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SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

Dalle suggestioni alle responsabilità

Dario Missaglia

PUBBLICATO IL 30 dicembre 2023

Il 27 maggio scorso, a Barbiana, si è vissuto un momento importante: il centenario della nascita di don Lorenzo Milani è stato celebrato con un’iniziativa istituzionale senza precedenti. I più alti vertici civili e religiosi si sono ritrovati per ricordarlo.

Il nostro augurio ovviamente è che questa forte valorizzazione, anche istituzionale, contribuisca davvero a prendere il meglio dell'eredità di don Milani. Insomma, a diventare davvero una risorsa importante per la costruzione di un nuovo umanesimo che faccia da argine alle derive inquietanti che tutti avvertiamo, che ci aiuti a una rilettura forte dei significati della Costituzione, che è stata una conquista di straordinaria importanza.

La cura e l’attenzione che don Milani dedica alla Costituzione ci aiuta a dire che essa è appunto un oggetto delicatissimo e come tale andrebbe trattato. Ovviamente, come tutte le celebrazioni forse qualche rischio di ‘sterilizzazione’ del suo pensiero, si è intravisto: “Don Milani è morto, evviva don Milani!”.

È stato invece del tutto visibile, con l’intervento del cardinale Zuppi, un recupero fortissimo della Chiesa a tutti i livelli, ricordando che Papa Francesco era già stato nel 2017 sulla tomba di don Lorenzo Milani. Del resto, la Chiesa ha imparato bene a gestire nel tempo gli eretici che poi vengono riconosciuti per le grandi capacità che ci hanno lasciato.

Mi hanno colpito alcune cose di quel momento celebrativo: il Presidente Mattarella ha detto che don Milani ci lascia una contraddizione anche urticante, e mi è sembrata una parola forte, volutamente molto forte. Io concordo innanzitutto per me, per la nostra associazione, per noi.

Bene che il suo pensiero resti urticante e non comodo perché deve continuare a scomodarci. Poi, certo mi augurerei che fosse un po' urticante anche per la politica scolastica e per chi la rappresenta, perché in tal caso, invece, è stato lampante l’abisso enorme tra le dichiarazioni del Presidente Mattarella e quelle del Ministro Valditara.

Il pensiero di don Milani, a mio giudizio, dovrebbe essere urticante anche per molti docenti universitari. È mancata infatti una formazione dei docenti adeguata per affrontare contraddizioni di una scuola ‘di massa’ e il dato drammatico è che essa continua a mancare. Non c'è una educazione linguistica che viene rivolta agli insegnanti perché la possano didatticamente praticare. Nella scuola, l’idea che l'educazione linguistica sia l’ora di italiano e non la capacità di raccontare, di entrare in comunicazione con chi hai di fronte, quale che sia la disciplina insegnata, è ancora prevalente. Quindi abbiamo bisogno di educazione linguistica dalla matematica, all'educazione fisica, ma se questo non entra nel bagaglio professionale, cioè nella formazione di base che un insegnante deve avere per fare l'insegnante, come possiamo continuare in questo modo?

Poi le associazioni professionali, compreso Proteo Fare Sapere, cercano di supplire a queste carenze: di costruire momenti di incontro, di autoformazione, di crescita. Ma quando si deciderà l'accademia, non quella della Crusca, gli accademici delle università dedicate alla formazione dei docenti, ad assumere la responsabilità di una proposta all’altezza?

Ecco mi piacerebbe che almeno loro un po' di ‘urticante’ se lo sentissero sulla pelle, per essere stimolati.

Dice ancora il Presidente della Repubblica: “La scuola non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l'eliminazione di ogni discrimine”. E mi sembra un modo esemplare di tradurre il dettato costituzionale guardando alla scuola. Il Ministro Valditara, nella stessa circostanza, ha risposto così, in maniera molto più breve, al discorso del Presidente: “Don Milani è stata una figura esemplare di grande aiuto e anche guida concreta agli insegnanti per affrontare la modernità con lungimiranza” e si riferiva alle parole dette a lui, “nel disarmante nitore”. Questo per dire che, anche in quell’occasione, pur celebrativa, le differenze sono emerse eccome, le parole infatti ci ‘comunicano’ anche imbarazzi, silenzi, reticenze.

Rosy Bindi ha osservato che don Milani resta una spina nel fianco anche per noi e in questo senso ha raccolto, diciamo così, quel carattere urticante. Poi c'è chi invece questo non lo raccoglie per nulla, anche se devo dire che questa volta, rispetto ad altri momenti storici, gli epigoni del ‘donmilanismo’ si sono rarefatti; non abbiamo più visto ricomparire l'accusa di don Milani fautore della scuola facile, distruttore della scuola pubblica; tuttavia, qualche vena di questo tipo continua a circolare.

Una mi ha colpito particolarmente, perché lì ho visto proprio una testimonianza di disonestà intellettuale difficilmente raggiungibile nel panorama delle cose che si possono criticare: Luca Ricolfi sul “Messaggero” del 26 maggio, ha scritto: “Se don Milani avesse potuto vedere la scuola e la gioventù di oggi ne avrebbe provato orrore”. In realtà non è così, chi ha letto da Esperienze pastorali alle lettere di don Milani, capisce che non è così. Don Milani, semmai avrebbe provato orrore verso le derive di un modello sociale dove il consumismo di quel tempo fu per lui una profetica immagine di quel che sarebbe accaduto: l’abisso delle solitudini, dell’individualismo egoistico, il trionfo del consumo a ogni costo, il primato del prodotto e la riduzione della persona a mezzo di produzione. Di tutto questo avrebbe avuto orrore don Milani e non certo dei ragazzi. Probabilmente l'orrore che prova Ricolfi è quello per i ragazzi che descrive la sua consorte in un articolo uscito poco dopo in cui vede i ragazzi di oggi ostili a qualsiasi rispetto delle regole, a qualsiasi rispetto dell'autorità, a qualsiasi impegno.

In questo caso possiamo trovare anche alcuni accenti di rappresentazione veritiera del reale, ma senza nessuna conseguenza riflessiva. Se abbiamo ragazzi che fanno fatica a obbedire alle regole, che non hanno il senso delle autorità, dietro che vuoto c'è? Qual è il grande vuoto educativo, culturale, emotivo sul quale gli adulti non si fanno più domande? Può una persona che insegna semplicemente osservarle per trarne una sensazione di disgusto verso i ragazzi così come sono?

Allora a me pare che don Milani invece qualcosa di molto chiaro e davvero urticante continui a lasciarcelo. Intanto, credo che resti il suo messaggio di fondo: in quei lontani anni ‘50 egli apre una battaglia a viso aperto e senza sconti contro la selezione di classe. Non contro la dispersione scolastica, perché tra selezione di classe e dispersione c'è quella che un grande maestro della pedagogia contemporanea, Alberto Alberti, purtroppo da poco scomparso, chiamava la ‘variante semantica’: abbiamo finito per interessarci dei dispersi invece che interessarci della scuola che produce la perdita dei ragazzi e quindi delle responsabilità che la scuola deve assumere per evitare che ciò accada. È molto più utile e, direi anche, sul piano del mercato, parlare di dispersione e utilizzare la retorica della povertà educativa per presentare 10.000 progetti finanziati piuttosto che porsi la domanda: ma la scuola, a distanza di tanti anni, si pone la domanda su cosa sia possibile provare a fare, modificando alcune cose del suo modo di essere, di insegnare, di lavorare insieme, di rapportarsi al territorio, per vedere se ciò produce un qualche effetto nei suoi esiti formativi?

Questa è la domanda che ci lascia don Milani senza scampo e vie di fuga. Io credo che stesse lì, la virulenza delle sue parole e delle parole dei suoi ragazzi. A me, quella durezza, ha ricordato gli scritti di Frantz Fanon che sono pressoché contemporanei, in cui urlava il rancore degli algerini e dei colonizzati per la soppressione della loro Libertà. Reclamava questo diritto con una forza e con un pugno che il lettore avvertiva.

Mi ha colpito anche un'altra analogia, riguardante molto più direttamente la mia esperienza personale e la mia appartenenza personale, che forse gli accademici farebbero bene a prendere in considerazione. Don Milani, come è stato richiamato molto bene negli interventi di stamane, è figlio di una famiglia borghese benestante e molto colta. Cresce nutrito di filologia. Vanessa Roghi ricordava stamattina che don Lorenzo aveva il privilegio di addormentarsi sentendosi leggere il vocabolario. Invece, una persona che non era certo di famiglia benestante e conserva alcuni tratti del nostro Maurizio Landini, negli anni ‘50 smette di studiare molto presto, in terza elementare: mi riferisco a Giuseppe di Vittorio. Egli non è imbevuto di filologia ovviamente, ma quando incontra una bancarella dove c'è un vocabolario in vendita, si mette a contrattare il costo della sua giacchetta per poter comprare quel vocabolario e racconta come questo gli aprirà un mondo nuovo, la passione, il desiderio di conoscere, di capire che lì dentro c'era un mondo che doveva diventare una opportunità per tutti.

Questa è stata una grande battaglia che di Vittorio, a partire dal piano del Lavoro, lancia con la consapevolezza che il movimento sindacale e operaio avrebbe avuto bisogno della parola, della cultura per crescere. Di Vittorio da autodidatta, diventerà segretario generale della Cgil e sarà tra i padri costituenti della Repubblica.

Questo tema poi verrà ripreso negli anni ‘70, quando un gruppo di insegnanti di scuola elementare, insieme a Tullio De Mauro, mettono mano alle Dieci tesi per una Educazione Linguistica democratica, un testo che ancora oggi credo sia conosciuto, forse, olo da un 20% degli insegnanti italiani. Linguistica Democratica, cioè come la parola poteva diventare uno strumento per costruire la cittadinanza e realizzare la Costituzione nel nostro paese.A questo proposito, lancio un invito al neopresidente Prof. D’Achille: a distanza di tanti anni, forse, quel documento meriterebbe di essere ripreso in mano. Intanto, per aggiornarlo su un capitolo che a metà degli anni ‘70 non poteva essere scritto, quello degli immigrati, tema al centro dell’intervento della prof.ssa Librandi, nonché quello dell’analfabetismo adulto, come ci ha ricordato con efficacia Gennaro Lopez.

C’è un altro educatore toscano, Bruno Ciari, contemporaneo di don Milani, che come lui muore troppo presto. Sono due toscani ma non si incontrano, vivono due esperienze diverse. Ma Bruno Ciari coglie un punto: trasformare queste consapevolezze in tecnica e scrive ‘le nuove tecniche didattiche’ spiegando ai docenti che le tecniche non sono strumenti, sono valori, sono messaggi, sono contenuti. “L’insegnamento dipenderà da come lo saprete fare” scriveva Ciari: da qui elabora un percorso e decide che la scommessa per il futuro è appunto il tempo pieno, perché la grande disadattata è la scuola, non sono i dispersi.

Non sono dunque i ragazzi che dovrebbero adattarsi alla scuola, come don Milani appunto diceva. Non a caso lui utilizza quel motto I Care, che non è facile tradurre oggi: infatti, c'è una solidità quasi inaccessibile nella posizione di don Milani, perché c'è il suo essere prete, indiscutibile e inarrivabile per chiunque, credo. Ma non può essere tradotto neppure come un sentimento, in quanto non è soltanto un sentimento. Ricordo di un’insegnante bravissima, dedita ai ragazzi più difficili, che parlava di amore, ma è un po' complicata come categoria lavorativa, professionale.

Forse potremmo di più ragionare sul concetto di cura. Questo può essere tradotto anche in termini di profilo e di cultura professionale che non elimina il sentimento, intendiamoci; perché non c'è cura senza empatia verso l’altro. Non ci sono dubbi su questo. Ma non basta l'empatia. Ci vuole qualcosa in più, e la cura è un oggetto complesso dal punto di vista conoscitivo, perché è fatta di tante cose: di ascolto, di attenzione, di reciprocità, di empatia, di ricettività, di capacità comunicativa. Insomma, è un esercizio delicatissimo di democrazia partecipativa, del saper stare insieme agli altri, assumendosi le proprie responsabilità. Eppure, guardate, ancora oggi questo concetto non si capisce, perché sconcerta. Eppure, gli avvenimenti di questi ultimi anni qualcosa ce l'hanno comunicato. La pandemia secondaria, non quella dilagante della malattia in sé, ma quella che ha provocato effetti ‘secondari”,appunto, cioè effetti psicologici sugli adulti, sui bambini e sugli adolescenti, è stata davvero devastante. Questa avrebbe potuto essere un'occasione per affrontare tali effetti e per ripensare ai servizi, ai più deboli e anche alla scuola.

Quali sono state invece le scelte? Mettiamo un tutor in più, un orientatore in più e adesso, se proprio non basta, gli diamo anche lo psicologo così se qualcuno ha qualche problema va lì. La scuola come organizzazione rimane quella di prima, aggiungiamo un po' di soldi e abbiamo risolto il problema. È una scelta regressiva. Non è solo debole e destinata al fallimento ma è grave perché non mette in discussione quello che invece dovrebbe essere messo in discussione: cioè, come la scuola, prendendo atto di questo effetto che i ragazzi hanno dovuto vivere, se ne fa carico, se ne prende cura. Perché non è vero che i ragazzi hanno avuto mesi di scuola in meno: hanno avuto mesi di vita in più straordinari e insieme drammatici, assolutamente diversi da tutti gli altri anni della loro vita e questo, se uno educa, non può non ignorarlo.

Ma la politica, evidentemente sì. Al punto tale che non chiede neppure agli insegnanti che cosa ne pensino e se gli insegnanti abbiano proposte da fare. Ora la battaglia contro la dispersione, perché così continuerà a chiamarla il Ministro, chi la decide? L’INVALSI è il soggetto che decide quali sono le 150 scuole che nel sud riceveranno soldi, riceveranno persone in più, eccetera, con l'obiettivo di contrastare la dispersione. Questo è il disastro a cui siamo di fronte.

Ecco: riprendiamo il senso più profondo della Costituzione perché sta lì la chiave per rileggere i processi che abbiamo davanti, sta ancora lì, come in quegli anni difficili in cui don Milani si è misurato. Questa volta però, qualcuno la parola la deve riprendere, la deve ritrovare. La lettera di don Milani chiedeva una risposta, forse più risposte: alla politica certo e abbiamo visto che non siamo messi bene, ma la chiede anche agli insegnanti in prima persona, a quella professoressa lì presa come esempio. Allora, gli insegnanti, la parola la devono cercare, la devono saper riprendere, questa volta non come strumento di potere o di conservazione di una scuola che non c'è più. Ma come strumento per ragionare insieme su quale sia il cambiamento possibile oggi. Cambiamento dei modi di insegnare e dei contenuti di insegnamento, per pensare a un tempo che non sia solo più pieno di persone, di personale, ma che sia più pieno di significati, di contenuti, di attività, di relazione, in una parola di una scuola produttrice di democrazia partecipativa.

Appunto, anche la democrazia ha bisogno di cura, anche la Costituzione richiede cura e partecipazione diffusa. E la scuola, in questa direzione, può ancora dare molto, soprattutto in questa stagione così difficile e incerta.

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