Articoli | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Fare lingua a scuola: insegnare le parole come fossero "personaggi"Gianluca Barone e Valeria SauraPUBBLICATO IL 30 dicembre 2023L’importanza della lingua per don Milani Il 28 marzo 1956 don Milani invia un articolo al direttore del “Giornale del Mattino” di Firenze, in risposta al discorso che il ministro della Pubblica Istruzione Paolo Rossi (primo governo Segni, 1955-57) aveva tenuto in merito all’abolizione del latino dalla scuola media e in cui egli si dichiarò favorevole all’iniziativa. Era questo uno dei temi caldi della riflessione sulla riforma della scuola che animava quegli anni e intorno alla quale si confrontavano visioni politiche e sociali diverse. La questione si era posta all’attenzione di intellettuali e politici congiuntamente alla proposta di una scuola media unica, sin dal momento in cui, nel 1945, Concetto Marchesi l’aveva formulata sulle pagine di “Rinascita”, la rivista di indirizzo culturale fondata da Palmiro Togliatti. La lettera, come è noto, fu pubblicata soltanto due mesi dopo, il 20 maggio 1956, con il titolo, scelto dalla redazione del quotidiano, Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, e censurata nella sua parte finale che conteneva la dura risposta di don Milani al ministro sulla questione del latino, così da rendere del tutto irriconoscibili i motivi della sua stesura. Fu proprio in quella lettera che don Milani riconobbe la causa della grande migrazione degli anni ‘50 dalle campagne alle città, che provocò lo spopolamento di tutte quelle aree rurali e di quelle piccole frazioni di montagna, come Barbiana, che fino ad allora erano riuscite a resistere alla perdita di abitanti: la ricerca di quell’istruzione e di “tutte le infinite piccole e grandi cose che pongono un montanaro in condizioni di inferiorità e d’umiliazione di fronte al cittadino”2; insomma, l’aspirazione a quel ‘livello culturale’ considerato così prezioso dagli emigranti da rinunciare per esso al pane e alla casa, lasciati tra i boschi dell’Appennino, per iniziare una misera esistenza cittadina fatta di emarginazione, disoccupazione e povertà. Gli emigranti dunque diventano vittime predestinate di quanti fanno del possesso culturale uno strumento di potere. Note, del resto, sono le occasioni in cui don Milani si occupò di smascherare truffe a danno dei contadini. E proprio per difendere i contadini da eventuali imbrogli che, pur avendo una parvenza di legalità, giocavano sulla loro ignoranza, il 30 marzo del 1956 aveva scritto all’amico magistrato Giampaolo Meucci, denunciando le mancanze del codice penale e proponendo l’integrazione del reato di ‘circonvenzione di contadino’ che così egli definisce: giovandosi di circostanze storiche favorevoli per le quali senza mai fare alcunché di legalmente perseguibile gli fa però un danno umano così enorme che se ne accorgerebbe anche un bambino e che solo il Codice per una sua inspiegabile anomalia non vede3. E l’ingiustizia subita generazione dopo generazione, in modo costante e continuo, da chi non ha istruzione, truffato e ingannato a causa della sua ignoranza, non può che sfociare prima o poi in violenza. Pertanto, nella stessa lettera a Meucci, l’analfabetismo e l’ignoranza linguistica diventano l’origine dell’odio e della rivolta:
Allora il possesso della lingua e delle competenze di comunicazione da parte di tutti i cittadini può davvero essere risolutore delle tensioni e dei conflitti sociali, perché permette a tutti di essere uguali, di comprendere e farsi comprendere, farsi valere e difendersi, non cadere in inganni che generano risentimento, odio, violenza. La parità linguistica non elimina le differenze sociali, ma l’ingiustizia “per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio [...]. Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo”7. Ciò che manca ai miei è solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradire le infinite ricchezze che la mente racchiude8. Già alcuni anni prima, nel 1958, don Milani aveva pubblicato sul giornale “Adesso”, fondato da don Primo Mazzolari, un articolo a firma Benito Ferrini, in cui lo “studente” diceva che le lezioni del Priore erano tutte incentrate sulle parole, con collegamenti “dal disegno alle nebulose”. Io so che vi occorre solo la lingua e la lingua è fatta di parole. Se ti insegnassi solo a disegnare saresti una bestia che disegna e non serviresti né a te né a nessuno. Te invece devi diventare un Uomo che disegna9. Ecco allora la centralità che lo studio della lingua assume nella scuola di don Milani. E tale studio parte innanzitutto dal lessico, non un lessico specifico, ma un insieme di lessici che tocca i più svariati ambiti, dal disegno tecnico alla meccanica, dalla storia alla politica, allo sport e alla matematica, fino alla musica, ripercorrendo la storia di ogni singola parola e gli slittamenti semantici che essa ha subito per esprimere significati sempre diversi, ma correlati. Ogni parola veniva “sezionata”, dice don Milani, veniva fatta vivere ai ragazzi “come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi”10. Lo studio del lessico spesso nasceva dalla lettura ad alta voce del giornale in classe, come ben testimonia la lettera che don Milani scrisse il 19 aprile del 1965 a Enzo Forcella, ai tempi giornalista de “Il Giorno”. Una pratica, quella della lettura in classe, a cui il Priore di Barbiana dedicava almeno “da una a due ore al giorno”, per un totale di “circa 500 ore l’anno [...] l’equivalente d’un anno scolastico della scuola di stato [600 ore]”. Gli studenti, inizialmente con difficoltà, riescono a confrontarsi a poco a poco con quel mondo che sembrava prima così lontano dalla solitudine chiusa e circoscritta di Barbiana e, attraverso le pagine dei giornali e le loro parole, a comprenderlo, superando l’isolamento geografico e l’ignoranza culturale a cui generazione dopo generazione erano stati relegati:
La parola, così, si fa rivelatrice del mondo e il mondo attraverso la parola svela la sua complessità, dalla quale gli studenti iniziano a essere attratti e incuriositi, perché ormai capaci di comprenderla e interagirvi. Liberati dalle catene dell’ignoranza linguistica, che li costringeva a una lettura unidimensionale e materiale della realtà e a una condizione di sudditanza culturale, i ragazzi di Barbiana cominciano a interagire con il mondo sociale e culturale che li circonda e a comprenderlo. E così, ognuno di loro sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista a voce alta, pieni di boria, delle loro parole afferra oggi il valore e ogni sfumatura. S’accorge solo ora che esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. I più arditi han provato anche a metter bocca. Cominciano a inchiodare il chiacchierone sulle parole che ha detto13. Il possesso della lingua, cioè del “mezzo di espressione” come lo chiamava don Milani, diventa quindi il presupposto necessario non soltanto per il pieno sviluppo dell’essere umano, ma anche per una cittadinanza attiva. La sua acquisizione diventa così una finestra spalancata tra noi e uno che è cristiano e è prete e s’è potuto finalmente parlargli come si parla solo a noi stessi. Questa è stata per ognuno di noi anche la soluzione di mille problemi nostri d’ogni genere di quelli che tenevamo in corpo già prima di aver avuto la scuola e di quelli che via via ci metteva in cuore la scuola stessa e gli incontri nuovi che la scuola ci faceva fare. E tutto questo ce l’ha dato la scuola14. Insegnare la lingua oggi Se la lingua cui si riferiva don Milani è la lingua con la L maiuscola, e il suo possesso la soluzione per qualsiasi tipo di problema, “di mille problemi nostri d’ogni genere”, come è stato appena detto, vorremmo allora soffermarci brevemente su come possiamo insegnarla oggi a scuola, partendo dal titolo del nostro intervento, che nasce appunto da un’espressione che don Milani usa nella Lettera al direttore del «Giornale del mattino» del 28 marzo 1956, dove, rivolgendosi a Ettore Bernabei, scrive: «”Parole come personaggi” si chiama una tua rubrica. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale». Alcuni anni fa, all’interno del progetto europeo PQM (Piano Nazionale Qualità e Merito) organizzato dall’INDIRE e dall’Accademia della Crusca e rivolto alle scuole medie del Sud d’Italia, abbiamo preparato un percorso didattico intitolato, appunto, Storie di parole (soffermandoci sui nomi del cibo, della famiglia, di animali e piante): l’obiettivo era lo studio del lessico come livello immediato di approccio al testo, mettendo gli studenti di fronte alle parole, al loro significato e alla loro storia. Tornando alla lettera a Bernabei, leggiamo ancora: “Mi richiamo dieci venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi”. Rileggendo certi scritti di don Milani, in vista della giornata di studi di oggi, abbiamo scoperto che quello che proponiamo ai ragazzi con l’attività di CruscaScuola non l’abbiamo inventato noi (anche se ci sarebbe piaciuto tanto…), ma fa parte di un patrimonio comune, nato negli anni di Barbiana, diventato poi esperienza didattica condivisa, tramandata e, soprattutto, sperimentata e adattata via via alla situazione delle classi in cui ci siamo trovati a operare. Infatti, noi continuiamo ancora oggi ad affrontare lo stesso tema nei nostri interventi nelle scuole: proponiamo sempre agli studenti una riflessione sulla storia etimologica di alcune parole, anche attraverso la ricostruzione delle modalità con cui sono entrate nel lessico italiano e dei cambiamenti che le stesse hanno subito negli anni, come abbiamo appena detto. Perché gli alunni devono imparare che la lingua non è qualcosa di immobile e rigido, ma è sempre in movimento, è piena di contraddizioni e oscillazioni, che si possono quasi sempre spiegare attraverso la storia della lingua. E ancora, per ribadire come sia fondamentale soffermarsi sulle parole e sui suoi significati, don Milani, nell’articolo scritto con lo pseudonimo di Benito Ferini per la rivista “Adesso”, di cui abbiamo già parlato, spiega:
Ecco, noi abbiamo fatto qualcosa di analogo in un recente progetto, intitolato Un viaggio tra le parole, destinato alle scuole secondarie di 1° grado della Toscana, progetto appena concluso, organizzato dall’ Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana insieme alla Società Dante Alighieri e naturalmente all’Accademia della Crusca. Ma, tornando a don Milani, vorremmo sottolineare adesso come egli abbia davvero modificato nel profondo l’insegnamento dell’italiano a scuola. [don Milani] non disdegna di far ricorso al grafico, alla tabella, a tutti gli accorgimenti insomma che servono per la rilevazione sociologica. Ma lo fa sempre traducendo tutto in una lingua accessibile, parlata, addirittura contadina16. Ricordiamo poi che, pochi anni dopo, nel 1963, Tullio De Mauro pubblica la Storia linguistica dell’Italia unita, che ha cambiato radicalmente lo sguardo sulla lingua italiana e, più in generale, sulla società del nostro paese. In particolare, si chiedeva De Mauro, come si può fare per rendere l’insegnamento un momento in cui il lessico diventa sempre più ricco e può essere usato in modo appropriato e senza incertezze? Come si può rendere la differenza sociale tra i ragazzi origine di ricchezza e varietà e non di disagio e difficoltà? Don Milani, sicuramente, è stato uno dei primi a porsi questa domanda e a tentare di rispondere. Infatti, già in un incontro del 1962 con i direttori didattici, organizzato a Firenze presso l’Assessorato all’istruzione retto da Fioretta Mazzei, dice: i miei parrocchiani [...] non sono capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì [...]. Ecco perché io ho iniziato il mio contatto con la grammatica italiana nella scuola [...]; trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico considerando lingua tutti i problemi della scuola, da capo a fondo17. Pensare alla lingua, allora, vuol dire pensare alla nuova realtà italiana, alle classi sociali e alla possibilità di capirsi. Ad esempio, il sindacato è in quegli anni (ma non solo…) un luogo di mediazione fondamentale, anche linguistica, ma, si chiede don Milani, come parla un sindacalista? Egli passava ore a insegnare ai suoi ragazzi come decifrare i comunicati sindacali, di cui sottolineava le frasi spesso incomprensibili: faceva anche leggere ad alta voce gli articoli de “l’Unità”, e li fermava spesso, spiegando le frasi e facendogliele ‘tradurre’. Ma vorremmo chiudere tornando alle parole da cui siamo partiti, e leggere alcune frasi riportate il 16 marzo 1966 nella lettera a Dina Lovato. Sono frasi che, a nostro giudizio, dovrebbero rappresentare il modello didattico ideale per tutti gli insegnanti di italiano: Chiunque se vuole può avere la grazia di misurare le parole, riordinarle, eliminare le ripetizioni, le contraddizioni, le cose inutili, scegliere il vocabolo più vero, più logico, più efficace, rifiutare ogni considerazione di tutto, di interesse, di educazione borghese, di convenienze, chieder consiglio a molta gente (sull’efficacia non sulla convenienza). Alla fine la cosa diventa chiara per chi la scrive e per chi la legge18.
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