Articoli | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Detti, non parole! Quando il parlante riconosce la linguaNeri BinazziPUBBLICATO IL 24 febbraio 2021Nel corso delle riflessioni condotte sulle testimonianze di fiorentino sottoposte alla loro attenzione, i parlanti intervistati per il Vocabolario del fiorentino contemporaneo (VFC) qualificano come detto una gamma molto ampia e articolata di espressioni, in cui rientrano, allo stesso tempo, locuzioni, modi proverbiali, ma anche singole unità lessicali. Applicandosi indifferentemente a diverse entità linguistiche, il riferimento comune di ciò che viene individuato come detto andrà ricercato nel valore che a quelle entità viene riconosciuto dal punto di vista degli usi sociali, e dunque dei connotati sociolinguistici che questi usi rivelano. Partiamo allora da una breve rassegna di ciò che i parlanti del VFC riconoscono esplicitamente come detto. Per prossimità lessicale, la qualifica può investire quelli che gli stessi parlanti indicano anche come modo di dire, e che sono in genere rappresentati da particolari modalità esclamative: quanti fichi fa il mio fico! eccoci all’acqua! tutto pissi pissi! dove vai son cipolle! I parlanti, poi, definiscono detto ciò che per struttura è categorizzabile come locuzione: stare in corda
avere il tonchio trattare come un pellaio fare a miccino Non mancano poi, tra i detti, le espressioni figurate: girare come un arcolaio La medesima etichetta è poi chiamata a rappresentare i modi proverbiali in genere: essere alle porte con i sassi essere il soccorso di Pisa essere come la banda del ponte a Rifredi È da rilevare attentamente, poi, che detto viene riferito anche alle singole unità lessicali: nìnfolo nano babbalòcco le paste ‘la pastasciutta’ fare l’entratura In questa prospettiva, è naturale che la qualifica di detto possa estendersi anche a un particolare esito della morfologia verbale: mòrto (part. pass. di morire ‘uccidere’) Il denominatore comune di ciò che riceve la qualifica di detto sembrerebbe il suo configurarsi come un elemento del comportamento linguistico (sia esso, come si è visto, un’esclamazione, una locuzione, un modo proverbiale, un “semplice” vocabolo) che viene percepito come un segno distintivo, come una particolarità puntualmente rilevabile del proprio repertorio (e non necessariamente condivisa quando si è fuori dal proprio ambiente): abeto ‘abete’ In pratica, la presenza o meno di un detto rimanda all’evidenza, puntualmente sperimentata, per cui ogni micro-comunità cittadina è, in quanto tale, depositaria di un proprio repertorio, non del tutto sovrapponibile con quello di altre aree. E avere un proprio vocabolario, un proprio modo di dire le cose, può essere strumento di identificazione, che può essere attivato per mantenere la propria identità nella comunità di arrivo: baracchina ‘varichina’ D’altra parte, individuare e riconoscere come detto un’espressione linguistica particolarmente implicata con le consuetudini della specifica (micro)comunità in cui ci si identifica, può portare il parlante a qualificare senz’altro come detto il resoconto di una consuetudine in quanto tale. Anche quando, nell’esecuzione che lui stesso propone, non è possibile ravvisare nessuna particolare modalità linguistica codificata. Ma evidentemente, nella percezione di chi parla, è come se un detto ci fosse, perché il racconto – come succede quando il parlante valuta la pertinenza ambientale di un particolare modo idiomatico – consente di accedere e di restituire un’esperienza di vita tipica e caratterizzante di un determinato ambiente: pattona ‘polenta’ In questa prospettiva il parlante arriva ad avvertire come vero detto quello che, in quanto tale, è il resoconto di un comportamento vissuto come “norma della quotidianità” (eventualmente pregressa ai nostri giorni). E così il brano che segue, innescato dalla sollecitazione di nomi locali della pasta corta da brodo, è un vero detto perché racconta il percorso che, nella micro-comunità di riferimento del parlante, conduce normalmente – cioè in osservanza di una “inevitabile” prassi comunitaria – a confrontarsi con la denominazione della pasta da brodo. La competenza di paternostri e avemmarie è dunque intrinsecamente connessa, fino a costituire un tutt’uno, con quella dell’esperienza raccontata, al punto che il racconto nel suo complesso si rivela al parlante come un articolato e veritiero documento di identità linguistica (vero detto): paternostri ‘tipo di ditale, pasta corta da brodo’ Proprio in considerazione del fatto che i parlanti affidano con particolare insistenza a detto – individuato ora in locuzioni, ora in modi proverbiali, ora in singole voci – il compito di segnalare modalità linguistiche in grado di costituire un riconosciuto tassello dell’appartenenza, il VFC ha deciso di assumere detto a lemma. Ecco la voce in questione, così come appare nelle pagine del volume Parole di Firenze (2012), ma anche nel VFC online (http://www.vocabolariofiorentino.it/lemma/detto/2081): détto Noi si dice: porta i’ mangiare a i’ nido. I’ nostro detto l’è quello. Nella voce lessicografica si segnala anche che, a partire dal suo valore di ‘parola’, detto risulta già attestato nel cosiddetto Giorgini-Broglio (“GB”), cioè nel Novo vocabolario della lingua italiana, “ordinato dal Ministero della Pubblica Istruzione” e uscito dal 1870 al 1897 e compilato tenendo conto del parlato fiorentino (secondo l’uso di Firenze, recitava il titolo degli ultimi fascicoli dell’opera). Dunque il parlato fiorentino di metà Ottocento, che negli auspici della politica linguistica manzoniana avrebbe dovuto essere il riferimento del parlato italiano tout court, ospitava già detto nel valore che abbiamo rintracciato nel fiorentino d’oggi. Il valore di “documento di identità linguistica” riconosciuto dai parlanti a ciò che essi individuano come detto pare coerente con il modo in cui gli studiosi più attenti si rivolgono a quel particolare oggetto di studio rappresentato dal proverbio. A questo proposito Temistocle Franceschi, che, a partire dalla raccolta che condurrà alla redazione dell’Atlante Paremiologico Italiano (API), ha individuato importanti riferimenti teorici della riflessione paremiologica, sostiene che la natura profonda di ogni tipologia proverbiale è quella di essere una componente “retorica” della competenza linguistica (al punto che Franceschi parla proprio del proverbio in termini di breve segno linguistico), destinata a restituire in modo sintetico ed espressivo consuetudini e opinioni condivise in una determinata (e più o meno circoscritta) realtà ambientale. Non a caso, in una delle sue prime definizioni, Franceschi assimilava l’espressione proverbiale a una frase fatta, figurata o no, che svolge la funzione di sostituire un più lungo, complesso, astratto, generico discorso con una formulazione spiccia e spesso ellittica, solitamente figurata, che nel codice di quella tradizione linguistica (…) vale a rendere con prontezza e precisione il concetto da esprimere» (Franceschi 1978: 131). Per questo suo aspetto di segno linguistico spendibile (e correntemente speso) in uno specifico contesto sociale, lo studio dei proverbi tende dunque a configurarsi come una particolare branca della dialettologia: Alla millenaria ripetizione che “i proverbi sono la saggezza dei popoli” appar dunque opportuno sostituire un riferimento al loro reale impiego, rappresentandoli piuttosto come “insieme di motti tramandati ad uso retorico, quale strumento conciso quanto efficace ad esprimere un’opinione tradizionalmente accetta in una data comunità”. In tal modo ogni detto vien collocato nel corretto suo àmbito, che è essenzialmente linguistico, e di pertinenza precipuamente dialettale» (Franceschi 2017: 22). L’intrinseca saldatura tra modalità linguistiche ritualizzate e “mondi” specifici è del tutto evidente quando, come si è visto nel parlato fiorentino raccolto per il VFC, un’espressione cristallizzata genera nel parlante la connessione con un determinato contesto ambientale: E’ c’è i’ vecchio detto, no?, di’ semellaio, vecchio, vecchissimo detto, vecchissima battuta L’aspetto di modalità linguistica in grado di codificare in modo conciso ed espressivo «un contenuto assunto come verità paradigmatica, cioè tale da adattarsi non soltanto alla situazione in atto, ma altresì a qualunque situazione dello stesso genere» (così Durante in Cardona 2006: 166n) emerge in tutte le declinazioni di detto che abbiamo riscontrato nei nostri parlanti, per i quali il soccorso del detto è essenziale perché la sua gestione testimonia e garantisce la cittadinanza del parlante nella propria comunità di riferimento. Che è una comunità dinamica, all’interno della quale resta in vita solo ciò che è vissuto come effettivamente praticato: Or’un me lo ricordo, ma si dice: Tu se’ più bugiardo te che… Or’un mi ricordo icché. No, ma anche ora, dice: (Ma)donna, icché tu se’ andah’a cercalle: co i’ lanternino? L’è un detto d’ora. Quelli che sono attuali io me li ricordo. Questo, naturalmente, porta con sé che, dal punto di vista della loro copertura geografica, le espressioni possano essere di competenza e disponibilità diffusa. Come succede per fare le scarpe, riscontrato a Firenze ma, con tutta evidenza, sovraregionale: fare le scarpe La pertinenza dialettologica del modo proverbiale – da intendere in senso ampio, cioè, affidandoci ancora a Franceschi, come «motto sinteticamente illustrativo di qualche aspetto della vita umana secondo la communis opinio della società che lo tramanda» (Franceschi 2017: 23) – dipende dunque, in prima istanza, dal fatto che siamo in presenza di modalità linguistiche implicate con i meccanismi di identificazione del parlante rispetto alla propria comunità di riferimento. Come abbiamo visto dagli esempi tratti dal parlato fiorentino, affidare l’espressione della communis opinio a ritualizzate codificazioni linguistiche investe quelle particolare codificazioni (siano esse locuzioni, modi proverbiali, ma anche parole “isolate”) di riconosciuti compiti identificativi, che a loro volta trovano conferma in racconti che portano alla luce altrettanto “ritualizzate” consuetudini. A sua volta, lo strutturarsi della competenza attorno a ricorrenti modalità di contestualizzazione rimanda a un’organizzazione linguistica del sapere che è profondamente connaturata alla dimensione dell’oralità (segnatamente quella che Ong definisce come primaria, e che cioè si è strutturata totalmente al riparo dalla scrittura), dove l’apprendimento della lingua tende a svilupparsi attorno a modi formulari. Ong parla a questo proposito di “pensieri memorabili”: In una cultura orale primaria, per risolvere con efficacia il problema di tenere a mente o recuperare un pensiero articolato, è necessario pensare in moduli mnemonici creati apposta per un pronto recupero orale. Il pensiero deve nascere all’interno di moduli bilanciati a grande contenuto ritmico, deve strutturarsi in ripetizioni ed antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti e espressioni formulaiche, in temi standard [...] Frasi fatte [...] si possono occasionalmente trovare stampate, ma nelle culture orali esse non sono occasionali, formano la sostanza stessa del pensiero (Ong 1986: 62-63). A modo loro, questi rilievi richiamano le riflessioni di Benvenuto Terracini su quella sorta di di acquiescenza – a un tempo linguistica e comportamentale – che sarebbe modalità tipica, quasi distintiva, del parlante analfabeta: Questa docile adesione ad un modello significa appunto che l’individuo incolto si sente come sommerso entro il proprio ambiente e spiritualmente sottomesso alla collettività [...] Ad ogni modo, la lingua, per l’uomo incolto, si presenta come norma idiomatica, perché egli vi vede il riflesso di una propria norma di vita: non per nulla la stilistica del linguaggio popolare è fondata su di formule, proverbi, detti, esempi (Terracini 1996: 176).
2 . Nel mondo (arretrato) delle pratiche insensate Un ambito del senso comune particolarmente investito da codificazione proverbiale è quello riconducibile alla descrizione di pratiche nelle quali non è possibile ravvisare alcun senso, e che in quanto tali vengono riferite soprattutto a chi, per indole o per cattiva educazione, propone comportamenti altrimenti inspiegabili. Affronteremo questo ambito considerando prima di tutto un’espressione non documentata dal VFC, ma con la quale le testimonianze del VFC potranno essere confrontate per tratteggiare gli elementi costitutivi dell’ambito semantico in questione. In una raccolta di area ternana opportunamente introdotta e ben curata (Urbani 2006), troviamo registrato fare l’erba al treno; nella raccolta i modi proverbiali, riportati nei loro andamenti locali, vengono proposti a lemma dopo aver ricevuto una normalizzazione sull’italiano: Andare a far l’erba al treno. A conferma delle linee di continuità geolinguistica tra i territori in questione, il modo è diffuso anche nell’area aretina, dove però si configura come esortazione spazientita, e in quanto tale destinata a essere gestita anche con risentimento, fino a diventare una modalità di offesa. La riportiamo nella forma testimoniata in rete (cfr. https://proverbiaretini.blogspot.com/): Ma va fa ll’èrb’ al tréno Potremmo dire che, quasi in un clima da contrappasso, chi, con i suoi comportamenti ingiustificati, provoca fastidio e risentimento, viene invitato a dedicarsi a un’operazione altrettanto incomprensibile, perché inutile e senza senso, qual è quella del fare l’erba al treno, cioè raccogliere e procurare erba per destinarla come foraggio per un mezzo di locomozione che evidentemente, a differenza di quelli a trazione animale, non viene alimentato in quel modo. Dal punto di vista del riferimento all’impegno sprecato dedicandosi a una fatica inutile, il modo richiama il comune pestare l’acqua nel mortaio. Nelle Parole di Firenze qualcosa di simile è raccontato da buttare l’acqua nel muro, in cui si fa riferimento allo sforzo largamente vano del dare consigli a chi non vuol riceverne: muro Nel parlato fiorentino raccolto per la redazione del VFC troviamo poi portare l’acqua nel paniere o nel modo, ben più caratterizzato localmente, portare / piantare cavoli a Legnaia, a sua volta ben testimoniato dalla lessicografia vernacolare: come portare l’acqua nel paniere porta i cavoli a Legnaia: Locuzione che significa portare cose in posti dove già queste abbondano. Legnaia è una località della periferia di Firenze un tempo nota per la coltivazione di cocomeri e di cavoli. Dello stesso significato erano i detti: “Portare i frasconi a Vallombrosa, le mosche in Puglia, i vasi a Samo, le tavole a Fiumalbo, le nottole ad Atene, il pepe alle Indie, i datteri in Arabia” (Valdré 2005). Portà’ i hàvoli a Legnaia: Portare qualcosa in un posto dove ce n’è già in abbondanza. Legnaia è conosciuta per la coltivazione di quest’ortaggio (Rosi Galli 2009). Dal punto di vista formale, andrà sottolineata la tendenza, registrata nell’uso dei parlanti intervistati per il VFC e che trova conferma nelle raccolte locali, a formulare le locuzioni esprimendo l’oggetto in modalità determinata (fare l’erba; buttare / portare l’acqua; portare i cavoli). Questo elemento sembra assicurare un particolare connotato di concretezza alla fraseologia implicata, che anche in considerazione di questo elemento esprime la sua distanza dagli andamenti “standard”, dove l’assenza del determinativo (fare erba VS fare l’erba) sarebbe responsabile di una maggior astrattezza: si consideri, in questa prospettiva, l’opposizione tra il tipo fiorentino fare il conto, che abbiamo incontrato nel brano riferito a fare le scarpe («facciamo i’ conto che siamo in due…») e il tipo fare conto a cui invece accordano la loro preferenza i repertori “di lingua”. Quanto al messaggio, l’aspetto che, più o meno esplicitamente, viene messo in risalto da fare l’erba al treno è, più che l’inutilità, la sua insensatezza: svolgere l’attività in questione presuppone insomma una particolare ottusità mentale, che quindi è a suo modo “meritevole” di essere caldamente invitato (ma vai a fare l’erba al treno!) a occuparsi di faccende degne del proprio rango. A sua volta l’insensatezza dell’operazione è facilmente riconducibile a un’esistenza condotta ai margini della contemporaneità, in un contesto socio-antropologico fuori dal mondo e dal tempo. Per questa via, l’immagine della persona che raccoglie il foraggio per il treno è quella dello zotico che, per l’ignoranza profonda legata alla sua condizione, tratta la macchina come un animale, operandosi a procurargli il fieno. Nel Casentino, area già di per sé “isolata” dell’aretino, fanno l’erba al treno gli abitanti di Frassineta, che ricevono il proprio blasone identificativo proprio dal modo proverbiale in questione. Lo testimonia la pagina Facebook dell’Ecomuseo (23-12-2020): “Frassineta: quelli delle foglie lunghe/quelli che fanno l’erba al treno”. In modo del tutto analogo, in area fiorentina ci sarebbero luoghi in cui ci si preoccupa di assicurare erba ai mezzi pubblici. Seguendo Rosi Galli 2009, il blasone degli abitanti di Carmignano, piccola località posta tra Firenze ed Empoli, è tutto riassunto dalla loro predisposizione a “portare la biada all’autobus”, operazione che con tutta evidenza li espone al pubblico ludibrio, proponendoli come emblemi di un contado in perenne ritardo rispetto alle acquisite conquiste della modernità: Fa’ com’a Carmignano, in dò’ (sic) portano la biada all’autobusse: Essere di un’ignoranza abissale, tanto da essere capaci di portare da mangiare a un autobus! Anche rendersi conto di poco, non essere svegli mentalmente parlando. Pur senza esibire pezze d’appoggio documentali, l’autore della raccolta riferisce anche del fatto che sarebbe all’origine del detto: Storicamente si narra che il sindaco di Carmignano, in occasione dell’arrivo del primo autobus in paese, avesse detto ai compaesani che il mezzo aveva la potenza di 20 cavalli, sottintendendo a vapore, ossia la sua forza motrice. E sembra che la mattina successiva, i carmignanesi portassero in piazza la biada (Rosi Galli 2009: 244-245). Da questo punto di vista l’ostinato persistere del contadino in consuetudini che, ignare delle mutate condizioni della realtà circostante, vengono attivate in modo meccanico, è avvicinabile a quello dell’animale di campagna che, trasferito in città, è incapace di adattarsi al contesto, e cerca di brucare nel lastricato di una piazza. Come succede alla leggendaria capra dei pompieri, la cui ostinata ricerca di erba a Firenze nella centralissima piazza della Repubblica (già conosciuta a Firenze come piazza Vittorio, cioè Vittorio Emanuele II), è l’immagine evocata per mettere alla berlina chi fa cose senza senso. Leggiamo ancora dalle Parole di Firenze: capra Io so quello: Tu se’ più grullo della capra de’ pompieri. Quella la sa? Dice: Tu se’ più grullo della capra de’ pompieri, che l’anda(v)a a mangia l’erba ’n piazza Vittorio, che la un c’è l’erba in piazza Vittorio, l’è piazza della Repubblica. Del resto, il riferimento all’operazione sconclusionata del disorientato animale (e il parallelismo in forma di proverbio che per questa via viene a comporsi) può anche scomparire, e la capra dei pompieri resta da sola a simboleggiare – naturalmente, attraverso il detto di cui è protagonista – una mancanza di senno tutta particolare: Com’e quell’abbinamento con la capra de’ pompieri? / Ah! Se’ più matto della capra de’ pompieri. / Se’ più matto della capra de’ pompieri, si! / Poerina, icché la facea questa capra? / Eh, un lo so! / Un lo so, er’un detto. (R.: andava a mangiare l’erba in piazza Vittorio…) In piazza Signoria… / E più scemo o piu grullo o più matto della capra de’ pompieri che mangiava l’e(rba)… Sì. Termina così. / In piazza Signoria. (R.: si dice ancora?) / Sì. ’Ntendiamoci, noi si dice, si usa ancora. Le generazioni di ora, mmm… A Firenze, l’immagine dell’arretratezza che altrove, come si è visto, arriva a presentare le persone intente a procurare foraggio a treni e autobus, è tradizionalmente affidata alla similitudine con il dispositivo frenante alloggiato nella sede posteriore dei familiari carretti da lavoro, in fiorentino barrocci. Protagonista, dunque, è ancora una volta un mezzo di trasporto e di locomozione, ma con il quale questa volta si ha totale confidenza, al punto che del modo essere più indietro (/ addietro) della martinicca si ricostruisce agevolmente la motivazione: Eeeh! Sììì! / Quando uno l’è indietro, l’è indietro, no?, di cervello. Capisce poco, vòr dì che capisce poco. Siccome la martinicca l’era quell’affare di’ freno del barroccio che la stava dietro, e allora: Tu sei più indietro della martinicca! Proprio la trasparenza e, di conseguenza, l’immediatezza, sembrano i connotati che, agli occhi dei parlanti fiorentini, garantiscono la vitalità dell’espressione, al punto da farla apparire pienamente titolata a entrare nelle pagine di un vocabolario, dunque rendendosi disponibile alla scrittura. E così, affidandosi al felicissimo modo proverbiale in vigore a Firenze, il difetto dell’arretratezza riceverebbe la sua appropriata canonizzazione: Eppure ci dovrebbe esse su i’ vocabolario! La martinicca unn’era altro che i’ freno… allora, i barrocci di prima gl(i) eran trainati dai cavalli – va bene? – e cosa avevano? Avevano de… pe freni, c’era questi cosi che pressavano, le rote eran fatte o di legno oppure su questo legno ci mettevano de… cuoio una cosa e un’antra… Allora, la martinicca si diceva – questo esempio bisogna la lo scriva – Te tu sei più addietro della martinicca! Quande uno si diceva che, era un ignorante e non capiva niente, perché la martinicca era l’ultima cosa che c’era in fondo a i’ barroccio e questa martinicca a un certo momento l’era una corda che uno la tirava pe fà pressare questi freni sulle rote in maniera d’aiutare i’ cavallo a che, a icché non gli venisse i’ barroccio [...]. Perché la martinicca l’era l’ultima cosa di’ barroccio: Tu se’ più addietro della martinicca! Questo proprio: te(r)ra te(r)ra! Capito? Questo è ricorrente, lo scriverei ancora!
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