Articoli | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Linguaggio degenereAlberto VoltoliniPUBBLICATO IL 13 giugno 2025In questi anni, stiamo assistendo a tentativi di riforma della lingua italiana relativi al cosiddetto maschile non marcato, considerato qui non nei casi in cui è usato per riferirsi ad animali indipendentemente dal loro sesso1, ma nei casi in cui è usato per riferirsi a persone di qualunque genere, prese nelle loro caratteristiche o ruoli. In italiano vige al momento una regola che prescrive per questi ultimi casi l’impiego di un tale termine2, determinando così quello che viene comunemente chiamato il maschile sovraesteso. Come p.es. in: (1) Il candidato presenta al concorso 15 pubblicazioni (2) I commissari di concorso non hanno tra loro rapporti di parentela rispettivamente impiegati per parlare al singolare di chiunque sia (l’unico) candidato a una certa posizione e al plurale per chiunque svolga il ruolo di commissario di concorso. Secondo i difensori di tali tentativi, tale uso neutro andrebbe riformato, in quanto portatore di valori patriarcali non più aderenti al cambiamento che sta avendo luogo nella società per arrivare a una reale parità di genere. Una premessa di metodo. In questo saggio, non mi occuperò dell’uso di termini al maschile per indicare non persone di qualunque genere, ma persone di genere femminile, come in il primo ministro usato per parlare dell’attuale premier Giorgia Meloni. Tale uso infatti non sembra corretto, potendosi, come suggerisce l’Accademia della Crusca3, usare in tali casi dei termini al femminile (p.es., la prima ministra), in conformità a una già sussistente regola dell’italiano (si vedano al riguardo p.es. Sabatini 1987, Thornton 2009, Robustelli 2014). Da questo punto di vista, proprio perché tale regola già sussiste, il conio di termini al femminile finora mancanti per designare persone di genere femminile (p.es., la assessora, la sindaca) semplicemente colma una lacuna fattuale della lingua. La cosa varrebbe ovviamente anche al contrario, per quei (pochi) casi, ammesso che ve ne siano, per cui non sussista un termine al maschile per indicare persone di genere maschile. Per citare un’altra situazione simile, in italiano già usiamo termini per animali per indicare non solo gli animali stessi, ma anche la loro carne (p.es. coniglio, vitello). Proprio perché già abbiamo tale regola, se ci mettessimo a mangiare ornitorinchi, saremmo giustificati a usare così anche ornitorinco; semplicemente, applicheremmo ad una nuova circostanza una regola già in uso. Affronterò invece in questo saggio due questioni, una fattuale – se si possa compiere una riforma del maschile sovraesteso – l’altra che i filosofi chiamerebbero normativa – se si debba compiere una tale riforma. Mentre resterò possibilista rispetto alla prima questione, avanzando anche una nuova proposta, quella che chiamerò la proposta “sarda allargata” che non pare avere i problemi che investono le proposte al momento sul mercato, darò una risposta negativa alla seconda: non ci sono motivazioni buone per un siffatto cambiamento. Il che è rilevante, se, come nota la stessa Gheno, “ogni posizione dovrebbe essere argomentata in maniera seria, e non in base a impressioni ‘di pancia’” (2019, p. 137). Tratterò della prima questione nella Sezione 1, della seconda nella Sezione 2. 1. La questione fattuale Per compiere una riforma del maschile sovraesteso, sono all’opera varie proposte. Ricorderò qui le principali: 1. Passare dal maschile sovraesteso al femminile sovraesteso (nel caso di (1) e di (2), usare rispettivamente “la candidata” e “le commissarie” per riferirsi indistintamente a persone di genere maschile e femminile); Purtroppo, nessuna di queste proposte sembra funzionare. La 1) manca clamorosamente il suo obiettivo: se il maschile sovraesteso è sbagliato, perché non adeguatamente inclusivo, il femminile sovraesteso è altrettanto sbagliato, per la stessa ragione; inversamente, se il femminile sovraesteso non è sbagliato, non lo è neppure il maschile sovraesteso. Come ricorda Claudio Marazzini in una consulenza linguistica per l’Accademia della Crusca (Marazzini 2014), tale proposta è anche cognitivamente costosa – visto che al momento l’interpretazione standard di un termine di persona al femminile non è quella sovraestesa – e potrebbe così ingenerare effetti comici o sgradevoli (chi scrive si è in effetti trovato di fronte un facsimile di proclamazione di laurea che recitava “la dichiaro e proclamo dottoressa in Filosofia”, che, se proferito di fronte a tesisti maschi, poteva determinare in loro smarrimento o irritazione). La proposta binaria 2), che sembra ricordare una delle sentenze di Clint Eastwood ne Il Buono, il Brutto e il Cattivo di Sergio Leone (“Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica, e chi scava”), non solo è antieconomica cognitivamente, perché allunga inutilmente e pesantemente un testo con innumerevoli distinzioni del tipo o/a o i/e (si pensi ai casi in cui il maschile sovraesteso da riformare ricorra in numerose frasi che si susseguono, come nei documenti istituzionali di cui (1) e (2) fanno tipicamente parte), ma anche non è sufficientemente inclusiva, non potendo coprire le persone che non si riconoscono in un genere dato (De Benedetti 2022, Iacona 2022). Le proposte della categoria 3) non sono invece sufficientemente realistiche, in quanto non riescono a soddisfare i criteri di fruibilità effettiva di una lingua (Iacona 2022). Infatti, per quanto riguarda la proposta asterisco, l’impiego dell’asterisco non è a griglia sufficientemente fine – non distingue tra singolare e plurale, cfr. car* amic* – e neppure è pronunciabile nel linguaggio orale. Per quanto riguarda la proposta schwa, l’uso di schwa breve e lunga risolve sì (in risposta a D’Achille 2021, p. 80) il problema della distinzione di numero (singolare/plurale) che l’uso dell’asterisco non riesce a affrontare, ma, in maniera simile all’asterisco, affonda a sua volta, in questo caso per l’indistinguibilità orale delle due schwa: i parlanti dell’italiano non riescono a distinguere tra il suono della schwa breve e quello della schwa lunga, che si confondono in uno stesso suono tipico di certi dialetti meridionali dell’italiano (non sarà inopportuno ricordare che il singolare curre in Curre Curre Guagliò dei 99 Posse e il plurale simmo nella celeberrima Simmo ’e Napule paisà suonano esattamente allo stesso modo, almeno per chi non abbia un orecchio particolarmente attrezzato). Certamente, il fatto che le attuali proposte, almeno quelle principali, non funzionano non significa che altre non potrebbero funzionare. Per esempio, si potrebbe riadattare una proposta che al momento è solo una variante della proposta asterisco, quella che si potrebbe scherzosamente chiamare la proposta ‘sarda’, giocata sul valore non marcato della u (ovviamente, come capiscono tutti, questo è un preteso valore, visto che in realtà in sardo la u costituisce una declinazione al maschile: p.es., su populu sardu), nei termini di quella che potremmo chiamare la proposta “sarda allargata”. Questo riadattamento renderebbe la proposta in questione atta a soddisfare tanto la distinzione di numero quanto il requisito della pronunciabilità, presentando una desinenza “u” al singolare e una desinenza ripetuta uu al plurale (p.es., caru amicu al singolare e caruu amicuu al plurale), che, per quanto forse cacofoniche, risultano chiaramente distinguibili anche all’udito. Certo, come notano D’Achille (2021) e Iacona (2022), la proposta potrebbe suonare cripto-maschilista relativamente a quei termini per cui la distinzione tra maschile e femminile non è questione di desinenza vocalica, come in sostenitore/sostenitrice, essendo sostenitoru più vicino al termine maschile che al termine femminile (analogamente per il suo plurale in uu). Ma, si potrebbe dire, la neutralità acquisita a livello tanto scritto quanto orale rispetto al genere, nonché la segnalazione fonetica della diversità rispetto al numero, può compensare questo prezzo da pagare per la proposta ‘sarda’ allargata, da giustificare poi magari rispetto a una corrispondente opzione cripto-femminista con ragioni eufoniche (sostenitriciu e analoghi suonano davvero male). Certamente, anche se una proposta di riforma del maschile sovraesteso, supponiamo quella “sarda allargata”, potesse funzionare dal punto di vista fattuale (naturalmente si potrebbero sollevare al riguardo ulteriori obiezioni, p.es. il fatto che in italiano non si hanno tendenzialmente ripetizioni di vocali, sebbene nell’uso esistano eccezioni, come nelle esclamazioni – uuuh! – e negli stessi finali di parola, come nei richiami – attentoooo! – per non dir nulla di zoo), resterebbe a questo punto ancora da vedere se tale maschile non ha ragioni linguistiche a suo favore. Iacona (2022) sostiene che sia così, chiamando convincentemente in causa argomenti legati alla costruzione del plurale e alla quantificazione rispetto a termini come “tutti” usati in modo neutro. Ma supponiamo pure che il sostenitore dell’abolizione del maschile sovraesteso trovi un modo di replicare a queste ultime ragioni. Si pone a questo punto la questione più forte, quella normativa: c’è bisogno di una siffatta riforma? Nella sezione seguente, proverò a mostrare che non è così. 2. La questione normativa Nel corso di questa Sezione, non discuterò di una questione psicologica o sociologica, ossia se qualcuno, idealmente un gruppo di persone o una lobby, vuole mantenere il maschile sovraesteso. Nostalgici in una direzione o nell’altra ci sono sempre ma non è questo il punto. Mi occuperò invece di una questione normativa, ossia se bisogna attuare tale riforma. In tale contesto, proverò a mostrare che ci sono due ordini di argomenti importanti per respingere la riforma in questione. Eccoli: a) L’idea di una riforma dell’impiego dei termini al maschile per l’uso neutro commette una fallacia, la fallacia genetica; poiché tale impiego è infatti una faccenda di convenzione presemantica, dunque fondamentalmente una faccenda di pragmatica, anteriore alla fissazione del significato (verocondizionale4) di un enunciato (Perry 1997), tale idea non è semanticamente motivata. b) L’idea di una siffatta riforma non ha né motivazioni semantiche né altre buone Partiamo da a). Nella filosofia del linguaggio contemporanea, si è fatto spesso appello a quello che è stato notato anche in altri campi, ossia alla fallacia genetica, l’idea di confondere materie di significato con quelle che sono materie di etimologia nel senso ampio del termine, cioè materie relative all’origine di un uso dotato di un certo significato. È noto per esempio che, secondo la teoria del riferimento diretto attualmente in voga in semantica (Donnellan 1966, Kripke 1980, Kaplan 1989 …), i nomi propri non hanno un significato descrittivo, ma hanno per significato il loro contributo verocondizionale (tipicamente, i loro referenti). Ora certamente, una tale teoria ammette che un contenuto descrittivo sia sovente all’origine della scelta di un nome; ma, prosegue la teoria, non ne costituisce il significato. Pensare diversamente significa per l’appunto commettere la fallacia genetica. Questo è il caso del nome Dartmouth in inglese, in cui tale nome è stato certamente scelto per parlare della città che si trova alla foce del fiume Dart, ma il cui significato consiste semplicemente nella città stessa; come prova il fatto che, se Dartmouth non si trovasse più alla foce di quel fiume, continuerebbe a chiamarsi così (Kripke 1980, p. 26). Lo stesso vale in italiano per il nome Carceri Nuove: esso è notoriamente il nome di un edificio torinese che non è certamente più nuovo e non è neppure più sede di un carcere, ma di un museo. Lo stesso punto si può vedere nel caso di sostantivi che non sono nomi propri; contro la fallacia, tali sostantivi hanno un significato che non coincide con la loro origine. Si pensi alla parola turca divan, che oggi significa ‘consiglio di saggi’, traendo quel significato per via metaforica dal fatto che in origine, tali saggi tipicamente si riunivano su divani. Ora, la stessa fallacia è all’opera anche nel caso del maschile sovraesteso, come cercherò di mostrare. In italiano, lingua che non possiede un’espressione per il neutro, si usano termini al maschile non solo per indicare persone di genere maschile, ma anche per indicare neutralmente persone di un certo tipo, indipendentemente dal genere. Precedentemente, io stesso ho usato p.es. “i difensori” in questo modo, per parlare di chiunque abbia difeso, indipendentemente dal suo genere di appartenenza, la riforma del maschile sovraesteso. Ora, la suddetta distinzione tra uso al maschile e uso neutro di termini al maschile ha rilevanza semantica, dato che nei due usi il termine rilevante ha un’estensione diversa. Si vedano p.es. i differenti significati mobilitati da: (3) I professori sono pregati di non tenere comportamenti molesti quando in un caso, quello dell’uso al maschile, il termine “professori” si applica soltanto ai professori di genere maschile, mentre nell’altro caso, quello dell’uso neutro, il termine si applica invece a tutti coloro che rivestano il ruolo professorale, indipendentemente dal genere. Ebbene, non c’è dubbio che la scelta convenzionale che sta all’origine dell’impiego per l’uso neutro di termini al maschile, piuttosto p.es. che termini al femminile, ha delle precise ragioni storico-sociali, ossia la predominanza di società maschiliste. In una comunità di amazzoni, si sarebbe probabilmente adottata la convenzione diversa, così praticando il femminile sovraesteso. Non credo ci sia bisogno di argomentare per una siffatta ovvietà; basti considerare perché abbiamo in italiano termini come matrimonio e patrimonio, su cui tra poco ritornerò, legati evidentemente a pregiudizi maschilisti connessi all’origine delle parole latine da cui derivano, per cui sposarsi è un compito della madre che rende legittimi i figli nati da un’unione, mentre gestire una sostanza economicamente rilevante è faccenda del pater familias. Ma tale scelta convenzionale precede la determinazione del significato del termine in tale uso; è infatti una faccenda pragmatica di tipo presemantico (Perry 1997), come quella che riguarda la scelta del contesto rilevante per interpretare (sotto un profilo verocondizionale, quindi in tale caso rispetto al suo riferimento) un’espressione indicale. Si pensi p.es. all’enunciato: (4) Io sono parcheggiato dietro. Tipicamente, in un’occorrenza di tale enunciato l’indicale “io” non si riferirà al parlante, come di solito fa, ma a un oggetto che sta al parlante stesso in una certa relazione pragmatica, in questo caso una di tipo metonimico; vale a dire, l’auto posseduta dal parlante (Nunberg 1979). Tale trasferimento semantico è reso possibile dalla scelta presemantica di ritenere il contesto pertinente per l’interpretazione semantica (verocondizionale) di “io” in quell’occorrenza, cioè il suo riferimento, non il cosiddetto contesto proprio, in cui l’indicale “io” si riferisce al parlante che proferisce l’enunciato perché costui gioca il ruolo dell’agente in quel contesto, ma un altro contesto in cui il ruolo dell’agente del contesto è giocato da un altro individuo che sta in una qualche relazione pragmatica con tale parlante; in questo caso, la sua auto (Predelli 2005). Così, tornando al caso del maschile sovraesteso, la scelta di usare in modo neutro un termine al maschile riguarda l’origine, ma non il significato, del termine in tale uso; chi pensasse il contrario commetterebbe di nuovo la fallacia genetica. A questo punto, se l’uso neutro di termini al maschile non coinvolge faccende di significato, ma solo faccende di origine di tale uso, non si vede perché dover cambiare la regola convenzionale che è stata messa in opera da quell’uso. Per vedere il punto, si considerino altri esempi simili. Riprendiamo appunto le parole matrimonio e patrimonio. Non c’è dubbio che in italiano, come dicevo, i due termini sono venuti fuori sulla base dei bias che sono principalmente le donne ad essere interessate a uno sposalizio e sono principalmente gli uomini a possedere beni. Ma questi bias che sono sicuramente all’origine di tali opzioni terminologiche non riguardano l’attuale significato di tali termini, come mostra il fatto che quei termini sono rispettivamente traducibili senza problemi in altre lingue che non recano traccia di tale origine. Si prendano a esempio i termini tedeschi Heirat e (Kapital)Vermögen, che traducono matrimonio e patrimonio nel loro esserne rispettivamente sinonimi, ma non recano nella loro origine traccia di simili bias. Gli esempi potrebbero continuare (perché diciamo “patria” e non “matria”)? Se così è, perché mai dovremmo rimuovere dall’italiano termini siffatti per rimpiazzarli con altri termini che non recano traccia di quell’origine? Come nota anche Vera Gheno: Se ci mettessimo in continuazione a rinegoziare i vari elementi che compongono il codice, non ne usciremmo mai: la comunicazione rischierebbe di perdersi in un chiacchiericcio continuo. E rischieremmo di esporci a pericoli: che succederebbe se, a ogni semaforo ci mettessimo a contestare il fatto, assai condiviso, che con il rosso ci si ferma? Se ogni volta bloccassimo l’incrocio per disquisire del motivo per cui qualcuno, a suo tempo, ha creato l’accoppiata rosso-stop? (Gheno 2019, p. 17) Qualcuno potrebbe adesso obiettare che a volte, basta la genesi, non il significato, di un termine per rendere necessaria la sua rimozione. Supponiamo p.es. che durante il fascismo, il Duce avesse imposto di chiamare tutti i primogeniti Benito (in realtà, non è andata troppo diversamente…). Naturalmente, per ognuna delle occorrenze di Benito, se la teoria del riferimento diretto è corretta il suo significato è il suo portatore. Ciò nondimeno, chi si chiama così non potrebbe sentirsi imbarazzato a portare cotanto nome e a chiedere di cambiarlo, una volta ripristinata la democrazia? Certamente; questo è quello che ordinariamente si fa quando qualcuno porti un cognome che suona come una parola oscena o volgare. Ma attenzione: in tutti questi casi, la rimozione del termine incriminato è giustificata per l’associazione, ai limiti dell’omonimia, tra tale termine e un altro termine dotato di un altro, e problematico, significato. Ma nel caso del maschile sovraesteso, quale sarebbe l’altro termine in questione? O per venire all’altro precedente esempio, quali sono le parolacce omonime rispettivamente associate a matrimonio e patrimonio? A questo punto, può sorgere naturale un’altra obiezione. Le convenzioni si possono cambiare anche quando non riguardano il significato (verocondizionale) di un’espressione, ma p.es. perché offendono gli interlocutori, o almeno li turbano5. Così, persone di genere femminile possono sentirsi offese, o turbate, o quantomeno imbarazzate, quando sentono impiegare sempre, o prevalentemente, termini non marcati maschili. Sarebbe proprio così anche per gli uomini, se vigesse il femminile sovraesteso e si avesse dunque a che fare con i seguenti sinonimi di (1) e (2) rispettivamente: (1F) La candidata presenta al concorso 15 pubblicazioni (2F) Le commissarie di concorso non hanno tra loro rapporti di parentela. Rispetto a quest’obiezione entra in gioco b). Certamente, convenzioni presemantiche possono cambiare anche quando non riguardano il significato (verocondizionale) di un’espressione, com’è il caso di tante altre convenzioni; ma ci dev’essere una motivazione buona per tale cambiamento, che sia semantica o meno. In assenza di tale forma di motivazione, il cambiamento di una convenzione presemantica, che sarebbe comunque problematico in quanto frutto di un’imposizione ‘dall’alto’ e non il frutto di un mutamento “dal basso”, dalla concreta prassi della lingua6, è ingiustificato. Per cominciare, vediamo una situazione in cui una convenzione non linguistica, scelta storicamente per certi accidenti storici, può essere motivatamente cambiata. Forse, guidare a sinistra nel Regno Unito trova la sua origine nel fatto che, per i cavalieri, era conveniente lasciare libera la mano destra per impugnare la spada in un duello a cavallo. Ciò non toglie che guidare a sinistra nel Regno Unito sia una mera convenzione; si sarebbe infatti tranquillamente potuto guidare a destra anche lì, come nella maggior parte del mondo. Tuttavia, c’è una motivazione buona, di tipo utilitaristico, perché tale convenzione venga sostituita con l’opposta convenzione oggigiorno in voga nella maggior parte del mondo; è ragionevole supporre che con la globalizzazione, il numero di incidenti tanto per mancanza di consuetudine alla guida a sinistra nel Regno Unito da parte degli abitanti della maggior parte del mondo, quanto per mancanza di consuetudine alla guida a destra nella maggior parte del mondo da parte dei britannici, sia aumentato. Analogamente, venendo alle convenzioni linguistiche, è bene limitare quanto più possibile l’uso di epiteti con valenza dispregiativa o gli epiteti intrinsecamente dispregiativi – cioè, tali in quello che i filosofi chiamano carattere o significato linguistico7 – perché tale uso o tali epiteti giustamente offendono gli interlocutori. Non è questo l’ambito per entrare nel complesso e vivace dibattito sugli slurs8. Basterà ai presenti scopi notare che l’offesa o il turbamento in questione sussistono proprio perché l’aspetto dispregiativo riguarda il significato ampio in cui è usato l’epiteto o il significato linguistico proprio dell’epiteto stesso, come mostrano i seguenti fatti. In primo luogo, come sappiamo da Kripke (1979), una distinzione linguistica è di rilevanza pragmatica quando non è sensibile alla traduzione (nel caso che aveva in mente Kripke, la distinzione tra uso referenziale e uso attributivo di una descrizione definita9), ma è di rilevanza semantica quando è sensibile alla traduzione. Ora, quest’ultimo è il caso della differenza tra uso dispregiativo e uso non dispregiativo di uno stesso termine; quindi, qualcuno si può sentire giustamente offeso dall’uso dispregiativo di un termine. Prendiamo p.es. la parola negro – che chiaramente non è in italiano un epiteto dispregiativo, trattandosi di una pura variante di nero, addirittura forse più vicina di nero al termine latino niger/nigra/nigrum da cui deriva; il fatto di ritenerlo tale dipende dal pregiudizio consistente nell’aver equiparato tale parola al termine inglese, questo sì dispregiativo, nigger; il tutto è perfettamente mostrato in Marazzini (1996) – e consideriamola nel suo uso non dispregiativo e in quello dispregiativo, manifestati rispettivamente da due canzoni con pochi anni di differenza tra loro: (5) Pur se la Vergine è bianca / Fammi un angelo negro / Tutti i bimbi vanno in cielo / Anche se son solo negri (Angeli negri, Fausto Leali)10 (6) È andata a casa con il negro, la troia (Colpa d’Alfredo, Vasco Rossi). Con buona pace di Gheno (2024, p. 41)11, tale differenza è semanticamente rilevante, come mostra il fatto che il primo uso è catturato dal tradurre negro in inglese con black, il secondo dal tradurla coll’epiteto intrinsecamente dispregiativo nigger. Quindi, qualcuno può sentirsi giustamente offeso dall’uso dispregiativo di negro, in virtù del suo significato in tale uso. In secondo luogo, prendiamo un epiteto intrinsecamente dispregiativo e il termine corrispondente non dispregiativo. Nuovamente, la loro differenza è semanticamente rilevante, perché per tradurre il primo epiteto bisogna ricorrere nella lingua traducente a un altro epiteto intrinsecamente dispregiativo, non a un corrispondente termine non dispregiativo (p.es., sarebbe errato tradurre frocio in inglese non con faggot, dispregiativo come il primo, ma con il non dispregiativo gay, che invece ben traduce omosessuale, altrettanto non dispregiativo). Data tale differenza semantica tra i due termini, è giusto che, nella famosa partita di calcio Italia-Francia del 2006, il calciatore francese Zidane si sia ritenuto offeso dal calciatore italiano Materazzi che si è rivolto a lui dicendo (stando all’aneddoto): (7) Tua sorella è una zoccola ma non sarebbe stato giusto se Materazzi gli avesse detto: (8) Tua sorella è una sexworker dato che sexworker, a differenza di zoccola, non è dispregiativo, in quanto si limita a riferirsi ad una professione come le altre, alla stregua di pornoattore. Al contrario, però, sempre rimanendo a convenzioni linguistiche, sarebbe arbitrario rimuovere il termine matrimonio se qualcuno, magari di genere femminile, si sentisse offeso, o anche solamente turbato, dall’impiego di quel termine12. Poiché il fatto che si sia scelto quel termine non riguarda in alcun modo il significato di quel termine, l’offesa o il turbamento non hanno una motivazione buona per sussistere13. Analogamente, sarebbe arbitrario rimuovere la convenzione presemantica riguardante l’impiego di un termine al maschile per l’uso neutro. Non riguardando tale impiego del termine il significato indifferente al genere di quell’uso, chi si sentisse offeso o turbato da quell’impiego non avrebbe una motivazione buona per esserlo. Ma forse, qualcuno potrebbe ulteriormente ribattere, ci sono altre ragioni non semantiche, indipendenti dalle precedenti questioni psicologiche, per rimuovere da una convenzione linguistica, in particolare una di tipo presemantico come quella che ci interessa qui. Per esempio, l’impiego del maschile sovraesteso può risultare una violazione della logica di cortesia, visto che con esso si ha a che fare con persone e non con cose; oppure, può risultare cognitivamente non economico, per esempio perché può indurre a fraintendimenti14. In primo luogo, però, un’eventuale violazione di galateo non basta a giustificare una cospicua riforma linguistica, che riguarda vari terreni della lingua, non un terreno particolare. Impiegare il candidato nell’uso neutro, come in (1), non è come impiegare hey tu! in una lettera accademica al Rettore. Se si cambia il candidato in tale uso si devono cambiare tanti altri termini in tale uso impiegati in campi disparati: il proferitore, l’ingegnere, il cartesiano… In secondo luogo, prima di tutto va spiegato in che senso l’uso neutro sarebbe cognitivamente non economico, per ottenere una buona motivazione alla sua riforma. Ragioni di economia cognitiva sono certamente rilevanti al fine di riforme del genere. Potrebbe p.es. darsi che nello sviluppo dell’italiano la preposizione per venga rimpiazzata dal segno matematico x, attualmente usato per indicare l’operazione di moltiplicazione, vista la maggiore rapidità nello scrivere e pronunciare il secondo rispetto alla prima. Ma nel nostro caso, non basta dire per esempio che l’uso neutro genera dei fraintendimenti semantici, p.es. il fatto che una persona di genere femminile potrebbe pensare che in (1) il candidato non sia usato in senso neutro ma solo per indicare persone di genere maschile. A questo tipo di fraintendimento, infatti, si può ovviare con una pratica di disambiguazione che coinvolga il cotesto linguistico. Nel nostro esempio, basterebbe dire “il candidato, chiunque egli o ella sia” al primo utilizzo contestuale de il candidato come maschile sovraesteso. La stessa strategia si potrebbe adottare rispetto al classico esempio di chi pensa che un chirurgo sia per forza di cose un uomo (Belle et al. 2021, Gygax et al. 2021)15. Ma poi, quello che è cognitivamente non economico sembra essere non il maschile sovraesteso, bensì l'uso riformato, in quanto quest’ultimo comporta un cambiamento di una regola con un’altra regola non presente nel linguaggio (a differenza p.es. della già citata regola che prescrive un termine al femminile per una persona di genere femminile, regola che semplicemente trova una nuova applicazione in nuovi casi – la assessora, la sindac…). Certamente, si potrebbe replicare che questo è sempre il prezzo da pagare per l’introduzione di ogni nuova regola, che viene poi ammortizzato con l’uso16. Ma qui il rischio è che l’uso non basti a compiere tale ammortizzamento. Perché qui, a differenza di quello che come abbiamo appena visto può succedere col maschile sovraesteso, il fraintendimento può non essere all’opera solo in un contesto inaugurale di un uso neutro conforme alla nuova regola, ma si trascina nella successione di contesti. Supponiamo per esempio che si adottasse in italiano la proposta che si trova adesso sovente utilizzata in inglese in testi tecnici – p.es., in molti articoli contemporanei di filosofia – per esprimere l’uso indifferente al genere; cioè, far anaforicamente seguire a un termine ipoteticamente neutro un pronome al plurale, loro17. Ci sarebbe mai un momento in cui rispetto alla frase seguente, ovviamente citata soltanto al fine dell’argomento in corso, si eviterebbe il pensiero deviante che loro si riferisca a un gruppo di persone differente dal soggetto denotato dal termine ipoteticamente neutro uno (nella fattispecie, una gangbang)? (9) Uno la molesta. Loro le mettono le mani addosso. Il mio obiettore potrebbe però qui ulteriormente accettare le mie ultime due repliche e ribattere che sì, proprio per il suo costo cognitivo, la riforma del maschile sovraesteso dovrebbe essere linguisticamente limitata agli impieghi istituzionali del linguaggio, perché tale costo deve fungere da “pietra di inciampo”, farci ricordare cioè le origini oscure delle convenzioni del nostro linguaggio18. Qui mi verrebbe prima di tutto da replicare che, proprio perché tale impiego del maschile non marcato in generale linguisticamente pervasivo – a differenza dell'uso p.es. di magnifico in Magnifico Rettore, che riguarda solo il Rettore (non si applica p.es. ai docenti) – suonerebbe inutilmente ampolloso riformarlo soltanto per certi casi istituzionali (p.es. riformare il candidato nella stesura di verbali e non fare alcuna riforma per contesti ordinari in cui si saluta dicendo cari tutti). Ma c’è di più. Se vogliamo l’“effetto memoria”, bisogna proprio all’opposto mantenere l’uso neutro del termine al maschile, perché tale uso ci ricorda come la società sia (stata) maschilista. Così, abbiamo detto, il nome Carceri Nuove significa il suo referente, un certo edificio torinese. Ma è interessante sapere che tale edificio si chiami Carceri Nuove, sebbene non sia più nuovo e soprattutto neppure svolga più una funzione carceraria. Perché ci ricorda che cosa è stato, qualcosa che in una società ideale non dovrebbe proprio esistere, in quanto luogo di detenzione e di oppressione. O venendo a un caso più interessante per i nostri scopi, in italiano la parola gelosia significa anche persiana. Così comincia la settecentesca Canzone di Afragola: “Fenesta co’ ‘sta nova gelosia / tutta lucente de centrelle d’oro, / tu m’annascunne Nennella bella mia; /lassamella vede’ sino’ me moro”. In effetti, secondo il dizionario Treccani, questo termine fu (presemanticamente) scelto a causa della balzana credenza maschilista che le persiane dovessero servire alle donne per guardare gli uomini senza farsi vedere da loro. Ora, è importante sapere che una siffatta credenza è all’origine di tale scelta terminologica; tale credenza non verrebbe affatto rimossa dall’abolizione del termine gelosia in quel significato, ma ci viene piuttosto ricordata nella sua aberrazione ogni volta che usiamo quel termine in quel significato. Parimenti, continuare a usare il maschile sovraesteso può servirci a ricordare come la nostra società sia (stata) maschilista19. Anzi, si potrebbe ancora osservare, se non avessimo più quell’uso e lo sostituissimo con un termine “politicamente corretto”, rischieremmo di pensare che il problema reale, sociale e non linguistico, del maschilismo sia stato risolto. Forse qualcuno pensa seriamente che la società sia diventata meno maschilista perché per un po’, al posto del maschile sovraesteso, in certi contesti scientifici (p.es., negli articoli di filosofia), si è impiegato il femminile sovraesteso? A mo’ di commento generale, si potrebbe in questa direzione notare che il conseguimento della parità di genere è certamente un eccellente obiettivo; ma c’è da chiedersi se si raggiunga per vie linguistiche o richieda un duro lavoro di cambiamento della realtà20. È tempo di tirare le somme da questa riflessione. Le convenzioni, anche quelle fissate a livello presemantico come quella relativa al maschile sovraesteso, si possono certamente cambiare. Tale cambiamento però non dev’essere un arbitrio, come sarebbe un’imposizione dall’alto, ma deve avere delle buone motivazioni. Tuttavia non abbiamo trovato alcuna buona ragione, semantica o meno, per effettuare la riforma del maschile sovraesteso. Conclusioni In questo lavoro, mi sono chiesto non solo se sia possibile compiere una riforma del maschile sovraesteso, ma anche se lo si debba fare. Quanto alla prima domanda, nessuna delle principali proposte che sono finora sul mercato sono plausibili, ma forse se ne può trovare una (quella che ho scherzosamente chiamato la proposta “sarda allargata”) che non sembra prestarsi alle obiezioni che indeboliscono quelle proposte. Quanto alla seconda domanda, però, non ho trovato nessuna risposta plausibile, perché non sembrano sussistere buone motivazioni, semantiche o di altro tipo, per compiere tale riforma. Certamente, nulla vieta che altre risposte in merito vengano formulate in futuro, in modo da soddisfare infine la richiesta di buone ragioni. Ma finora tali risposte non sono venute all’orizzonte, quindi si ignora se fornirebbero le ragioni desiderate21. Nota bibliografica:
Note
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