La Crusca rispose | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Femminicidio: i perché di una parolaMatilde PaoliPUBBLICATO IL 28 giugno 2013
Quesito: C’è necessità di una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre? Che senso ha sottolineare il sesso di una vittima? Non è offensivo per le donne parlare di loro usando la parola femmina, che pare “più propria dell’animale”? Perché non usare donnicidio, muliericidio, ginocidio o ciò che già abbiamo, uxoricidio? Legittimando femminicidio non provocheremo una proliferazione arbitraria di parole in -cidio? Femminicidio: i perché di una parolaRecentemente si parla molto di femminicidio (o anche femicidio e femmicidio e del valore delle varianti vedremo dopo) intendendo non solo l’“uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Abbiamo riportato la definizione di femminicidio in Devoto-Oli 2009, ma il termine è attestato anche in ZINGARELLI a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani online, mentre GRADIT 2007 ha femicidio registrato anche nei Neologismi Treccani 2012 come “femmicidio o femicidio”.
Ci sono state e ancora ci sono resistenze all’introduzione del termine, quasi fosse immotivato o semplicemente costituisse un voler forzatamente distinguere tra delitto e delitto semplicemente in base al sesso della vittima; quasi fosse neologismo frutto di una delle tante mode linguistiche più che del bisogno di nominare un nuovo concetto. di omicidi femminili commessi da uomini la nostra storia è tristemente piena [...] e allora, perché solo adesso si sente l'esigenza di trovare un nome specifico per questa realtà? Che cos'hanno di diverso queste morti? Cos'è cambiato nella nostra percezione di un fenomeno tanto oscuro quanto atavico? Una risposta possibile a questa domanda è in quanto Michela Murgia scriveva nel suo blog il 2 settembre 2012 a proposito di una notizia pubblicata quel giorno su Repubblica.it in questa forma: Fano, uccide la moglie in un raptus di gelosia “L'uomo [...] ha accoltellato la donna, che ha tentato di difendersi inutilmente, dopo un violento litigio davanti ai quattro figli…”. «Nel giornale che vorrei – scrive la Murgia – la notizia sarebbe stata data così: Fano, giovane donna uccisa a coltellate davanti ai suoi figli e poi “Arrestato l'autore del violento femminicidio: era il marito”». Ed è proprio per la salvaguardia dell'onore che fino al 1981, nel nostro ordinamento, […] per un uomo [che uccide] la moglie, se colto da un impeto d'ira determinato dall'offesa recata [sono previste] pene minori rispetto a un analogo delitto di diverso movente, dal momento che l'oltraggio arrecato all'onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore. Infatti, l'articolo 587 del Codice penale, abrogato con la Legge n. 442 del 5 agosto 1981, contempla una pena ridotta per chi uccida la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere "l'onor suo o della famiglia". Credo che questo basti a dare conto delle proporzioni e delle conseguenze del rovesciamento del punto di vista auspicato dalla Murgia: non si tratta solo di parole di moda evidentemente. Alcuni vedono nell’introduzione di femminicidio esclusivamente la sottolineatura (forzata) dell’appartenenza della vittima al sesso femminile, come per esempio si argomenta in un messaggio “postato” sulla pagina Facebook di La lingua batte, rubrica settimanale di Radio3 che si è recentemente occupata di femminicidio: La parola omicidio deve essere eliminata dal vocabolario giuridico, ma non sostituita dalla parola femminicidio, o da qualsiasi altra parola che indichi una violenza mortale di genere. Siamo tutti esseri umani; perché, quindi, non usiamo umanicidio? A questa domanda possiamo rispondere che se ci riferiamo a una situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, si può parlare di omicidio (o magari chissà in futuro di umanicidio) ma di fronte a una notizia come questa India, violentata e uccisa a sei anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell'Uttar Pradesh: la piccola è stata strangolata e gettata in una discarica (La Repubblica.it 19.04.2013) quale parola si dovrebbe usare? È un omicidio? È un infanticidio? O è qualcosa di più e di diverso, qualcosa che si colloca all’interno di una visione culturale che vede il femminile (non si può certo parlare di donne in questo caso) disprezzato e disprezzabile? L’uccisione è solo (!) un “passaggio” di una sequenza che prevede prima il sequestro, la violenza, lo stupro e dopo l’abbandono del cadavere tra l’immondizia, il tutto da parte di un uomo su una bambina. Si potrebbe forse rispondere che si tratta della somma di una serie di crimini, tutti previsti e denominati; ma alla base di questa orribile combinazione c’è la concezione condivisa della “femmina” come un nulla sociale. Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte.
Ma a questa istituzione ci si rivolge per le parole quindi occupiamoci di quelle. Così finisce la commedia, che dovrebbe dirsi dramma, se oramai non fosse più facile bandir la morte dal codice penale che dal teatro comico. Il lieto fine, come criterio di tal maniera d’arte, è cosa da porsi tra le ciarpe vecchie. Augier, Dumas, Ferrari, Meilhac e Halevy..., chi non ha un qualche omicidio (che è per lo più un femminicidio) sulla coscienza, getti lui la prima pietra. Franchetti parla di un omicidio “letterario” il cui autore è Capuana, ma la protagonista, “Trascurata dalla madre, che menava una vita svagata e mondana, e abbandonata in balìa della servitù, [...], ancora adolescente, ebbe a soffrire, senza sua colpa, una violenza brutale”(p. 545), si presta particolarmente all’interpretazione attuale del termine, come ha notato Giuseppe Antonelli nella citata rubrica La lingua batte. Ma a darci un’idea di quale fosse il pensiero dell’epoca basta quel “senza sua colpa” che nel testo di Capuana pare implicare che si possa “soffrire un violenza brutale” avendone anche, almeno in parte, la responsabilità. Ha ragione il movimento femminista a collegare ruolo della donna e sua oppressione allo stupro. [...] Né menti malate né raptus, come ne parlano gli egregi difensori degli stupratori nelle loro fiorite arringhe; il potere virile si è sempre affermato, seppure per varie intensità di gradi, con la forza fisica. E la ribellione va punita. La lezione deve servire a mantenere la donna assoggettata. Oggi la guerra è più evidente perché la donna sfugge alla privatezza, vive maggiormente fuori dalle pareti domestiche: la violenza privata diviene così un fatto pubblico. La tortura quotidiana dello schiaffo, della percossa, dell'aggressività parolaia sfocia nel massacro sessuale sui prati, sui sedili delle auto, in squallidi scannatoi di periferia. Ma il femminicidio quotidiano non avrebbe da solo raggiunto queste drammatiche proporzioni se non fosse sorretto e agevolato dalla violenza delle istituzioni nei suoi anche meno palesi messaggi. (CRESCE LA RABBIA DOPO TANTI STUPRI, ANCHE PSICOLOGICI La tentazione del femminismo armato, 4. 4.1977, “StampaSera” n. 68) Nel decennio successivo comincia a penetrare nel linguaggio dei criminologi l’alternativa mutuata dall’inglese femicidio: la troviamo in un testo del 1983, G.Russo, Femicidio. Studio su 82 vittime, in “Rassegna penitenziaria e criminologica”, n. 1 citato in Karadole (p. 24 e nota 45). Tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale si è avuto il rilancio giornalistico del termine riferito a culture altre, ma ben presto anche alla nostra: nell’archivio di “Repubblica” l’esempio meno recente di femminicidio risale al 7.10.2001: Le donne [in Afghanistan] non possono lavorare, andare a scuola, frequentare i bagni pubblici, lavare vestiti al fiume, camminare da sole, viaggiare se non accompagnate da un maschio adulto della loro famiglia, calzare sandali che emettano suoni, essere assistite da un medico durante il parto. Questi divieti si sono tradotti in un femminicidio prolungato, per fame o per infezioni, ma non sempre indiretto. Presunte adultere sono state lapidate, presunte prostitute fucilate negli stadi (probabilmente vedove che non sapevano come sfamare i figli). (Guido Rampoldi, Le prigioniere del burqa) Nel 2006 nello stesso archivio il termine, giunto alla quarta occorrenza, era ancora virgolettato; fino al 2010 non erano state raggiunte 10 occorrenze, ma da quell’anno è un crescendo continuo (22 nel 2010, 31 nel 2011) che esplode nelle 276 del 2012; quest’anno superava le 400 il 22 giugno. Nello stesso archivio femicidio appare dal 2005, ma fino all’aprile di quest’anno non arrivava a 20 occorrenze. In questa sede chiamiamo dunque femicidio la forma più estrema di violenza contro le donne per distinguerla ed al contempo metterla in relazione col femminicidio, ossia la violenza contro le donne in tutte le sue forme miranti ad annientarne la soggettività sul piano psicologico, simbolico, economico e sociale, che solitamente precede e può condurre al femicidio. Il concetto di femicidio accolto comprende tutte le morti di donne avvenute per ragioni misogine, anche per fatto delle istituzioni (per esempio per aborti forzati, interventi chirurgici non necessari come l’isterectomia, sperimentazioni sui loro corpi) o di pratiche sociali patriarcali (mutilazioni genitali) o culturali che portano a lasciar morire le figlie femmine di malattia, incuria, fame, per privilegiare la cura del figlio maschio, come accade ad esempio in alcune regioni di Cina e India. (Karadole p. 18 sg) Veniamo adesso alle possibili alternative. A coloro che propongono uxoricidio abbiamo forse già dato una risposta: non solo le mogli e nemmeno solo le conviventi hanno il triste privilegio di essere vittima di questi delitti e non solo i mariti (o i conviventi) ne sono gli autori. Infine rispondiamo a chi vede nella proliferazione di termini il rischio di una produzione “ipertrofica” del suffissoide -cidio, come qualcuno paventava ancora sulla pagina Fb della rubrica La lingua batte: E ci potrebbe essere il rischio che si creino altri “-cidi”: basta pensare all’odio contro le persone omosessuali, i cristiani, gli islamici, gli ebrei, gli immigrati ecc. Rispondiamo che ciò che dovrebbe essere condannato sono gli atti e non le parole che servono a denunciarli e che il “rischio” è ormai una realtà: nel linguaggio giornalistico e non solo in quello è già penetrato il termine omocidio a indicare l’uccisione di una persona omosessuale in quanto tale da parte di una persona omofoba. Per capire i perché di questa parola può forse essere utile la lettura di OMOCIDI, gli omosessuali uccisi in Italia di Andrea Pini (2002) che racconta le vittime della violenza omofoba in Italia.
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