ill. 1). Il dipinto rappresenta il volto di Cristo sofferente incoronato di spine, in una raffigurazione al contempo austera e drammaticamente dolente ed era tradizionalmente attribuito in modo generico alla scuola di Giotto, ma si deve proprio a Longhi la nuova attribuzione al Beato Angelico passata ormai in giudicato15. L’attribuzione di Longhi è fondata sulla ricorrenza di alcuni dettagli formali e al contempo su un’impressione d’insieme derivata dall’approfondita conoscenza dell’artista. Va ricordato in questo senso che la profonda convergenza fra Contini e Longhi riguardava anche un approccio metodologico che in qualche modo si opponeva alla temperie culturale del momento e alle tendenze critiche più in voga16. Volendo tornare rapidamente all’argomento principale del mio intervento, mi perdonerete la concisione con la quale liquido un tema di grande importanza in un modo certamente superficiale e poco preciso. In Contini e Longhi, la valorizzazione della critica formale non ammicca al meccanicismo positivistico, anzi vi si oppone, come si può desumere per esempio dalle critiche di Contini verso Gaston Paris e di Longhi verso Giovanni Morelli. Il metodo meccanicistico, infatti, è fondato sull’analisi di singoli dettagli formali isolati, meglio se del tutto secondari, mentre in Contini e Longhi il generale e il particolare devono fare sistema: il particolare deve confermare l’impressione che emerge dalla competenza del critico. In questo senso, Contini e Longhi tracciano una via nuova che supera la contrapposizione fra positivismo ottocentesco e idealismo post-crociano, e Menichetti si colloca ancora una volta nel solco continiano aggiungendovi, se così si può dire, la sua chiarezza didattica e attenzione pedagogica. Tornando al testo attribuito a San Francesco, il secondo articolo si apre con un’importante premessa di metodo che ribadisce ciò che abbiamo sottolineato in precedenza circa il rispetto assoluto dei dati oggettivi: “Premetto (ma è ovvio) che ci muoviamo su terreno attributivo, dunque indiziario, probabilistico: si tratta di scegliere, fra le possibili, la via più semplice, meno tortuosa, per spiegare i fatti”17. Anche in questo caso, per Menichetti, gli strumenti e le ipotesi della filologia sono al servizio del dato e non viceversa, e l’ipotesi di lavoro si fonda sull’iniziale fiducia accordata alle informazioni fornite dal documento, vagliate però con tutta l’acribia prevista dal metodo filologico. In questo caso, per esempio, l’attribuzione proposta dal manoscritto viene così definita: “è un dato oggettivo il cui peso testimoniale appare di per sé ingente: salvo solide prove in contrario, è ragionevole ammettere che il copista fosse più informato di noi. Un documento costituisce un’affermazione perentoria; tutta la nostra filologia non è che un sistema d’ipotesi in equilibrio instabile, alla perpetua ricerca di un assestamento che non sarà mai definitivo. È questa, beninteso, una professione di fede nei suoi strumenti, che infatti cercherò di maneggiare nel modo più affilato; ma è anche un monito alla cautela”18. A partire da queste basi, il metodo di Menichetti si sviluppa rispondendo a due domande fondamentali: “può l’Esortazione alle poverelle essere opera di san Francesco?” e “l’Esortazione alle poverelle è un volgarizzamento?”. Il debito con le riflessioni di Contini e Longhi qui è particolarmente evidente. Dapprima tutti i tratti significativi del testo – la grafia, la fonetica, la patina linguistica, la metrica – vengono sottoposti a un’analisi comparativa confrontandoli con l’unico testo volgare di attribuzione certa, il Cantico delle creature, senza indulgere a considerazioni estetiche circa la supposta scarsa qualità dell’Esortazione, che può dipendere anche dalla sua diversa destinazione. In seguito vengono considerati alcuni dettagli, soprattutto quelli più tecnici e nascosti e quindi meno facilmente imitabili, che rivestono un’importanza fondamentale, tanto più se s’inseriscono in un sistema più generale di ampia caratura storica e culturale: “se […] addentriamo lo sguardo in meccanismi più riposti e complessi, che determinano l’organizzazione del testo nel suo insieme, constatiamo che i vari motivi e formulazioni che compongono l’Exhortatio si susseguono secondo catene associative ricorrenti”19. Nella seconda parte del contributo, infine, Menichetti analizza il rapporto dell’Esortazione con la parafrasi latina contenuta nella Compilatio Assisiensis, giungendo alla conclusione che l’ipotesi meno onerosa è che il testo latino dipenda dall’Esortazione volgare e non viceversa. Lo stesso metodo sviluppato e messo a punto nell’analisi del testo francescano viene poi applicato da Menichetti anche ai testi lirici italiani da lui studiati, in particolare nel caso dell’attribuzione a Bonagiunta Orbicciani della canzone precedentemente assegnata a Guido Guinizzelli In quanto la natura, soprattutto sulla base dei numerosi e significativi punti di contatto con la canzone certamente bonagiuntiana Similmente onore20. L’importanza del commento. C’è un aspetto della produzione di Menichetti che va al di là della pura filologia, o per meglio dire esalta una concezione di filologia decisamente più ampia e ambiziosa, non riducibile ai soli aspetti “tecnici”. Si tratta del commento ai testi, nel quale confluiscono una serie d’informazioni filologiche, linguistiche, storiche, letterarie e più latamente culturali che dipendono dal grado di approfondimento dello scavo sui testi e sugli autori studiati e editi ma anche dall’ampiezza e dalla finezza del bagaglio culturale del filologo. È proprio in quest’ambito che Menichetti ha messo a frutto un gusto letterario e una sensibilità culturale che gli hanno permesso di esaltare il valore e la qualità dei testi di cui si occupava e che apprezzava. Va ricordato che i primi lavori di Menichetti s’inseriscono in un contesto culturale nel quale il commento ai testi era estremamente succinto, per lo più puramente estetico, o totalmente assente. Menichetti investe da subito sulla qualità del commento, scegliendo ancora una volta di seguire l’esempio dei suoi maestri fiorentini. Non solo Contini, che costituisce comunque il suo modello di riferimento, ma anche per esempio Domenico De Robertis, che più che un maestro può essere considerato come un fratello maggiore, anch’egli in qualche modo discepolo di Contini. Proprio recensendo per la rivista “Aevum” l’edizione di Cavalcanti curata da De Robertis (1987), Menichetti ci consegna un ritratto del commento ideale ai testi di un’edizione: “Quanto al tipo di commento, a me pare che sia ormai inattuale quello che mira soprattutto ad accompagnare il testo con notazioni di valore, segnalando al lettore locali bellezze, felici oasi di poesia. Un commento moderno, per quanto ovviamente sempre sorretto dal gusto, deve poggiare su un solido impianto filologico ed erudito, deve cioè essere prima di tutto un commento concretamente storico”21. Il modello di riferimento è ancora una volta Contini, come si è detto, ma qui Menichetti fa una scelta di campo precisa che riconosce fra i vari commenti continiani quello che gli pare più consono alle necessità di un’edizione critica, e anche in qualche modo più vicino alla sua sensibilità: «Da questo punto di vista anche i mirabili “cappelli” e le note di Contini nei Poeti del Duecento risultano, stante il carattere della collana, illuminanti, stimolanti, ma piuttosto magri: presuppongono un lettore che sia capace di captare a volo e d’integrare parecchio da sé. Semmai il modello ideale è – ed è stato di fatto per molti – il commento dello stesso Contini alle Rime di Dante, commento che ha aperto una nuova era della nostra tradizione esegetica»22. Tale scelta di campo lascia intendere infatti quale sia la direzione lungo la quale si muoverà il Menichetti editore, andando ben oltre il modello continiano indicato per raggiungere un livello eccellente di completezza e accuratezza realizzato in un mirabile equilibrio di proporzioni. Di questa tipologia di commento è un buon esempio l’articolo del 2002 su due canzoni di Bonagiunta pubblicato in “Cultura neolatina”23. Il commento ai testi in questione non propone un numero esorbitante di osservazioni ecdotiche, ma offre un’interpretazione linguistica raffinata e ricostruisce abilmente il contesto romanzo nel quale s’inserisce la produzione di Bonagiunta, segnalandone in particolare i numerosi gallicismi. Questa attenzione al quadro romanzo generale è proprio una delle caratteristiche principali del lavoro di Menichetti, che non indulge mai a miopi focalizzazioni sulla straordinarietà del medioevo letterario italiano, ma lo situa correttamente nel dialogo con il contesto culturale francese e provenzale. Il commento ai testi, per Menichetti, è uno scavo attento e una paziente cura del dettaglio, che non teme uno studio lento e tempi dilatati, come dimostra il suo lavoro trentennale su Bonagiunta. Questo tipo di approccio permette di distillare una familiarità totale con l’oggetto che ne favorisce una comprensione più ampia e di largo respiro, consentendo anche una ricollocazione letteraria e culturale più precisa e corretta degli autori e dei testi. Si può nuovamente citare a questo proposito la recensione all’edizione di Cavalcanti curata da De Robertis: “si desidera infine che il commento illumini, pur nella puntuale, irrinunciabile aderenza al testo, il quadro ampiamente culturale – di cultura letteraria ed extraletteraria – in cui l’opera s’iscrive”24. Ovviamente, tutti gli elementi apprezzati da Menichetti nell’edizione di De Robertis si troveranno nei suoi stessi scritti, con una progressione virtuosa che va dall’edizione di Chiaro Davanzati a quella di Bonagiunta Orbicciani. È interessante da questo punto di vista confrontare proprio queste due edizioni principali. L’edizione giovanile di Chiaro risulta già molto moderna per i tempi e permette di cogliere le principali caratteristiche dello stile filologico di Menichetti che verranno sviluppate e approfondite lungo tutta la sua carriera. L’introduzione è sintetica e contiene i dati biografici dell’autore, la presentazione dei manoscritti e il bestiario che fornisce una chiave d’accesso privilegiata alle metafore zoologiche che costituiscono una delle caratteristiche principali dell’opera lirica di Chiaro. Nell’edizione si vede bene quella ricerca del rispetto del testimone manoscritto che caratterizzerà tutta l’attività critica di Menichetti. Il commento è dettagliato, pur mantenendosi in una misura ancora simile a quella continiana. Nella tarda edizione di Bonagiunta l’introduzione è più articolata ma sempre molto equilibrata, ma il commento è molto più sviluppato, straordinariamente completo ed esaustivo. Menichetti, sempre attento al valore letterario dei testi e a quello culturale dell’autore, fa emergere i legami strutturali di Bonagiunta con i trovatori e le tematiche amorose siciliane, esaltandone il ruolo di “trapiantatore” della lirica siciliana in Toscana, e sottolineando la distanza da Guittone e l’apertura allo Stilnovo. Menichetti rende così ragione della valorizzazione di Bonagiunta operata da Dante, che ne apprezza in particolare la “dulcedo” e l’assenza di “municipalità”. Ho cercato fin qui di mettere in rilievo alcune caratteristiche della personalità filologica di Aldo Menichetti ricorrendo soprattutto ai suoi lavori e ai suoi scritti. Ma vorrei concludere attingendo ancora una volta ai miei ricordi personali, perché la caratura intellettuale e umana di Menichetti emergeva in modo più chiaro ed evidente conoscendolo come persona. Frequentandolo, si potevano meglio sorprendere i vari aspetti della sua personalità. Da un lato il gusto per una manualità di stampo quasi artigianale, un termine che uso ovviamente nella sua accezione più positiva. Dall’altro una profonda sensibilità artistica che gli permetteva di conoscere, apprezzare e comunicare la bellezza delle più alte espressioni del genio umano: la letteratura, la musica, l’arte. Un bell’esempio di tale sensibilità artistica a tutto tondo è costituito dai disegni di Aldo Menichetti, probabilmente poco noti ai più, fra i quali segnalo almeno le illustrazioni realizzate per un volumetto di poesie dell’amico Gianni Papini pubblicato nel 199325. In particolare, spicca l’immagine di copertina che propone un’illustrazione dell’Histoire du soldat (ill. 2), breve dramma musicale composto da Igor Stravinsky a partire da un testo dello scrittore svizzero Charles-Ferdinand Ramuz (1917), un sodalizio nel quale la personalità di Menichetti non sfigura affatto e che mi piace accostare a uno degli esempi più riusciti del connubio fra letteratura, musica e arte: il poema di Mallarmé l’Après-midi d’un faune, che ha ispirato una famosa composizione musicale di Debussy ed è stato illustrato dalle xilografie di Édouard Manet (ill. 3). Non si tratta peraltro dell’unico sconfinamento di Menichetti nelle arti figurative. Già nel 1971, per esempio, aveva realizzato un dipinto a olio intitolato Pierrot Lunaire, anch’esso ispirato da un tema musicale, quello dell’omonima composizione di Schönberg basata su testi di Albert Giraud (ill. 4). Chi l’ha conosciuto ricorderà Menichetti come una grande personalità di filologo che non disdegnava lo scavo minuto e il tecnicismo erudito, ma li poneva sempre al servizio di una visione culturale più ampia, accompagnata da una disponibilità e da una giovialità naturale rara, soprattutto nel mondo accademico, e per questo ancora più apprezzata. Ill. 1: Beato Angelico, Cristo coronato di spine (1430-1450), Duomo di Livorno Ill. 2: Aldo Menichetti, Histoire du soldat (1993) Ill. 3: frontespizio de L’après-midi d’un faune di Stéphane Mallarmé, xilografia di Édouard Manet (1876) Ill. 4: Aldo Menichetti, Pierrot Lunaire (1971) Note
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