Temi di discussione | OPEN ACCESS

SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

L’italiano: musica (e parole) per le nostre orecchie

Paolo D'Achille

PUBBLICATO IL 10 maggio 2024


Questa volta il nostro tema si lega particolarmente al mese in cui viene pubblicato, quello stesso citato nel “Maggio musicale fiorentino” (i cui spettacoli, iniziati ad aprile, sono tuttora in corso), e anche all’anno 2024, in cui ricorre il centenario della morte di un grande musicista italiano, Giacomo Puccini.

Come è noto, il 6 dicembre 2023 l’Unesco ha riconosciuto il canto lirico italiano come patrimonio immateriale dell’umanità. Si tratta di un evento di grande importanza per la nostra cultura e per la nostra lingua. All’interno del repertorio della musica lirica, infatti, non solo le opere composte su libretti in italiano, ormai eseguite ovunque in lingua originale, hanno una parte privilegiata (e pressoché esclusiva nella stagione compresa tra il Seicento e il tardo Settecento), ma la stessa forma di spettacolo è stata inventata in Italia, per la precisione a Firenze, alla fine del Cinquecento, e dalla città toscana è passata prima in altri centri italiani (Mantova, Roma e Venezia, dove dalle corti si spostò nei teatri) e poi un po’ in tutta Europa. Proprio grazie all’opera lirica, che lega indissolubilmente musica e poesia (il famoso recitar cantando dei primi melodrammi), l’italiano è stato considerato la lingua musicale per eccellenza, quella più adatta a incontrarsi con la musica: in effetti, nella struttura fonologica della nostra lingua, le consonanti sonore sono più numerose delle sorde (che si realizzano senza che le corde vocali entrino in vibrazione), la presenza di gruppi consonantici è abbastanza ridotta e, soprattutto, hanno molta importanza le vocali. Nel fiorentino, che è alla base dell’italiano, le vocali sono esclusivamente “orali” e non nasalizzate, costituiscono il nucleo delle sillabe, sia toniche sia atone, e compaiono quasi sempre in fine di parola e sempre in fine di frase, anche se proprio al nuovo rapporto con la musica si deve l’accoglimento dei troncamenti nel verso finale delle arie, necessari per ottenere versi accentati sull’ultima sillaba per ragioni musicali. Ma anche la libertà sintattica, in italiano molto maggiore rispetto ad altre lingue moderne, favorisce l’intonazione, come pure la possibilità di disporre in poesia, a seconda delle esigenze ritmiche, di alternative come speme e speranza, dolore e duolo, principe e prence, sempre e ognora. Per quasi due secoli, tra il Seicento e il tardo Settecento, l’italiano fu la lingua pressoché esclusiva dei melodrammi in tutta Europa, con l’eccezione della Francia, dove, peraltro, il melodramma fu importato da un musicista italiano, Giovanni Battista Lulli, diventato Jean-Baptiste Lully. Composero opere su libretto italiano anche musicisti stranieri come Händel, Haydn, Gluck, Mozart: è fin troppo ovvio ricordare che sono in italiano i libretti, scritti dal veneto Lorenzo Da Ponte, dei tre capolavori mozartiani (Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte). Anche dall’Ottocento al primo trentennio del Novecento, una volta nate le diverse “scuole nazionali”, tra cui sono particolarmente importanti quella francese e quella tedesca, le opere italiane, grazie a musicisti del calibro di Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi e Puccini, hanno continuato a costituire una parte essenziale del repertorio operistico (e non dimentichiamo che, nei paesi di lingua spagnola, ancora nella prima metà del Novecento si eseguivano in italiano anche opere francesi e tedesche). Tra i termini italiani entrati nelle altre lingue va ricordato libretto, che indicava il testo in versi messo in musica per le minuscole dimensioni con cui veniva pubblicato in occasione della rappresentazione; fino al pieno Settecento i testi delle opere, scritti sempre prima della composizione della musica, potevano essere “intonati” da più musicisti: così avvenne infatti per molti melodrammi di Metastasio, che per oltre cinquant’anni visse a Vienna, dove divenne “poeta cesareo”, e per alcuni libretti scritti da Carlo Goldoni. Poi parole e musica costituirono un insieme inscindibile e irripetibile, l’importanza del musicista finì col prevalere e il poeta fu declassato a librettista, termine nato con un significato spregiativo, ben presto venuto meno. Tra i compositori italiani ci fu chi, come Gaetano Donizetti, scrisse talvolta i libretti delle proprie opere; più tardi lo fecero Arrigo Boito (librettista anche per altri) e Ruggero Leoncavallo; si tratta però di casi rari. Ma Giuseppe Verdi, che di certo non aveva ambizioni poetiche, diede un contributo notevole alla struttura delle opere da lui musicate, fornendo ai propri collaboratori (tra cui va ricordato almeno Francesco Maria Piave, autore dei libretti dell’Ernani, del Macbeth, del Rigoletto, della Traviata, delle prime versioni del Simon Boccanegra e della Forza del destino) indicazioni precise sulla suddivisione delle scene, sui caratteri dei personaggi, sulla struttura dei versi, sulle stesse parole che dovevano essere pronunciate (e non di rado i librettisti le ripresero tali e quali). Lo stesso si può dire per Giacomo Puccini, il quale talvolta fornì ai suoi librettisti lo schema metrico adatto al testo di una musica già predisposta (quello che nella musica leggera sarebbe stato poi chiamato “mascherina”).

Gli interventi di entrambi i musicisti si colgono nei carteggi che essi ebbero con i propri librettisti, con gli editori (entrambi pubblicarono le proprie opere con la casa Ricordi) e con altri amici, che spesso fungevano da intermediari o da consiglieri. Se le lettere di Verdi sono molto importanti per cogliere il senso del teatro del grande musicista, quelle di Puccini si caratterizzano anche perché vi sono inseriti componimenti poetici scherzosi, giochi di parole, che rivelano le sue notevoli capacità di “giocare” con la lingua; un aspetto, questo, che è stato considerato all’interno del convegno intitolato Giacomo Puccini nella storia della lingua italiana: libretti lettere poesie, tenutosi a Siena il 19 e il 20 dello scorso marzo.

Sui carteggi verdiani e pucciniani, considerati in rapporto ai libretti, verterà la terza tornata accademica del 20 maggio 2024, intitolata Lingua italiana e musica tra Otto e Novecento e dedicata (così come il convegno senese appena citato) alla memoria di Luca Serianni (autore di fondamentali saggi sui libretti d’opera). Coordinata dall’accademico Vittorio Coletti, la tornata sarà animata dai musicologi Fabrizio Della Seta e Alessandro Roccatagliati, dagli storici della lingua Ilaria Bonomi ed Edoardo Buroni, che, insieme a Marco Spada, presenteranno la loro recentissima edizione del carteggio Verdi-Ghislanzoni (il librettista dell’Aida); un’altra storica della lingua, Fiammetta Papi, parlerà infine dell’epistolario pucciniano.

Ma la scelta di questo tema del mese è legata anche a un altro fatto: il collegio accademico del 29 aprile ha approvato all’unanimità la proposta, avanzata dagli accademici Ilaria Bonomi, Rita Librandi e Claudio Marazzini, di conferire il premio “Benemerito della Lingua Italiana 2024” al maestro Riccardo Muti. Come si legge nelle motivazioni di questo riconoscimento, il maestro Muti “ha testimoniato e promosso la lingua italiana nella sua veste di direttore alla testa di alcune tra le più prestigiose orchestre straniere […] e con la sua instancabile opera di insegnamento e valorizzazione dei giovani”. Muti “ha anche lavorato direttamente sulla nostra lingua, esortando nelle prove […] i cantanti a una chiara e corretta dizione e tutti gli interpreti […] al rispetto del senso del testo musicato, depositato nella sua secolare e ancor oggi viva tradizione linguistica, ed esigendo che nelle esecuzioni delle opere liriche sia rispettato rigorosamente il dettato del libretto originale, senza applicare ad esso inopportune innovazioni”. Aspettiamo con viva emozione il giorno in cui il Maestro verrà in Crusca a ritirare il premio.

Oggi, come si è detto, in tutto il mondo si usa cantare le opere nella lingua dei libretti originali, il che vale anche per i melodrammi italiani, che si servono della lingua della tradizione poetica (da Petrarca a Tasso, da Metastasio a Manzoni), da sempre diversa da quella della prosa e molto lontana dall’italiano di oggi. Che le opere liriche trasmesse alla televisione vengano ormai da tempo sottotitolate si spiega certamente con la difficoltà di capire parole cantate alla maniera lirica (tant’è vero che la stessa prassi è adottata anche all’estero per opere cantate nella lingua locale) e con l’importanza che si dà oggi alla comprensione dei testi, ma di certo anche la minore consuetudine con la lingua del passato deve avere un peso (lo rivelano peraltro le non rare scorrettezze che presentano i sottotitoli). Vero è che proprio il caso di Puccini mostra, anche sul piano del lessico, che l’opera in musica non è finita con il venir meno della lingua poetica tradizionale, ma che la librettistica ha saputo rinnovarsi. Dato lo spazio predominante che i melodrammi italiani occupano nel repertorio operistico (come mostrano i programmi dei teatri lirici di tutto il mondo), in molti paesi l’italiano viene insegnato nei conservatori; con profitto, evidentemente, perché oggi sono moltissimi i cantanti stranieri che pronunciano benissimo la nostra lingua e, soprattutto, che dimostrano di capire appieno il significato dei testi librettistici. Nei conservatori italiani avverrà la stessa cosa? Ce lo auguriamo. Verso la fine dell’Aida, la protagonista, sepolta viva insieme all’amato Radames, esclama vaneggiando (come recita la didascalia del libretto): “Vedi?... di morte l’angelo / radiante a noi s’appressa… / ne adduce a eterni gaudii / sovra i suoi vanni d’or”. Siamo proprio sicuri che per un giovane soprano italiano questi versi, senza un’adeguata spiegazione, risultino molto più chiari di quanto non lo siano per una cantante straniera? Ci pare opportuno porci la domanda proprio in questo momento felice per l’opera italiana.

Copyright 2024 Accademia della Crusca
Pubblicato con Attribution - Non commercial - Non derivatives (IT)