Incontri e tornate | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW I “plastismi” (e altre cose) di Ornella Castellani PollidoriPaolo D'AchillePUBBLICATO IL 30 giugno 2025Ho accolto con piacere la proposta di Paola Manni e Nicoletta Maraschio a essere io a ricordare Ornella Castellani Pollidori, presentando i suoi lavori sull’italiano contemporaneo, per una serie di ragioni, un po’ personali e un po’ istituzionali. Anzitutto, la mia presenza serve a sparigliare le carte di questa tornata: a due ricordi che hanno visto affiancate un’accademica e un’allieva della studiosa commemorata (nel secondo caso, per la verità, anche l’accademica era stata allieva), fa seguito un terzo in cui al posto dell’allieva c’è un uomo, il presidente stesso della Crusca. Un secondo motivo è che, rispetto alle due precedenti grandissime studiose commemorate, la figura di Ornella Castellani Pollidori presenta qualche particolarità: è stata l’unica ad abitare e a insegnare stabilmente a Firenze (dopo aver iniziato la sua carriera universitaria ad Arezzo) ed è stata la sola a far parte del Consiglio direttivo, dal 16 maggio 2008 al 7 marzo 2012, durante la presidenza di Nicoletta Maraschio. Delle tre, quindi, è quella che è venuta più spesso alla Villa medicea di Castello e, in effetti, il ricordo della presenza di Ornella qui in Accademia è ancora vivissimo e tutti rammentano con affetto e nostalgia la sua dolcezza e la sua gentilezza. Rimando alla fine dell’intervento il racconto di alcuni episodi personali che mi rendono la sua figura particolarmente cara per entrare nel merito dei suoi lavori sull’italiano contemporaneo, che Ornella ha affiancato alle sue numerose, e spesso innovative ricerche sull’italiano antico e su autori della tradizione italiana dal Cinquecento all’Ottocento. Dirò però prima qualcosa anch'io sugli studi di Ornella su testi delle Origini: ricordo quello sull’Iscrizione di San Clemente (e il suo ordine di lettura delle scritte è stato successivamente ripreso)1; quello sulla Formula di confessione umbra, in cui ha avanzato la proposta di lettura della problematica M. che sistematicamente precede Acc. come Mea culpa e non come M(iserere), come proposto in precedenza da suo marito Arrigo Castellani (la lettura Me accuso violerebbe la legge Tobler-Mussafia)2; quello sull’Indovinello veronese, in cui invocava una pausa di riflessione che poi invece non c’è stata, perché quel testo ha continuato a essere continuamente oggetto di indagine3; quello sul Ritmo laurenziano4. Anche negli studi sui testi antichi, Ornella ha spesso precorso alcuni temi molto moderni, come, per esempio, l’attenzione, condivisa col marito, all’onomastica. I loro studi hanno fatto un po’ da ponte tra i due lavori di Brattö e quelli di Luca Serianni, che hanno aperto definitivamente gli studi linguistici italiani alle ricerche nel campo onomastico, che si sarebbe rivelato poi molto fecondo5. Un riferimento all’onomastica è anche tra i contributi di Ornella dedicati all’italiano contemporaneo. C’è, infatti, uno studio in cui tratta di toni come denominazione della tuta: la studiosa dimostra che il termine non costituisce un anglismo, ma un deonimico derivato dal nome proprio Antonio, di cui segue lo sviluppo e il declino6. Ha a che fare con l’onomastica anche il contributo sulle gambe che fanno giacomo giacomo7. Nei saggi di carattere essenzialmente lessicografico, non tutti dedicati soltanto all’italiano contemporaneo, noi percepiamo e apprezziamo in Ornella la stessa maestria filologica che si coglie negli studi sui testi antichi e nelle edizioni critiche del Discorso di Machiavelli e del Pinocchio di Collodi. Effettivamente, la studiosa compulsa praticamente tutti i dizionari esistenti, anche quelli meno frequentati, in uno dei quali ritrova, appunto, la registrazione di toni nel senso di ‘tuta’8; passa in rassegna le diverse definizioni; ricerca le attestazioni sui quotidiani (ben prima che si disponesse dei preziosi archivi in rete), con grande attenzione alla contestualizzazione delle parole e delle locuzioni, anche per verificare i progressivi slittamenti di significato. Naturalmente, parlare di Ornella Castellani Pollidori come contemporaneista significa parlare della “lingua di plastica”, titolo di un volume uscito nel 1990 con il sottotitolo Vezzi e malvezzi dell’italiano contemporaneo, in cui è raccolta la maggior parte dei suoi articoli sul tema, editi dal 1990 in poi o inediti9. Nel primo di questi lavori, dopo aver preso atto della standardizzazione avvenuta nell’italiano, la studiosa si concentra sulla lingua dei giornali, ma anche su quella della politica e della televisione, alla ricerca di parole che avevano indebitamente modificato il proprio significato (come valido) o che si diffondevano inutilmente al posto di altre (problematica per problema) e soprattutto di clichés, frasi fatte, stereotipi che si andavano espandendo in molti settori, per essere ripetuti fino alla noia e a volte usati in contesti in cui risultavano privi di senso (il caso di e/o)10. Ornella parla al riguardo, come detto, di “lingua di plastica” e di “plastismi”, distinguendo opportunamente quelli che venivano dall’alto (linguaggi specialistici, ecc.) da quelli che muovevano dal basso (italiano regionale, popolare o colloquiale)11. Nei primi anni Novanta mi occupavo di neologismi e quindi ci sono state delle tangenze per alcune espressioni che abbiamo studiato contemporaneamente e, all’inizio, indipendentemente (come al limite)12. La studiosa non “mise il copyright” all’espressione “lingua di plastica”, affermando, con una modestia perfino eccessiva, che la sua “definizione non rivendica[va] alcuna pretesa di originalità”13, perché plastica nel senso di ‘cosa negativa’, di ‘materiale pratico ma di poco valore’ era da tempo in uso e ben si adattava per trattare della banalizzazione e degradazione di varie voci ed espressioni. In uno studio posteriore, del 2002, da lei stessa considerato un “aggiornamento” del volume precedente, segnalò che il termine e l’espressione erano entrati anche nella stampa e, da provetta filologa, con onestà intellettuale non escluse che si trattasse di poligenesi, limitandosi ad affermare che lei era stata la prima ad adoperarli14. Oggi possiamo dire che quel termine e quell’espressione erano in qualche modo “profetici”, perché sappiamo quanto la plastica inquini: si potrebbe anzi sostenere che Ornella abbia precorso anche l’ecologia linguistica!15. In questo “aggiornamento” la studiosa rilevava come alcuni plastismi fossero stati riassorbiti, e come l’uso di altri si fosse invece ulteriormente espanso. Se avesse potuto seguire gli sviluppi più recenti dell’italiano, avrebbe rilevato che, negli ultimi anni, la “lingua di plastica” si è ulteriormente sviluppata e avrebbe trovato sicuramente tanto altro materiale da analizzare. A me piace ricordare, di questo mirabile lavoro, una frase che già una volta ho avuto modo di citare: Va sempre molto il tecnicismo. All’improvviso vengono ripescati termini tecnico-specialistici che diventano di colpo popolari. Quanti erano gli italiani che, qualche decennio fa, conoscevano il verbo obliterare? Oggi lo conoscono tutti, salvo chi non abbia mai preso un treno o un autobus. Un tempo, fiumi e laghi semplicemente straripavano; negli anni ’80 presero a tracimare; oggi esondano (ALP, p. 481). In effetti, la lingua ogni tanto ha bisogno di rinnovarsi e di cambiare le proprie parole. Anche in un linguaggio settoriale “debole” come quello sportivo, nel calcio a un certo punto si è iniziato a parlare di ripartenza e non più di contropiede16. Prima di segnalare alcuni plastismi che Ornella ha studiato, per rilevare come siano ancora vitali e fornire anche qualche esempio più recente, vorrei dire che il volume La lingua di plastica è un testo fondamentale per il Servizio di Consulenza linguistica: per esempio, c’è un passo sulle estensioni e i cambi nell’uso delle preposizioni (la crescita della frequenza di su a scapito di altre; gli scambi tra di e da)17 che dovremmo riguardare ogni volta che trattiamo dei mutamenti delle reggenze preposizionali e delle valenze verbali. Tra i vari fatti segnalati, ricordo il no, grazie come forma “politicamente corretta”, che si adoperava in effetti molto alla fine del secolo scorso (“Nucleare? No, grazie”), rispetto al precedente uso di grazie, no, che si ritrova, per esempio, in bocca a Pinkerton nell’atto I della Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Oggi, no, grazie si adopera meno18, ma al suo posto si è diffuso (Ma) anche no!19, che si può considerare un nuovo plastismo. Sono tuttora usate le espressioni alla grande nel senso di ‘benissimo’, ‘moltissimo’ e sim. e a(l) livello di20, a cui si è aggiunta all’insegna del, che sentiamo alla TV soprattutto nei notiziari meteorologici21. Tra gli altri plastismi indicati da Ornella come ancora produttivi cito i moduli la madre di tutte …, tutto e il contrario di tutto22, a cui aggiungerei di tutto (e) di più, da una pubblicità della RAI23; ancora e dintorni ‘e non solo’24 (devo confessare che e dintorni mi piaceva e ogni tanto l’ho usato anch’io, ma, da quando ho letto La lingua di plastica, cerco di farne a meno) e, infine, e quant’altro, di cui la studiosa ricostruisce impeccabilmente la genesi25. Ornella segnala anche l’uso dell’espressione tra virgolette26, documentata pure nel parlato, ma tratta dalla lingua scritta, dove le virgolette si adoperano spesso (troppo spesso; lo lamentava anche Luca Serianni27 e anche in questo caso confesso: mea culpa), anche se servono a prendere le distanze, ad attenuare quanto diciamo o scriviamo, fungono insomma, come si direbbe nell’àmbito della linguistica testuale, da segnali di sfumatura, da particelle modali, da mitigatori28, al pari dell’oggi onnipresente in qualche modo, che finisce col diventare, nel parlato di alcune persone, quasi un intercalare29. Ornella registra poi, opportunamente, sia bella domanda sia domanda da un milione di dollari30, che all’inizio degli anni Duemila erano meno frequenti di oggi. Segnala anche, con un certo disappunto, l’uso di saperi, al plurale, per indicare le conoscenze31: uso che nell’àmbito della pedagogia era ed è frequentissimo (e, tra l’altro, si tratta forse dell’ultimo verbo la cui conversione in nome è avvenuta a partire dall’infinito e non dalla radice, come nel caso di affacciare > affaccio). E, ancora, l’espressione scendere in campo, entrata nel linguaggio della politica da quello dello sport con Berlusconi32 (ma segnalo che si usava già nel linguaggio televisivo in occasione di competizioni canore: nella prima puntata della Canzonissima del 1970 il presentatore Corrado disse “La prima cantante a scendere in campo è Iva Zanicchi”)33. Al fare un passo indietro registrato da Ornella34 io aggiungerei, per restare nel linguaggio della politica, non andare da nessuna parte e fare fatica. Tra i plastismi più recenti figura anche tranquillo, usato come esclamazione da solo o col verbo stare (stai tranquillo!), nel senso di ‘non ti preoccupare!’35; possiamo fornire un aggiornamento segnalando la diffusione, tra i giovani, dell’accorciamento tranqui e della retroformazione tranquo! e, per tornare al linguaggio della politica, rammentando l’esistenza dell’equivalente stai sereno!, che però, dopo il famoso messaggio di Matteo Renzi a Enrico Letta del 17 gennaio 2014, alla vigilia della caduta del suo governo provocata dalla stessa maggioranza, viene usato anche e soprattutto in senso ironico. Tra le segnalazioni dei plastismi fatte da Ornella, io metterei in rilievo l’analisi dell’uso, da lei censurato, di piuttosto che come elemento disgiuntivo e non preferenziale36. Ormai, piuttosto che nel senso di 'oppure' si è diffuso, e tanti linguisti, prima fra tutti Cristiana De Santis, se ne sono occupati in un’ottica puramente descrittiva, come esito di un processo di grammaticalizzazione37; è giusto così, ovviamente (tanto più che la lingua ammette anche ambiguità di significato e perfino la coesistenza di valori opposti in un unico lessema: si pensi al caso di ospite), ma il punto di vista normativo di Ornella Castellani Pollidori mi sembra ancora degno di attenzione. Ricordo poi l’analisi, per certi aspetti divertente, che Ornella ha fatto di paventare nel senso di ‘ventilare’, per la presenza del segmento vent, ricondotto a vento38. Ma le “neosemie” dovute alla somiglianza del significante sono oggi molto in espansione: segnalo quella di dare adito per ‘dare atto’, che ho letto recentemente perfino in una recensione in rete dell’esecuzione di un’opera lirica39, o di reciproco per ‘rispettivo’, già segnalata da Edoardo Lombardi Vallauri40 e che ho sentito in TV da una giornalista a proposito del drammatico incontro-scontro tra Trump e Zelensky, avvenuto alla Casa Bianca il 25 febbraio 2025 “tra lo sgomento dei reciproci paesi”. Mi sono dilungato con qualche excursus e chiedo scusa. Torno a Ornella per parlare dei rapporti che ho avuto con lei nel corso del tempo. Ebbi modo di avvicinarla e di presentarmi nel primo incontro dell’ASLI, da poco costituita, qui alla Crusca, all’inizio degli anni Novanta. Poco dopo la rividi a Roma, in occasione della presentazione del LIP (Lessico di frequenza d’italiano parlato) di Tullio De Mauro41: anche lei era tra i relatori, parlò della “lingua di plastica”42 e il suo intervento suscitò qualche esplicito dissenso. Io la avvicinai per dirle che l’avevo invece molto apprezzato e parlammo di alcuni plastismi. Qualche anno dopo, nel 2000, ho avuto il piacere di averla come componente della commissione che segnò il passaggio mio e di altri due accademici, Claudio Giovanardi e Claudio Ciociola, alla prima fascia. Maggiori contatti ci sono stati nei primi anni Duemila, quando Francesco Sabatini, da poco presidente della Crusca, costituì una “Consulenza linguistica sull’italiano contemporaneo”, raccogliendo intorno a sé un gruppo di studiosi comprendente alcuni accademici (lei, Arrigo Castellani, Piero Fiorelli, Luca Serianni, Teresa Poggi Salani) e altri che accademici non erano (alcuni lo sarebbero diventati: oltre a me, Carla Marello, Anna M. Thornton, Claudio Giovanardi). Il dialogo all’interno del gruppo non era sempre facilissimo, anche perché le posizioni di Arrigo erano abbastanza rigide, ma Ornella faceva spesso da “mediatrice”, mostrando anche in questa occasione la sua autonomia rispetto all’illustre consorte. Vorrei ricordare un aneddoto a me molto caro: Arrigo Castellani propose di sostituire skipper con nostromo, io dichiarai che la proposta mi pareva molto felice e lei poi mi ringraziò per il sostegno che avevo dato al marito. Da questo piccolo episodio si comprende il grande amore che aveva per lui, a cui non a caso è dedicato il volume In riva al fiume della lingua, con queste belle parole: “A Enrico/Arrigo | impareggiabile compagno di vita | e di riva”. Con molta difficoltà le scrissi una lettera di condoglianze dopo la scomparsa di Arrigo; quando ci rivedemmo in Accademia, mi abbracciò ed eravamo entrambi molto commossi. Concludo ricordando che delle tre studiose che oggi commemoriamo soltanto nel caso di Ornella Castellani Pollidori disponiamo della pala, giustamente già citata da Paola Manni, dipinta dallo stesso pittore che aveva eseguito quella di Arrigo Castellani. La pala reca come motto “Che la più cresce u’ più la pietra scema”, un verso di Michelangelo Buonarroti, e il nome di Rovella. In verità, questo nome non sembra addirsi molto al carattere dolce e gentile dell’accademica, ma forse con esso la studiosa ci ha voluto dare, sommessamente, alcuni insegnamenti preziosi: ogni lavoro filologico è frutto di un continuo ripensamento; per comprendere a fondo un testo non basta una sola lettura, ma bisogna ritornarci sopra, e più di una volta, arrovellarsi per comprenderlo a fondo; la ricerca non si chiude mai una volta per tutte. E non a caso a dircelo è lei, che è ritornata più volte sui testi da lei pubblicati criticamente, e anche, come si è visto, sulla “lingua di plastica”. Credo che Rovella sia anche l’unico nome accademico che è effettivamente un nome, e non un aggettivo o un participio con valore nominale. E poi fa rima, e anzi è quasi l’anagramma (con la v al posto della n, lettere che nei manoscritti antichi non di rado vengono a confondersi) di Ornella: dunque, forse per la prima volta, il nome accademico richiama il nome reale, entrato nell’onomastica italiana con Gabriele d’Annunzio, che lo “inventò” nella Figlia di Iorio per la dolce sorella minore di Aligi, l’unica a comprendere che Mila di Codro va incontro al rogo come strega per amore di suo fratello e che la sua anima verrà, per questo, accolta in Paradiso. Note
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