Consulenze linguistiche | OPEN ACCESS SOTTOPOSTO A PEER REVIEW Ma che strano! Il che esclamativo sembra ancora scorrettoCristiana De SantisPUBBLICATO IL 03 aprile 2023
Quesito: Due domande arrivate alla redazione chiedono se sia corretto o comunque accettabile nell’uso il costrutto esclamativo del tipo “che buono è”, “che bello che sei”. Ma che strano! Il che esclamativo sembra ancora scorrettoIl che usato con valore esclamativo è normalmente registrato nei dizionari dell’italiano, che ne attestano l’uso in una serie di brevi frasi senza verbo: in primo luogo davanti a sostantivo (Che bellezza!), quindi davanti ad aggettivo seguito dal sostantivo (Che bel bambino!) e infine davanti ad aggettivo isolato (Che bello!). L’aggettivo può essere ripreso da un secondo che e inserito in una frase con predicato nominale (Che bello che è!); nelle costruzioni negative troviamo un unico che, posposto all’aggettivo, a cui segue la frase negativa (Sciocco che non sei altro!). Le costruzioni con l’aggettivo isolato (Che bello!) sono considerate familiari o comunque informali. Sono state in effetti incluse da Francesco Sabatini tra i tratti del cosiddetto “italiano dell’uso medio” (Sabatini 1985, p. 165): già a metà degli anni Ottanta del secolo scorso risultavano comunque “di uso larghissimo” (ivi) e oggi sono di fatto accettate dopo essere state a lungo censurate dalla norma. La Grammatica di Serianni (Serianni 1988, p. 324) attesta del resto la presenza del che + aggettivo non solo nell’italiano comune ma anche nell’italiano letterario otto-novecentesco, con esempi da Carlo Dossi (“Che goffo!”) e Alberto Moravia (“Che distratto sono!”); si noti che nell’ultimo esempio la frase è corredata di verbo (essere), come nell’esclamazione riportata in uno dei nostri quesiti (che buono è!); la stessa presenza del verbo essere si ha anche in quella che Serianni chiama “la variante intensiva” del costrutto, con ripresa del che, esemplificata dalla prosa di Natalia Ginzburg (“Che asina che sei!”, “Che disordinati che siete!”) e presente nell’altro quesito pervenutoci (che bello che sei). Nel suo studio sulle grammatiche scolastiche novecentesche, Dalila Bachis (Bachis 2019, p. 70 s.) documenta il progressivo accoglimento della costruzione: se la grammatica per le scuole medie di Bruno Migliorini (Migliorini 1941, p. 224) ne condannava l’uso (“non si deve dire: Che bello!, ma Com’è bello! Quant’è bello!”), le grammatiche scolastiche più recenti registrano il fenomeno come di uso comune e quindi accettabile o comunque non sanzionabile, almeno nello scritto e nel parlato meno formali. Lo stesso Bruno Migliorini, nella sua celebre Storia della lingua italiana (Migliorini 1960, p. 473), cita il costrutto, considerato come “ancora male accetto in Toscana”, segnalandone la presenza già nell’italiano del Seicento, come probabile spagnolismo, diffuso a partire dall’Italia settentrionale attraverso l’oratoria sacra dei gesuiti. Come ha mostrato Paolo D’Achille (D’Achille 2014, p. 230 s.), l’origine cinque-seicentesca del costrutto e la diffusione a partire dall’italiano milanese sembrano confermati dalla sua presenza non solo all’interno di testi religiosi in traduzione, ma in un manuale di conversazione bilingue (italiano-spagnolo) del 1638, opera di un autore fiorentino (Lorenzo Franciosini). Nello stesso studio, D’Achille fornisce un esempio della costruzione con ripresa del che: “che sciocco che sono io”, attestato in un volume dello storico milanese Gregorio Leti, stampato nel 1697. Stupisce dunque che a porre il quesito sull’accettabilità di questa costruzione siano due scriventi settentrionali (B.P. da Milano e M.T. da Trieste), che sentono come scorrette frasi esclamative come Ma che buono è! o Che bello che è!. Va comunque detto che, nel suo volume dedicato all’italiano in movimento, Lorenzo Renzi (Renzi 2012, p. 110) cita proprio la costruzione settentrionale Che stanco che sono! come in via di estensione eppure “ancora sentita come substandard fuori dal Settentrione”. Lo stesso accade per la costruzione Che tempo che fa, in cui troviamo il nome al posto dell’aggettivo: una forma settentrionale “pensata come forma deviante e perciò divertente per il pubblico” (ivi, p. 211), scelta come nome di un noto programma televisivo. Alla luce delle prove fornite sulla diffusione del costrutto in italiano da oltre tre secoli e sulla sua attestazione in grammatiche e dizionari, possiamo dire che si tratta senz’altro di forme accettabili e adeguate all’uso vivo della lingua. Nota bibliografica:
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