Consulenza linguistica | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Due lessemi complessi attraverso il tempo: sull’origine di mandare a monte e fare il puntoMatteo AgoliniPUBBLICATO IL 01 marzo 2024
Quesito: Sono giunte presso la nostra redazione alcune richieste di chiarimento circa la storia e l’esatto significato di mandare a monte (qualcosa, generalmente una partita a carte, una competizione sportiva, un piano, un progetto) e fare il punto (di qualcosa, di una situazione, dello stato dei fatti). Due lessemi complessi attraverso il tempo: sull’origine di mandare a monte e fare il puntoPremessa Può essere utile partire chiarendo subito perché si sia scelto di definire nel titolo mandare a monte e fare il punto lessemi complessi e non espressioni (idiomatiche), come le chiamano alcuni nostri lettori. Il termine “idiomatico”, usato un tempo per designare ogni forma o struttura tipica di una lingua, nel confronto con le altre, indica oggi quelle espressioni che, per dirla in termini tecnici, sono caratterizzate dall’abbinamento a un significante fisso (vale a dire, a una forma poco o nient’affatto modificabile) di un significato non composizionale (ossia, non ricavabile dalla somma dei significati dei componenti dell’espressione). Se in passato, dunque, si era portati a considerare idiomatico pressoché ogni uso di una lingua (sarebbe stato idiomatico dell’inglese l’impiego della proposizione in all’interno della locuzione to be interested in something, laddove l’italiano, ad esempio, ricorre ad a [essere interessato a qualcosa / *essere interessato in qualcosa]), oggi si tende generalmente a riconoscere come idiomatiche tanto le locuzioni figurate, specie verbali (vuotare il sacco ‘sfogarsi, raccontare ciò che si è tenuto celato nell’animo; confessare quanto si sa circa qualcosa che era rimasto nascosto, segreto’), nominali (bandiera bianca ‘resa’), aggettivali (acqua e sapone ‘semplice, puro/a’) o avverbiali (alla chetichella ‘di nascosto’), quanto tutte le espressioni dal significato non predicibile, inclusi, tra gli altri, gli alterati lessicalizzati, del tipo di bustarella (non ‘piccola busta’, ma ‘tangente’), le formule (in bocca al lupo) e, ovviamente, i proverbi (chi tardi arriva, male alloggia). Riprendendo un ben noto contributo di Federica Casadei, tuttavia, si opta qui per non includere tra le locuzioni verbali idiomatiche quelle caratterizzate “dall’appartenenza a un ambito tecnico (prendere quota) o dalla possibilità di una lettura alternativa imperniata sul significato basilare del verbo (locuzioni come prendere il sole o prendere il tempo, per cui sono possibili letture come ‘afferrare con le mani o altro strumento il sole/il tempo’, […] diagrammatiche rispetto ai significati ‘esporsi al sole per abbronzarsi’ e ‘registrare la durata di qualcosa’)”. Ecco che, rientrando sia fare il punto sia mandare a monte nella seconda categoria, e nascendo la prima delle due locuzioni – ma su questo si tornerà più avanti – come tecnicismo di un gergo specifico, si parlerà, in generale, di “lessemi complessi” (De Mauro-Voghera 1996), vale a dire di elementi lessicali – nel nostro caso, verbali – formati da più di una parola, anche detti (e le varie denominazioni verranno qui alternatamente impiegate, in quanto interscambiabili) “unità lessicali superiori” (Dardano 1978), “parole complesse” (Simone 1990), “unità polirematiche” (De Mauro 1999), “parole sintagmatiche” (Masini 2012). Mandare a monte Dizionari sincronici quali lo Zingarelli 2023, il Devoto-Oli 2023, il Sabatini-Coletti e il Vocabolario Treccani online riportano il lessema complesso sotto il lemma monte, nell’accezione di “mucchio di carte che resta dopo la prima distribuzione fra i giocatori, o l’insieme di quelle scartate”, e gli accostano la spiegazione “interrompere la partita per un’irregolarità; fig. far fallire: mandare a monte un progetto” (traggo le citazioni dal Devoto-Oli 2023); il Nuovo De Mauro, invece, pone a testo, tra i significati di monte, quello di “in alcuni giochi di carte, quel che resta del mazzo dopo la prima distribuzione; l’insieme delle carte scartate”, per poi inserire tra le polirematiche connesse all’entrata tanto mandare a monte “far fallire: mandare a monte un progetto, un piano; nei giochi di carte, annullare una mano di una partita, specialmente per una irregolarità rispetto alle norme del gioco”, quanto la locuzione verbale andare a monte “fallire, sfumare” (chiaramente legata alla prima: il piano che sarà stato “mandato a monte” potrà dirsi “andato a monte”, ossia sfumato). L’origine del lessema, dunque, sarebbe interna al mondo del gioco delle carte e andrebbe rintracciata nella tendenza da parte dei giocatori, in caso di irregolarità, a porre le carte in quel momento avute in mano su quelle già scartate o rimaste dopo la prima distribuzione, che, le une sulle altre, costituiscono un monte, un mucchio via via alimentato, ossia il mazzo, eventualmente pronto per esser mischiato e nuovamente diviso tra i partecipanti al gioco (qualora si decidesse di dar inizio a una nuova partita); dall’uso di porre le carte sul mazzo in caso di fallimento della partita si sarebbe generato il significato figurato di mandare a monte ‘far fallire (un piano, un progetto)’. Conferme in tal senso, e ulteriori dati, ci vengono da dizionari storici quali il Vocabolario degli Accademici della Crusca, il Tommaseo-Bellini e il GDLI. Quanto alla Crusca, dalla terza impressione (1691) in avanti, vi si legge, s.v. monte, con minime varianti, che far monte è “termine di giuoco, e si dice, quando per quella volta il giuoco non va innanzi”, donde andare a monte “ritirarsi per quella volta dal giuocare […]. Non continuare il giuoco, ma ricominciarlo da capo” (traggo entrambe le citazioni dalla quarta impressione, 1729-1738). Aggiunge il Tommaseo-Bellini (1861), s.v. monte, che far monte, andare a monte, mandare a monte sono “ter[mini] del giuoco” che si impiegano “quando per quella volta il giuoco non va innanzi; e del non continuare il giuoco, ma ricominciarlo da capo; e del disdir la posta; tolta la maniera dalle carte, che in tal guisa si ripongono nel monte”, precisando poi che, per estensione, far monte “si dice di ogni altra cosa che non si voglia tirare avanti e proseguire”, che andare a monte ha anche il significato di “riuscire vano: elezione andata a monte” e che mandare a monte checchessia equivale, sempre figurativamente, a “non curarsene”. A mandare a monte si sarebbero a lungo alternate, dunque, con il medesimo significato di ‘(far) fallire’, le polirematiche equivalenti andare a monte e fare (a) monte, entrambe registrate nel GDLI (s.v. monte; traggo dalla voce gli esempi sottostanti, rinviando all’Indice degli autori dell’opera lessicografica, che è in rete, per lo scioglimento delle sigle adoperate), che ne riporta rispettivamente i significati di ‘interrompersi il gioco o una partita a carte; darsi vinto’ (“Vorrebbe lo infelice voluntieri / che nulla fusse e il gioco andasse a monte”, Campofregoso, 1-63), ‘non avere un seguito; non giungere a compimento, fallire (un’iniziativa); essere respinto o bocciato (un progetto, una proposta)’ (“Domane il Podestà scriverà alla Signoria il caso mio… Crederia fosse ben fatto che voi parlaste a qualche consigliero innanzi, …acciò che, non essendo alcuno informato, la lettera non vada a monte”, Bembo, 10-ix-131), ‘avviarsi alla decadenza, andare in rovina; risultare fallace o inesatto’ e ‘interrompere il gioco, rimettere le carte nel mazzo’ (“Quant’iersera perdeste? Feci monte, / perché non mi sortiva ’l far ammasso”, Balatri, 212); ‘abbandonare un’impresa, lasciar cadere un’iniziativa; smettere, cessare, lasciar perdere’ (“Non fu tal guerra mai tra ’l Zoppo e ’l Conte / qual i’ ho teco, e d’odio ognor rinfresco; / or con più spade, zugo, adosso t’esco: / non hai più giuoco, e so faresti a monte”, Burchiello, lxxxviii-11-452). Non pochi risultano gli equivalenti di mandare a monte (e della sua famiglia) nelle diverse parlate locali: è il caso di andà e mandà a mont in milanese (Cletto Arrighi, Dizionario milanese-italiano, 1896, s.v. mont), di andà a monte in genovese (Angelo Paganini, Vocabolario domestico genovese-italiano, 1857; tav. XXX); di meter e mandar e butar a monte in veneziano (Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, I ed. 1829, II ed. 1856; s.v. monte); di fé a mönt in romagnolo (Antonio Mattioli, Vocabolario romagnolo-italiano, 1879; s.v. mönt); di mander a mónt in modenese (Ernesto Maranesi, Vocabolario modenese-italiano, 1893; s.v. mander), di andar e mandar a monte in parmigiano (Carlo Pariset, Vocabolario parmigiano-italiano, 1892; s.v. mont), di mandar a mont (al zogh) in ferrarese (Luigi Ferri, Vocabolario ferrarese-italiano, 1889; s.v. mandar). In tutte le opere ora citate l’origine dell’espressione è ricondotta al mondo dei giochi di carte, al quale rinvia anche un grammatico e lessicografo purista, il napoletano Basilio Puoti, che, commentando la cinquecentesca Apologia contra Lodovico Castelvetro di Annibal Caro, a proposito del passo “Non sarebbe gran fatto che voleste mandare a monte loro, poi che scartate anco Aristotile”, scrive: Mandare a monte dicesi propriamente parlandosi di giuoco quando si disdice la posta, come se per quella volta non si giocasse. Qui è adoperato figuratamente a significare ‘non far valere’, ‘non avere in niun conto’, come usasi appresso noi. (Annibal Caro, Apologia contra Lodovico Castelvetro, con annotazioni di Basilio Puoti, Napoli, Tipografia e Libreria Simoniana, 1845, p. 85, nota 1) Oltre ai dati a proposito dell’origine del lessema complesso, colpisce il significato con cui lo si ritrova impiegato (forse solo in area napoletana), vale a dire quello di ‘non far valere’, ‘non avere in alcun conto’, non abbastanza messo a fuoco a livello lessicografico, semanticamente connesso con i valori figurati sviluppatisi a partire dal mondo del gioco, nella misura in cui ciò che si fa saltare non ha, proprio in virtù del fatto di esser stato abbandonato, alcun valore. Fare il punto Venendo ora a fare il punto, gli stessi Zingarelli 2023, Devoto-Oli 2023, Sabatini-Coletti e Vocabolario Treccani online riportano il lessema complesso, s.v. punto, nel senso di “luogo determinato, posto”, e lo spiegano come “stabilire la posizione della nave [o di un aeromobile] per mezzo delle coordinate geografiche (punto osservato) o di rilevamenti (punto rilevato) o di calcoli sulla rotta (punto stimato)”, sottolineandone anche l’ormai diffuso impiego figurato “per esprimere l’opportunità di una ricapitolazione: fare il punto della situazione” (traggo le citazioni dal Devoto-Oli 2023); il Nuovo De Mauro riporta tra le accezioni di punto quella di “luogo, posto determinato: il bar è il nostro punto di ritrovo, la macchina è in un punto al sole”, per poi citare, tra le polirematiche legate alla voce, fare il punto, locuzione verbale avente, quale tecnicismo del gergo marinaresco, il significato di “rilevare la posizione geografica di un’imbarcazione in un dato momento”, poi impostasi nel lessico comune per designare l’eseguire una ricognizione circa lo stato di una determinata situazione, di un dato progetto. Il lessema complesso deriverebbe, allora, dalla banalizzazione di un termine tecnico nautico, per probabile influsso, rileva il Devoto-Oli 2023, del francese faire le point, così glossato all’interno del Grand Larousse de la langue française (1971-1979), s.v. point nell’accezione “position, sur la carte, d’un navire qui fait route ou d’un avion en vol” [posizione, sulla carta, di un’imbarcazione in mare o di un aereo in volo]: “déterminer cette position au moyen de divers calculs” [determinare questa posizione attraverso diversi calcoli]. Consultando i sopra citati dizionari storici, ci si rende conto del fatto che il Vocabolario degli Accademici della Crusca, nelle sue cinque impressioni, e il Tommaseo-Bellini non riportano (s.v. punto) né punto nella sua accezione nautica né, conseguentemente, fare il punto nel significato circa il quale ci vengono chiesti chiarimenti, ma testimoniano che è esistita in passato, in italiano, una locuzione verbale identica, maggiormente diffusa nella variante far punto, attestata sin dalla prima Crusca (1612; ma fare il punto è forma presentata come arcaica all’interno del Tommaseo), con il significato di ‘fermarsi’, con implicito rinvio alla funzione del punto fermo ortografico. Invece, il GDLI (s.v. punto; dalla stessa opera lessicografica traggo anche gli esempi sottostanti, rinviando anche in questo caso all’Indice degli autori per lo scioglimento delle sigle), oltre a riportare far(e) punto “prestare attenzione, fermarsi” (“Qui fa’ punto e guarda / c’ogni om molto si tarda / a trovar quel cotale / amico ben fidale”, Francesco da Barberino, iii-181), dà conto sia del valore di punto “posizione geografica di una nave, individuata con osservazioni astronomiche […] o per mezzo delle coordinate geografiche di latitudine e di longitudine […] o di rilevamenti da luoghi terrestri di posizione nota […] o di calcoli da una posizione nota e secondo la rotta seguita, con considerazione dei venti e delle correnti” all’interno della polirematica fare (o prendere, o correggere) il punto (“Sono stimate [le isole Terzere] di grandissima importanza per la navigazione delle Indie, essendo necessario che le flotte tutte che vanno e vengono capitino in quelle parti, così per ricever rinfrescamenti come anco per prender il punto della navigazione”, G. F. Morosini, lii-5-310), sia della sua ulteriore specializzazione sul piano semantico come “termine preciso di una questione, di una circostanza, di un avvenimento che deve essere fissato o riepilogato” nel lessema complesso fare il punto, che è quello, in uso metaforico, circa il quale ci vengono chiesti lumi (“Volevo soltanto valermi d’un autorità così nota… per fare il punto quanto alla necessità e originalità di un esperimento stilistico e metrico che ebbe luogo in un paese, il nostro, nel quale la ricerca poetica rimase esemplare”, Borgese, 6-11; “padre Carrega reagendo a un gesto di profondo sconforto della signora Gabriela aveva fatto il punto della situazione: - Bisogna vivere, signora, bisogna rendersi degni di quell’uomo indimenticabile che ha dato tutto per la buona causa”, Montale, 3-151). Alla base della polirematica italiana ci sarebbe, si diceva, il francese faire le point, che il Dictionnaire des expressions et locutions di Rey e Chantreau glossa come “se repérer en examinant sa situation par rapport aux faits, aux circonstances, à une évolution” [orientarsi esaminando la propria situazione in relazione ai fatti, alle circostanze, agli sviluppi], aggiungendo che “en marine, [il est propagé par le] début [du] XIXe s.; le sens métaphorique est dans Acad., 1935” [in marina, è diffuso dall’inizio del XIX sec., il senso metaforico è in Acad., 1935]. E all’interno del Dictionnaire de l’Académie française, in effetti, se la locuzione verbale faire le point è registrata a partire dalla VI ed. (1835), con riferimento all’atto del localizzare materialmente, con un punto, in base alle sue coordinate, un’imbarcazione sulla carta geografica, la sua estensione semantica metaforica (dall’individuare la posizione di una nave all’orientarsi in una situazione), figura dall’VIII ed. (1935). Dal francese, dunque, il lessema complesso sarebbe entrato in italiano già dotato di entrambi i suddetti valori. Circa il suo significato originario, non metaforico, interessanti attestazioni in opere legate al mondo della navigazione si rinvengono consultando Google libri; le si riporta di seguito, con l’aggiunta della voce punto all’interno del Dizionario del mare di Guido Bustico: Nella tavola per fare il punto relativa al rombo seguìto, si cercano nella colonna Dist. le miglia percorse, e sulla stessa linea si ha la differenza di latitudine e l’allontanamento corrispondente. La differenza di latitudine sarà Tramontana se la corsa è nel primo o nel quarto quadrante; sarà Ostro se essa è nel secondo o nel terzo. L’allontanamento sarà Levante se la corsa è nel primo o nel secondo quadrante; sarà Ponente se essa è nel terzo o nel quarto. (Roberto Zamara, Corso pratico di navigazione, 1859, p. 52) Se rilevando un solo oggetto non si potesse arguirne la distanza, allora si correrebbe lungo un rombo inclinato al fatto rilievo, fino a rilevare una seconda volta l’oggetto per proprio traverso, tenendo esatto conto del cammino percorso durante il tempo a ciò necessario. Si entrerà in seguito nella Tavola per fare il punto e, prendendo per rombo l’angolo fatto dal primo rilievo con la corsa, e per differenza di latitudine il cammino percorso, si troverà nelle corrispondenti colonne “distanza” ed “allontanamento” le due distanze dall’oggetto rilevato; la prima riferita al primo luogo di stazione, e la seconda all’altro. (Vincenzo De Domini, Compendio di cognizioni nautiche ad uso de’ giovani marini, 1877, p. 36) Parlando della rotta di una nave o della posizione di questa nave sulla carta, il punto è questa posizione medesima che la nave occupa sulla superficie del mare, marcata sulla carta da un punto. Quindi fare il punto è l’operazione mediante la quale si determina questa posizione, è la latitudine e la longitudine del luogo ove si trova la nave. (Francesco Piquè, Dizionario di marina: coll’aggiunta dei termini tecnici nelle lingue italiana, inglese, francese e tedesca, 1879; s.v. punto) punto chiamasi punto quello che la nave occupa sulla superficie che viene segnata sulla carta nautica; fare il punto determinare mediante calcolo la posizione di una nave. (Guido Bustico, Dizionario del mare, Torino, Giovanni Chiantore, 1931, s.v. punto) La polirematica che ci interessa si ritrova, inoltre, nel ricordato Dizionario della lingua italiana di Francesco Cardinali, s.v. punto, presentata come termine marinaresco indicante “nell’arte della navigazione […] il puntare la carta, il determinare il punto della superficie del mare al quale è arrivato il bastimento dopo una corsa, o rotta, di cui è nota la lunghezza e la destinazione” (la definizione ricorre identica all’interno del Vocabolario genovese-italiano [1851] di Giovanni Casaccia, s.v. punto, sempre a proposito di fare il punto o puntare la carta). Conclusioni Quelle su cui ci son stati chiesti chiarimenti sono locuzioni verbali legate ad àmbiti concreti, materiali, quali quelli del gioco di carte e della navigazione, e speriamo che il disvelamento dei mondi che stanno dietro alle singole parole complesse (spesso dal significato non trasparente, come in questo caso) della nostra lingua, nonché delle sue espressioni idiomatiche e dei suoi proverbi, possa fungere da stimolo a tenere il più possibile vivo l’interesse nei confronti della fraseologia, in quanto settore che consente spesso di provare la sopravvivenza di legami tra lingua e dialetti e/o di rintracciare, come nel caso della polirematica fare il punto, usi concreti del passato. Nota bibliografica
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