Articoli | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW L’epistolario pucciniano e la sua lingua: alcuni esempi lessicaliFimmetta PapiPUBBLICATO IL 21 ottobre 2024Con oltre 10 mila lettere note, il vastissimo epistolario di Giacomo Puccini si presta a essere letto quasi come un’autobiografia, motivo di fascino e di scoperte (anche) per i linguisti. Nel 2015, in chiusura dell’Introduzione al primo volume della monumentale edizione critica dell’Epistolario per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini1, Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling affermavano: Molto si potrebbe osservare a proposito del lessico pucciniano, anch’esso eterogeneo e stimolante, ma di proposito non lo facciamo, nella speranza che il complesso delle lettere di questo volume, pubblicate con il minimo possibile di interventi ‘normalizzanti’ allo scopo di restituire il più fedelmente la lingua di Giacomo Puccini, attiri l’attenzione di studi specifici2. In un decennio circa, l’attenzione sulla lingua del compositore è notevolmente cresciuta. Nel 2018, è uscito un lungo articolo-recensione di Mario Pozzi al primo volume dell’Epistolario, con ampi spunti di riflessione sullo stile del Puccini “giocoliere verbale”3. Nel 2022, chi scrive ha pubblicato un articolo sulla lingua dei carteggi pucciniani, che sarà sviluppato in una monografia attualmente in preparazione4. Inoltre, in occasione del Centenario della morte, il 19 e 20 marzo 2024, all’Università degli Studi di Siena, con la collaborazione del Centro Studi Giacomo Puccini, si è tenuto per la prima volta un convegno intitolato Giacomo Puccini nella storia della lingua italiana: libretti lettere poesie, dedicato alla memoria di Luca Serianni (gli Atti sono attualmente in preparazione). Nel luglio 2024, è infine uscito il volume Giacomo Puccini Poeta, che offre l’edizione e il commento, inclusi nota linguistica e glossario, del corpus delle rime pucciniane5: in totale 236 pezzi, ripartiti in versi “quasi dispersi”6, cioè disorganici, ma intrecciati strettamente alla corrispondenza che il maestro intrattiene con i familiari, gli amici, i collaboratori più stretti; versi invece organizzati da Puccini stesso in raccolte, solo di recente riscoperte nell’archivio personale di Torre del Lago; poesie e versificazioni destinate ai libretti delle opere, come i noti casi di Qual occhio al mondo (aria di Cavaradossi nel primo atto della Tosca) o di Tu che di gel sei cinta (aria di Liù nel terzo atto di Turandot). Globalmente, l’epistolario e le poesie possono essere descritti attraverso le due macro-categorie del pluristilismo e del plurilinguismo. Pluristilismo, innanzitutto, per la compresenza e contaminazione dei generi e degli stili: lettere in prosa o in versi, esperimenti a metà strada fra prosa e poesia, incursioni figurative (oltre naturalmente agli esempi musicali), scritture criptiche nella forma di lettere scritte al rovescio, oppure tutte basate sull’aggiunta o modificazione di suffissi, fino a esiti surreali o nonsense. Una strategia retorico-stilistica privilegiata da Puccini è l’accumulatio, come emerge da questa lettera inviata alla sorella Ramelde dal Cairo, il 18 febbraio 1908, a conclusione di un soggiorno in Egitto di circa due settimane: Le piramidi, il cammello, le palme, i turbanti, i tramonti, i cofani, le mummie, gli scarabei, i colossi, le colonne, le tombe dei re, le feluche sul Nilo, che non è altro che la Freddana ingrandita, i fez, i tarbuch, i mori, i semimori, le donne velate, il sole, le sabbie gialle, gli struzzi, gl’inglesi, i musei, le porte uso Aida, i Ramseti I, II, III etc., il limo fecondatore, le cateratte, le moschee, le mosche, gli alberghi, la valle del Nilo, l’ibis, i bufali, i rivenditori noiosi, il puzzo di grasso, i minareti, le chiese copte, l’albero della Madonna, i vaporini di Cook, i micci, la canna da zucchero, il cotone, le acacie, i sicomori, il caffè turco, le bande di pifferi e tamburoni, le processioni, i bazar, la danza del ventre, le cornacchie, i falchi neri, le ballerine, i dervisci, i levantini, i beduini, il Kedive, Tebe, le sigarette, i narghilè, l’aschich, bachich, le sfingi, l’immenso Ftà, Iside, Osiride, m’hanno rotto i coglioni e il 20 parto per riposarmi. Ciao, tuo Egittrogolo7. L’abnorme enumerazione, degna di un catalogo dell’opera buffa, si arricchisce di figure tipiche dell’umorismo verbale, come l’iperbole paradossale (il Nilo accostato alla Freddana, il torrente del Lucchese), le rime e le paronomasie (le moschee, le mosche, tamburoni. processioni, l’aschich, bachich), le citazioni verdiane a scopo parodico per le porte uso Aida o l’immenso Ftà (l’Aida è il tema conduttore del viaggio pucciniano). La straordinaria cascata di “sostantivi in libertà”8 precipita infine in un drastico ribaltamento nella duplice forma della scurrilità e del neologismo della firma. Si può inoltre parlare di pluristilismo per la grande varietà di registri che si incontra nei carteggi pucciniani. Com’è naturale, la scrittura si adatta a seconda del destinatario, ma nel caso di Puccini vi è massima escursione fra il registro alto delle missive ufficiali e i toni schietti, confidenziali, spesso irriverenti e, come si è appena visto, senza censure verso il divertito turpiloquio, riservati ai corrispondenti più intimi. Il camuffamento di una parolaccia può seguire le più fantasiose strategie di sottolineatura o trasformazione del significante (modificazioni, miraculo, fotograpotta), di evocazione di una rima (“solletìca viva sempre la sua rima”) o di una sua finta censura (“in via Omenoni | sperando che vittrici sian le giostre | e non da romper nostri e tuoi ….…”). Altrove, il significato osceno si ricava da metafore (come il forno, il luccio o l’orinale) di antica tradizione, risalenti alla linea comico-burlesca della letteratura italiana da Burchiello, Francesco Berni, fino a Pietro Aretino e oltre, per arrivare poi alla goliardia di fine Ottocento-inizi Novecento, che lascia traccia nelle prose e nei versi più salaci non solo di Puccini, ma anche di alcuni fra i corrispondenti9. Con “plurilinguismo” intendo invece riferirmi sia alla presenza nell’epistolario di lettere in lingua diversa dall’italiano (francese, latino, tedesco più o meno maccheronico), sia alle continue deviazioni dalla lingua comune sottoforma di regionalismi – i lucchesismi sono frequenti in tutto l’arco cronologico della corrispondenza, e offrono preziosa documentazione di un lessico molto ricco10 – forestierismi (soprattutto francesismi) e in particolar modo neologismi, calembours e deformazioni verbali a scopo umoristico, parodico o caricaturale11. Per esempio, una spiritosa facezia che ritorna più volte nelle lettere rimanda al gioco delle carte, ed è indicativa del gusto dissacrante verso le affettazioni dell’italiano poetico, parodiato in un’esclamazione tipica come ahi lasso! Aggiunge Puccini: no, ho il tre! (oppure giocalo!). In breve, era Puccini stesso a definire la propria prosa “tutta pepe”12, e gli esempi qui richiamati non lo smentiscono. Eppure, questa non è l’unica caratteristica alla quale deve ridursi la sua scrittura. L’immagine del Puccini "sboccato e scanzonato" è uno stereotipo che va superato e corretto al pari di quello del "Puccinone fortunato" che ha azzeccato una serie di motivi musicali facilmente orecchiabili. Da un lato, il comico non è il solo elemento presente nell’epistolario: abbiamo più di una poesia seria e autoriflessiva, che illumina un lato diverso, melanconico, della personalità pucciniana, testimoniato anche da molte lettere in prosa soprattutto (ma non soltanto) degli ultimi anni13. Inoltre, c’è una ricca dimensione letteraria che affiora da numerosi rimandi, più o meno espliciti, al canone degli autori italiani in prosa e poesia (Dante, Petrarca, Manzoni, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, ma anche Giovanni Sercambi o Matteo Bandello), e ancora alla letteratura straniera, alla tradizione biblica, alla mitologia classica, e naturalmente al melodramma. In sintesi: Giacomo Puccini si rivela, anche in modo preterintenzionale, una fonte notevole per la storia della lingua italiana, e l’affermazione vale non soltanto per i libretti delle opere14. Un epistolario così vasto consente una molteplicità di ricerche in sincronia e in diacronia, che spaziano dalla sintassi e testualità dello scambio epistolare all’analisi della fono-morfologia e del lessico (per non citarne che alcune). Lo studio del lessico, in particolare, oltre agli àmbiti già ricordati – regionalismi, forestierismi, lingue inventate e via dicendo – offre ripetute possibilità di retrodatare le prime attestazioni di lemmi in uso nell’italiano contemporaneo, e più in generale di illuminare meglio la semantica storica di questi ultimi. Presenterò di seguito alcuni esempi significativi in tal senso15. Allure Del francesismo integrale allure, derivato da aller ‘andare’, il GDLI Supplemento 2004 e il GRADIT 2000 riportano due significati. Il primo è quello, tutt’ora in uso, di “stile, classe, portamento elegante, tratto distinto” (GDLI), datato alla seconda metà del Novecento nel GDLI (con due esempi rispettivamente da Alberto Arbasino e Pier Vittorio Tondelli) e al 1930 nel GRADIT 2000, che non riporta però esempi. Questo significato corrisponde alle accezioni estensive e figurate del sostantivo francese (TLFi §II), che tuttavia, a differenza del prestito in italiano, può valere sia “manière de se tenir ou de se comporter”, in senso neutro, sia appunto “distinction, élégance”, da avoir de l’allure “avoir de la distinction, de la classe” – peraltro all’origine del nome del celebre profumo Chanel ideato nel 1996. Il secondo significato dell’italiano allure è “[nello sport] andatura, cadenza, passo” (GDLI), che rimanda invece al primo significato, etimologico, del francese allure “manière d’aller, de se mouvoir”, in particolare “avec une idée de vitesse” (TLFi §II). Nella lessicografia italiana, questa accezione è indicata come relativa allo sport (da cui la marca d’uso ts, tecnico-specialistico, nel GRADIT 2000), ma né il GDLI né il GRADIT 2000 riportano alcun esempio. Qualche informazione in più si ricava dallo ZINGARELLI: “Nel ciclismo e nel podismo, andatura, cadenza, ritmo di gara”16. Fra gli altri dizionari correnti, si segnala la retrodatazione del lemma “a. 1923” nel Sabatini Coletti 2018. Le scritture pucciniane ci consentono non soltanto di datare in modo certo una delle prime attestazioni del francesismo, ma soprattutto di documentare un significato di allure più vicino all’etimologia anche al di fuori dell’ambito sportivo. Il 5 agosto 1921, Puccini scrive ad Arturo Buzzi Peccia una lettera in versi (oggi conservata a Milano, Museo teatrale alla Scala) nella quale parla della composizione di Turandot (vv. 5-16): Scrivo un’opera cinese Il sostantivo Allure (v. 10), maiuscolo in originale, potrebbe significare ‘stile, classe’ con riferimento all’ambientazione della favola principesca di Turandot, per la quale si prevede una “messa in scena non mai vista” (v. 14) – messa in scena è un altro francesismo (questo adattato) da mise en scène, che significava allora “le operazioni inerenti l’allestimento scenico di uno spettacolo teatrale, di cui era responsabile il direttore di scena”18 (nell’epistolario di Puccini, in linea con le scritture coeve, la forma italiana e quella francese si alternano indifferentemente). D’altra parte, grande Allure, riferita al primo atto di Turandot, potrebbe anche valere ‘andatura rapida’. Lo suggerisce l’aggettivo lesto del verso precedente, e anche i tempi allegri e tempi lenti del v. 15 paiono confermare il riferimento all’incedere dell’opera. Un’altra occorrenza di allure sulla quale richiamare l’attenzione proviene da una lettera di Puccini a Riccardo Schnabl del 26 dicembre 1922, relativa, per la parte che ci interessa, alla Fanciulla del West che andò in scena al Teatro Costanzi di Roma il giorno successivo (27 dicembre) con grande insoddisfazione di Puccini: Al Costanzi dio sa che turpitudini colla Fanciulla, avevo aggiunto 16 batt[ute] al duetto – non le fanno perché il do la tessitura spaventa gli artisti – Io credo che le hanno interpretate male, senza giusta allure e se gli artisti si rifiutano per il do è segno che non sono artisti per la Fanciulla19. Di analogo tenore due lettere successive allo stesso Schnabl, nelle quale Puccini ribadisce: Dio sa come sono state interpretate [le 16 battute aggiunte] e con quale tempo, con quale calore con quale voce20 E le 16 battute -! ma senza voce e senza contegno musicale (dio sa che tempi e che espressione da circo) Invece se te le suono io son certo che tu e gli altri cambiereste parere21. La ripetuta menzione del tempo (“con quale tempo”, “dio sa che tempi”) fa propendere per un significato di “giusta allure”, nella prima lettera, come ‘giusto andamento’: ulteriore conferma che anche l’Allure del primo atto di Turandot, nei versi del 1921, possa essere interpretata come ‘movenza’ (rapida). Tuttavia, anche nelle lettere del 1922-23 mi pare si possano rintracciare ulteriori sfumature semantiche. A Puccini premeva che quelle battute aggiunte al duetto del secondo atto di Fanciulla fossero interpretate innanzitutto con il giusto tempo, ma anche con calore e senza cadere in un’espressione da circo: è evidente, cioè, che dovessero essere eseguite con ‘stile, eleganza’. Mi pare insomma che le attestazioni pucciniane documentino un’estensione semantica del prestito integrale allure che, in linea con il sostantivo francese, includeva tanto l’accezione di ‘movenza (più o meno rapida, ma comunque adeguata all’interpretazione della scena rappresentata)’ quanto quella di ‘stile, classe, eleganza’. L’ambito d’uso della parola – musica e teatro d’opera – dà ragione di tale estensione in modo forse più chiaro di quanto non possa emergere dalla specializzazione di allure come tecnicismo dello sport. Linciaggio – bolgia Milano, 17 febbraio 1904. La prima assoluta di Madama Butterfly al Teatro alla Scala è un fiasco, probabilmente architettato dalla casa editrice Sonzogno, rivale di Ricordi. Secondo quanto riferisce la rivista Musica e musicisti, il pubblico reagì con “grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate”22. Puccini ne fu abbattuto, ma non perse fiducia in quella che riteneva la sua opera più riuscita (che del resto si riscattò solo due mesi dopo, al Teatro Grande di Brescia). Nel terzo volume dell’Epistolario, possiamo leggere più di una lettera relativa al tonfo scaligero, per descrivere il quale Puccini ricorre a parole, espressioni, metafore diverse a seconda del destinatario: uno fra i molti esempi di escursione lessicale in diafasia, ulteriore prova della ricchezza espressiva delle scritture pucciniane. Il compositore si mantiene su un tono neutro nei biglietti scritti a ridosso dell’episodio increscioso23, mentre qualche giorno dopo, con l’amico Alfredo Vandini, ricorre a tutta la schiettezza del vernacolo materno: La stampa il pubblico possono dire ciò che vogliono possono scagliarmi addosso tutti i cotani come a S. Stefano ma non riusciranno a sepellirmi ne a ammazzare la mia Butterfly la quale risorgerà viva e sana più di prima24 I còtani sono infatti i ‘sassi’ in lucchese25, e il regionalismo, impiegato altre volte da Puccini26, risalta qui in modo icastico nel contesto in cui è inserito, evocante l’immagine del martirio per lapidazione di Santo Stefano. In una sfera semantica affine alla lapidazione si colloca anche il sostantivo linciaggio, con cui Puccini descrive l’insuccesso scaligero ad altri due corrispondenti, l’amico Camillo Bondi27 e il caricaturista Leonetto Cappiello28, in tono assai veemente (gli spettatori cannibali diventano una “orrenda orgia di forsennati, briachi d’odio”, con un’allitterazione o-r che rafforza ulteriormente le iperboli): Mio caro Camillo, Caro Cappiello Linciaggio è in origine la “esecuzione sommaria di delinquenti colti in flagrante o di presunti autori di delitti gravissimi [...] compiuta dalla folla senza l’osservanza di alcuna procedura giudiziaria (negli Sati Uniti diretta soprattutto contro i negri)” o, in senso generico, una “forma di punizione messa in atto da una o più persone sprovviste di autorità legale”29. Si tratta di un deverbale da linciare “giustiziare sommariamente” (GDLI), a sua volta derivato “dall’inglese d’America lynch, attraverso il francese lyncher, dal nome di C. Lynch, un giudice di pace della Virginia che amministrava sommariamente e privatamente la giustizia e per questo fu condannato nel 1782” (l’Etimologico, s.v. linciare)30. È probabile che non solo linciare, ma anche linciaggio debba spiegarsi con l’influenza del sostantivo francese lynchage, in modo analogo a quanto avvenuto con le forme parallele boicottare - boicottaggio31. Linciaggio è documentato in italiano almeno dal 1891, quando il sostantivo viene accolto nella fascia inferiore del Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi come “termine americano, esecuzione della legge di Linche o Lynch”32. Inoltre, il verbo linciare figurava già come americanismo da scartare – a favore invece di “accoppare, uccidere, giustiziare sommariamente” – nel Lessico dell’infima e corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlìa (1890). Linciare e linciaggio sono quindi registrati nel Dizionario moderno di Alfredo Panzini (1905): per il sostantivo si propone il confronto con il francese lynchage e si rimanda all’ampia voce dedicata al verbo, per il quale sono menzionati sia il francese lyncher sia l’inglese lynch33. Il 1905 (anno di pubblicazione del Dizionario moderno) è la data di prima attestazione del sostantivo riportata nel GRADIT 2000 e nella lessicografia corrente34. L’occorrenza di linciaggio nell’epistolario pucciniano risulta dunque significativa non tanto per la datazione assoluta – retrodata di un solo anno il Dizionario moderno – quanto piuttosto per il significato. L’uso del prestito è infatti svincolato da qualsiasi riferimento al contesto originario della legge americana, e dall’ambito giudiziario tout court. Si tratta invece di uno dei primi esempi dell’accezione figurata di linciaggio come “persecuzione accanita, denigrazione implacabile contro chi non è in grado di difendersi” (GDLI): accezione che nel GDLI (almeno per il sostantivo) è fatta risalire alla metà del Novecento35, e che si può dunque anticipare almeno agli inizi del secolo. Peraltro, il linciaggio di cui fu vittima il compositore non riguarda solo una generica folla (il pubblico scaligero della prima), ma anche la stampa, il che fa apparire le attestazioni dell’epistolario in un certo senso precorritrici dell’espressione linciaggio mediatico dell’italiano corrente (oggi forse ancora più diffusa rispetto alle analoghe espressioni linciaggio morale o linciaggio politico)36. Infine, un’ulteriore variazione stilistica sul fiasco della première37. L’orrenda serata di esordio suggerisce a Puccini anche un’immagine dantesca: le bolge (Malebolge) dell’Inferno. “[R]itirai l’opera da questa bolgia infernale”, scrive a Plinio Nomellini il 21 febbraio 190438, e in una lettera del giorno successivo indirizzata ancora a Camillo Bondi ribadisce che di questa prima rappresentazione di Butterfly non tiene “verun conto, essendo risultata una bolgia dantesca preparata antecedentemente”3. Come ha evidenziato Paola Manni, rispetto al significato originario di bolgia ‘sacca, borsa’ in toscano antico, “l’impiego dantesco rappresenta una svolta”40. La parola, “oltre a diffondersi nel significato relativo alla topografia infernale, viene presto usata estensivamente per ‘luogo di peccato’, ‘luogo di sofferenza’ e poi assume il significato tuttora comune di ‘luogo pieno di gente, confusione, disordine’ e anche ‘affollamento, calca’”. Questi ultimi sviluppi “paiono di datazione piuttosto recente”: nel già citato Nòvo dizionàrio di Petrocchi (1887) si trova la definizione di “Luogo oscuro e profondo” preceduta da una marca d’uso “scherz[oso]” che “prelude al successivo passo di attenuazione semantica”41. L’occorrenza nell’epistolario pucciniano è interessante perché documenta una fase intermedia fra il recupero esplicito della fonte dantesca e l’uso figurato del tutto svincolato dalla reminiscenza letteraria, in un contesto peraltro niente affatto scherzoso. Puccini aggiunge in entrambe le occorrenze un aggettivo che identifichi in modo preciso, per lui e per il destinatario, il riferimento: il teatro diventa una bolgia infernale o dantesca, sia in quanto ‘luogo di supplizio’ per il linciaggio contro Puccini, sia in quanto ‘luogo caotico e fragoroso’ per il rumore delle contestazioni del pubblico accanito (con i “grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate” ricordati sopra). È interessante che, pochi mesi dopo, Puccini torni a utilizzare bolgia in tutt’altro contesto, questa volta ironico, per descrivere l’atmosfera di fatto per lui insopportabile dei bagni termali ad Acqui Terme: Caro Illica e ancora: eccoci nella Bolgia di Dante, caldo orrendo e noia. Son due giorni che siamo qui e non se ne può più43. Un Puccini che “si attuffa” nei fanghi come i barattieri della quinta bolgia sono immersi nella pece bollente? È probabile che quei canti di Inferno XXI-XXII, con le celebri terzine lucchesi (Inf. XXI 37-51), non fossero sconosciuti al compositore, che dimostra larga familiarità con la Commedia dantesca (anche al di là del Gianni Schicchi, su libretto di Giovacchino Forzano) tanto nell’epistolario quanto nelle poesie44. Sistola Concludo con un esempio di regionalismo toscano tutt’ora in uso, per il quale si può offrire un’altra sicura retrodatazione. La vastità dell’epistolario, infatti, ci permette di accedere a un corpus di scrittura di fine Ottocento-inizi Novecento che documenta moltissimi lessemi anche di ambito materiale, non di rado alla loro prima apparizione. Non mi riferisco soltanto alle tecnologie più avanzate (per esempio dei mezzi di locomozione, dalle auto ai motoscafi) o alle mode più aggiornate delle quali Puccini si dimostrò sempre curioso, ma anche a oggetti quotidiani talvolta scarsamente documentati negli scritti letterari coevi. È il caso di sìstola ‘tubo di gomma per innaffiare’, descritto con precisione in una cartolina del 1904 indirizzata al cognato Giuseppe Razzi, fidato factotum del compositore: Caro Beppe ecco la Ia seccatura! Del sostantivo, a oggi di etimo incerto46, il GDLI riporta due significati. Il primo è quello di “ugello metallico munito di valvola che si applica all’estremità di un tubo per regolare e dirigere la fuoriuscita del liquido che vi fluisce”, attestato in un articolo del 1932 di Ugo Ojetti47. La seconda accezione, che qui ci interessa, è “riconducibile alla prima per estensione semantica”48: si tratta appunto del “tubo di gomma, di tessuto impermeabile o di materia plastica, munito di tale ugello” (GDLI), di cui si offre come prima attestazione un’occorrenza di Vasco Pratolini (Via de’ Magazzini, 1941)49, già retrodatabile al 1922, quando la voce entra nella prima edizione dello Zingarelli con il significato di “Tubo di canapa impermeabile o d’altra materia, terminante con una chiavetta metallica, per uso di inaffiare o di estinguere incendi”50. La lettera di Puccini è interessante per almeno due motivi. Innanzitutto, retrodata ulteriormente di una ventina d’anni quest’ultimo significato. Inoltre, prova la precoce diffusione del sostantivo anche nella Toscana non fiorentina (è interessante, peraltro, che sia il compositore lucchese a offrire una definizione del lemma al cognato Razzi, che era fiorentino)51. In conclusione, anche solo questi pochi esempi dimostrano come lo studio del lessico delle scritture pucciniane riservi più di una sorpresa, non solo sul versante dell’analisi stilistica dell’autore – che potrà proficuamente giovarsi delle sempre più raffinate acquisizioni sulla lingua della librettistica (e viceversa) – ma anche sul piano più generale delle ricerche lessicologiche relative alla formazione del lessico italiano novecentesco e al suo contributo allo sviluppo della lingua d’oggi. Note
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