Consulenza linguistica | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Sul verbo intorcinare e non soloMiriam Di CarloPUBBLICATO IL 04 ottobre 2024
Quesito: Alcuni lettori ci chiedono delucidazioni circa il verbo intorcinare, la sua pronuncia e la sua origine. In particolare un lettore ci chiede se si possa usare il participio passato intorcignato riferito “un tessuto quando si presenta deformato da una sostanza originariamente liquida che si è seccata sopra di esso”. Sul verbo intorcinare e non soloRispondiamo subito al lettore che ci chiede la pronuncia delle forme del presente indicativo di intorcinare. Il DOP, il GRADIT e il GDLI riportano per le prime tre persone singolari e la terza plurale l’accento sulla o, che viene pronunciata aperta: io intòrcino, tu intòrcini, lui intòrcina, loro intòrcinano. La prima e la seconda plurale sono forme rizoatone, cioè non accentate sulla radice: noi intorciniàmo, voi intorcinàte. Passiamo alla storia “intorcinata” della parola: il verbo in questione, che significa ‘attorcigliare’ (usato anche nella forma riflessiva intorcinarsi ‘contorcersi’ e ‘ingarbugliarsi nel parlare’, cfr. Devoto-Oli online) è voce dialettale presumibilmente romanesca (cfr. D’Achille-Giovanardi 2023), e come tale è entrata in italiano e registrata in tutti i dizionari contemporanei (cfr. D’Achille-Altissimi-De Vecchis 2022). La sua origine, se non romanesca, è comunque centro-meridionale: abbiamo trovato riscontri nella maggior parte delle varietà laziali della Tuscia, le quali presentano tratti ancora meridionaleggianti (nella variante rintorcinà(re); cfr. Petroselli 2010; Cimarra-†Petroselli 2023), in quelle affini toscane prossime al Lazio come quella del Monte Argentario e dell’Isola del Giglio (cfr. Fanciulli 1983; risulta invece assente nelle varietà senese e aretina); nella variante ntorciniara è registrato da Rohlfs nel Dizionario delle tre Calabrie (1934); ricorre anche in testi contemporanei di area napoletana: “[…] Risparmiate il ciato ciatoso ciatolento lento lento che ve se rosica da dentro all’intestino intestinale intorcinato da tutte le male azioni ca facite delle budella degli sbudellati vostri e buoni e pure morti ’e chi v’è mmuorto... risparmiatelo ’stu ciato che lo dovete ciatare tutto col servo vostro qui presente!” (Massimo Torre, La giustizia di Pulcinella, Roma, edizioni e/o, 2017) L’entrata del verbo nel lessico italiano viene ricondotta al successo dei romanzi pasoliniani ambientati a Roma e con larga presenza del romanesco: il GDLI per intorcinare riporta infatti due attestazioni tratte da Una vita violenta del 1959: Aveva davanti un piatto di fettuccine alte come un montarozzo, e non gli riusciva di intorcinarle intorno alla forchetta. (Pier Paolo Pasolini, Una vita violenta, Milano, Garzanti, 1959, p. 262) Cominciò a svincolarsi come un dannato: già gli si erano strappate la camicia e la maglietta e lui s’intorcinava ancora sulla sedia, con le braccia strette dai poliziotti. (Ivi, p. 12) A questo proposito è doverosa una precisazione: tutti i dizionari contemporanei (tranne lo Zingarelli 2024) riportano come prima attestazione del verbo il 1959, ossia l’anno di pubblicazione di Una vita violenta, probabilmente rifacendosi al GDLI; questo dizionario però lemmatizza anche il participio passato usato con valore aggettivale, intorcinato, riportando una citazione del poeta romano Cesare Pascarella (1858-1940; precisiamo che questi esempi ricorrono in contesti italiani): Le camere e gli ornamenti sono tutte di specchiuzzi rintagliati e chiusi da stucchi che fermano disegni impossibili a ritenersi a memoria tanto sono intorcinati e contorti. (Cesare Pascarella, Taccuini, a cura dell’Accademia dei Lincei, Milano, Mondadori, 1961, p. 26) La lemmatizzazione di due entrate differenti nel GDLI ha portato i dizionari contemporanei a tralasciare l’attestazione in Pascarella, deceduto nel 1940, precedente a quelle pasoliniane (l’edizione dei Taccuini è postuma). Oltretutto il verbo, nella forma participiale in funzione aggettivale, è usato già nel 1957 da Alberto Moravia in un articolo uscito sul “Corriere della Sera”, e, soprattutto in Ragazzi di vita (1955, anch’esso ambientato a Roma), romanzo pasoliniano antecedente a Una vita violenta: Passeggiando per viale Trastevere [...] Bionda, alta, grande, con un vestitino a fiori stretto stretto intorcinato intorno il petto prepotente e i fianchi robusti, pareva straniera. (Alberto Moravia, La Strappata, “Corriere della Sera”, 4/8/1957, p. 3) [...] poi tornarono su per via Veneto, con le camicie che gli sventolavano fuori i calzoni, o in canottiera, con le magliette intorcinate intorno al collo, gridando, cantando e prendendo di petto i ricchi che ancora a quell’ora passeggiavano tutti acchittati [...]. (Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1955, p. 79) [...] cinque seggiole, c’era pure, contro la parete, una brandina dove rosse e sudate una da testa e una piedi dormivano due ragazzine, con le lenzuola tutte intorcinate e più grigie che bianche. (Ivi, p. 149) “Sì, come un brodo” disse il Bègalo tenendosi in equilibrio colle dita dei piedi intorcinate come uno scimmione. Alduccio gli diede una botta e l’altro cadde come un sacco di patate nell’acqua. (Ivi, p. 221) Coerentemente con queste ultime occorrenze, lo Zingarelli registra il termine con anno di prima attestazione il 1955. Il verbo trova testimonianze ancora antecedenti nella letteratura in romanesco: lo si trova, infatti, in una poesia del 1935 di Trilussa: Libbro muto Ner mobbiletto antico che comprai | tant’anni fa da un antiquario in Ghetto, | c’era, sott’a la tavola, un cassetto | che tira tira nun s’apriva mai: | finché scoprii er segreto e fu una sera | che nun volenno spinsi una cerniera. | Subbito, da la parte de l’intacco, | la tavoletta fece mezzo giro! | e er cassetto s’aprì con un sospiro | ch’odorava de pepe e de tabbacco. | Guardai ner fonno e viddi in un incastro | un libbro intorcinato con un nastro. (Trilussa [Carlo Alberto Camillo Salustri], Le più belle poesie romanesche, Roma, Newton Compton, 2021) Intorcinare è registrato nel Vocabolario romanesco di Filippo Chiappini (la cui prima edizione è del 1933) e risulta per il punto 652 (Roma, per l’appunto) nella carta 1542 (‘avvolgere il filo sul rocchetto’) dell’Atlante Italo-Svizzero AIS (le cui inchieste risalgono ai primi anni del Novecento). Lo troviamo nelle poesie di Mario Fagiolo, prima che adottasse lo pseudonimo di Mario dell’Arco (Enrico Toti: sonetti romaneschi, Roma, Tip. Editrice Marte, 1925), nella variante rintorcinato, in Giggi Zanazzo (1895), nonché nella Raccolta di voci romane e marchiane di Giuseppe Antonio Compagnoni (1768; anche il sostantivo intorcinamento): Giggi – Piano! Io nun dico questo! (mettennose ’na mano sur petto) e ssarebbe un boja si lo negassi! Ma quello che nun posso manna’ ggiù è l’affare der pizzico! È l’affare der pizzico che so’ ddu’ ggiorni che mme sta qui e nu’ lo posso ignotte! Intorcinamento. Quel ritorcimento, che fa il se il filo, quando è troppo torto, v. groviglio || Intorcinato, v. aggrovigliato (Giuseppe Antonio Compagnoni, Raccolta di voci romane e marchiane poste per odine di alfabeto con le toscane corrispondenti, Osimo, Domenicantonio Quercetti, 1768, p. 96) Ma possiamo retrodatare il verbo ulteriormente. Le prime attestazioni che siamo riusciti a reperire attraverso Google libri risalgono al XVII secolo, in testi di area centrale: in un testo teatrale orvietano (ma usato da un personaggio di origini napoletane) e nel Meo Patacca di Giuseppe Bernieri, pubblicato a fine Seicento; per completezza aggiungiamo a queste citazioni un’occorrenza in un testo stampato a Roma, risalente ai primi anni del Settecento: O burlando, ò da viro, io lo boglio sapire e poi ncede chiù, che me l’haveta to domandare no cierto ientil homo Spagnuolo, che vuole pe mogliera, e io n c’haggio assicurato: e pe dicere lo vero n ce la davo male volontiera a chillo Spagnuolo, che chille gente hanno tanta superbia che non ce se po’ vivere; portano sopra na veste longa intorcinata, e dinto non hanno la camisa. (Francesco Guglielmini, Intrighi d’amore, Orvieto, Palmiero Giannotti, 1666, p. 65) Cammina innanzi al bove un asinaccio | Guercio, impiagato, schifo, e senza coda, | Di questa iscammio, pennolone un straccio | Sul poco stroncicone se gl’annoda, | Gli serve di capezza un certo laccio | Fatto di paglia intorcinata, e soda, | Basto non ha la scorticata schina, | E un certo mascalzone lo strascina. (Giuseppe Bernieri, Il Meo Patacca ovvero Roma in feste nei trionfi di Vienna, tomo I, Roma, Pietro Librario in Parione, 1695, p. 302) Per inalzar dunque il detto Piedistallo fù tenuto il modo seguente; Sappiasi per tanto, che la sua elevazione è stata poco disimile da quella della Colonna, mentra hà servito non solo il medesimo Castello, ma hanno anche servito li medesimi Ordigni & atrezzi, per il che essendo stato armato tutto attorno con Telaroni di legno, per la custodia delle Sculture, & imbragato sotto con grossi ferri, larghi per ogni versi oncie sette, furono a i medesimi investiti i Canapi Maestri ben girati, & intorcinati, & ad essi venivano fermati i Traglioni doppii, i canapi de’ quali andavano al Lavoro d’otto Argani guidati, e girati da 240 Uomini in tutti, e disposti nei luoghi medesimi dove esano nell’elevazione, & abbassamento della Colonna, eccettuati però quelli che si posero nella strada di Campo Marzio, quali non bisognorno. (Carlo Fontana, Discorso sopra l’antico Monte Citatorio, situato nel Campo Marzio, Roma, Stamperia di Giuseppe Nicolò de Martiis, 1708, p. 50) Di certo, però, l’ingresso in lingua e la conseguente registrazione nei repertori lessicografici italiani si devono al successo dei romanzi di Pasolini. Benché rimanga forte il valore espressivo del termine, sembra che la patina dialettale romanesca si sia ormai opacizzata: intorcinare è stato usato spesso da scrittori di altra appartenenza geografica come Dacia Maraini, Cesare Garboli, Fabio Genovesi, Dario Fo, Alda Merini, Luciana Littizzetto, solo per citarne alcuni. Per quanto riguarda l’etimologia, il verbo è stato analizzato da Vincenzo Faraoni e Michele Loporcaro, nella Lettera I, J del Vocabolario del romanesco contemporaneo di Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi: prob. da intòrce(re) (b. lat. intòrquere, cfr. GRADIT, s.v.) con il suff. -inà(re). Non si può del tutto escludere, tuttavia, una derivazione parasint.[etica] da torcino, forma italo-romanza documentata solo nella toponomastica (la macchia di Torcino, in provincia di Caserta, viene ricordata dal Belli nella prima glossa del sonetto 1948 dell’es. Teodonio 1998, Er fattarello de Venafro), verosimilmente connessa a torcione ‘strofinaccio usato per le faccende domestiche e per strigliare il cavallo’ (dal fr. torchon secondo il DEI, s.v., ma che potrebbe essere sviluppo autoctono di b. lat. intortióne, cfr. THLL VII, i, II, 33) e che sembrerebbe presupposta dal tipo torcinello / turcinello, di simile sign. attestato ne La Mascalcia di Lorenzo Rusio, testo sabino del XIV sec. (cfr. Aurigemma 1998: 382). (D’Achille-Giovanardi 2016, p. 119) Sebbene la derivazione da intorcere con l’aggiunta del suffisso -inare appaia più verosimile, l’ipotesi che considera la parasintesi, ossia l’affissione contemporanea di un prefisso (in questo caso in-) e della desinenza verbale (-are) a torcino rimane molto suggestiva. Il verbo intorcinare è usato spesso in frasi come “mi si intorcinano le budella” per indicare sia un disturbo intestinale, sia, per estensione, un senso di disagio e di malessere (se non di paura): “C’ho ’n’ansia che me squajo”. “E ’o dici a me? Che te ’o dico a fa’: so’ du’ giorni che me se ’ntorcinano ’e budella!” “È popo vero: quanno c’hai prescia ch’er tempo passi, è ’a vorta bòna che nun te passa più”. (Michele Abadantuono, Marco Navigli, Fabrizio Rocca, Come t’antitoli?, ovvero, Si le cose nun le sai...SALLE!, con introduzione di Enrico Montesano, Roma, Gremese Editore, 1999) “Mo v’a leggo io na cosa che ve fa intorcinare le budella”. “Che ce sieno armeno du zinne e un paro de gambe lunghe, Settì”. (Giovanni Luigi Naviciello, Alda Merini, L’età ingiusta, Linate (MI), A.CAR., 2008, p. 233) Infine rispondiamo a un lettore che ci chiede se “esista” il participio passato con funzione aggettivale intorcignato riferito a un “tessuto quando si presenta deformato da una sostanza originariamente liquida che si è seccata sopra di esso”. Come dice lo stesso lettore, il verbo ci risulta attestato soltanto in Maurizio Maggiani, che lo usa in diversi suoi romanzi: Non un pensiero il Venturini aveva fatto sulla Patri da quando era approdata al suo posto nella panca, non uno sguardo si era scoperto a cercar di valicare l’enorme da lì al posto di lei – traversare per tutto il suo lungo l’altare, ma il suo canto non aveva spaventi, non faceva pensieri, intorcignato senza memento a quella specie di vita sua: aeroplano e veliero viaggiava qua e là. (Maurizio Maggiani, Vi ho già sognato una volta, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 161) Man mano che sale le case diventano più vecchie, più piccole e più complicate, e il sestiere diventa un vecchio borgo intorcignato allo scoglio del monte, pieno di passi e volti, crosette e traverse. (Maurizio Maggiani, La regina disadorna, Milano, Feltrinelli, 2015 [versione digitalizzata; 1a ed. 1998 nella collana “I Narratori”) Qua e là, semi-clandestine, piante tenute a vigna, barbatelli che strisciano intorcignati, annodati dai libecci invernali. (Maurizio Maggiani, La zecca e la rosa, Milano, Feltrinelli, 2016) Mi ha ospitato nella sua casa, mi ha portato nella sua città. Titti conosceva le interiora di quella, ed erano millenarie e intorcignate in un groviglio indecifrabile. (Maurizio Maggiani, Mi sono perso a Genova, Milano, Feltrinelli, 2018) Seduto sul paracarro, la bicicletta delicatamente poggiata accanto sull’erbino, lo sposo spunta sul ginocchio ferito e intanto guarda il fiume che si raccoglie intorno alla chiusa in una pozza di calma, sul pelo dell’acqua zampillano le alborelle a cena per tempo con le ultime uova di zanzara, sulla riva che dà sul giardino della casa del sindaco, a ridosso di una pioppa che si alza dall’acqua intorcignata come una mangrovia del Missipipì, un airone color ardesia cerca di non dare nell’occhio intanto che aspetta il suo momento con le alborelle meno scafate. (Maurizio Maggiani, L’amore, Milano, Feltrinelli, 2020 [versione digitalizzata]) Nelle attestazioni reperite, però, non abbiamo rilevato il significato indicato dal lettore, semmai quello solito di intorcinato ossia ‘contorto’, ‘avviluppato’. Come rileva Guido Conforti, Maggiani è un “genovese d’adozione, importato dalla Lunigiana, a Genova ha trovato casa e l’ispirazione per la sua narrazione” (Guido Conforti, Genova: una città visibile, Colognola ai Colli (VR), Gribaudo, 2023 [versione digitalizzata]). Possiamo ragionevolmente ipotizzare che nella formazione dell’idioletto dello scrittore possa aver influito la varietà genovese in cui sono presenti sia il verbo intortignâ ‘attorcere’, sia l’aggettivo intōrtignôu ‘attorcigliato’, ‘contorto’, sia il sostantivo intōrtignêua ‘groviglio’ (cfr. Casaccia 1876; Frisoni 1910). Il verbo usato da Maggiani potrebbe essere nato dall’unione di intorci(nare) e (intorti)gnare. Si tratta comunque, per ora, di un hapax appartenente al solo Maggiani. Nota bibliografica:
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