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SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

Sulla distinzione fra nazionalità e cittadinanza

Paolo Carnevale

PUBBLICATO IL 13 giugno 2022

Quesito:

Diversi lettori ci chiedono di fare chiarezza sui termini nazionalità e cittadinanza, anche in rapporto all’inglese nationality; uno di loro, in particolare, contesta l’uso di cittadinanza a tradurre nationality nell’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un altro lettore ci chiede se cittadinanza possa indicare la somma dei cittadini. Infine una lettrice domanda se cittadinanza di genere può essere usato come “insieme di tutti i diritti civili e sociali caratterizzanti in particolare il genere femminile”.

Sulla distinzione fra nazionalità e cittadinanza

I termini nazionalità e cittadinanza si presentano giuridicamente caratterizzati da una chiara diversità, pur indicando condizioni che per un medesimo soggetto possono coincidere. Si registra una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione.

Da un punto di vista linguistico, solo il secondo ha il crisma della tecnicità: è un termine proprio del diritto, che lo definisce e lo configura. Nonostante non sia annoverabile fra quelli presenti nel solo vocabolario del giurista – come ad esempio abigeato, comodato, rescissione, ecc. – il diritto lo riconsegna alla lingua comune col tratto definitorio acquisito nel territorio di origine. Può anche presentare significati ulteriori: si pensi qui al senso lato del termine in espressioni come “ha diritto di cittadinanza, quanto qui sostenuto” o “dare cittadinanza a una parola o costumi stranieri”.

Diversamente la parola nazionalità non è annoverabile neppure fra i cosiddetti vocaboli tecnicizzati, che cioè il diritto utilizza estraendoli dal linguaggio comune per assegnare loro un significato specifico – per esempio prescrizione, comunione, attore, ecc. – ma viene semplicemente importato nel linguaggio giuridico che, pur utilizzandolo, non lo fa proprio ma lo riceve in dote senza connotarlo. Prova ne sia il fatto che le nostre principali enciclopedie giuridiche – la storica Enciclopedia del diritto, la più recente Enciclopedia giuridica italiana ed il Digesto delle Discipline pubblicistiche – non ci restituiscono un lemma specifico dedicato al termine in questione. È tuttavia sempre presente una voce riguardante la sua radice “Nazione”.

Ebbene, sia questa che il suo traslato nazionalità – che qui interessa più direttamente – tradiscono una chiara matrice dottrinaria, di ordine storico, sociologico e filosofico, per poi essere evocati – dalla Rivoluzione francese in poi – nei testi normativi, specie di natura costituzionale. Tale processo di progressiva normativizzazione non toglie al termine nazionalità una certa qual ambiguità semantica, verosimilmente legata alla genesi e allo sviluppo storico del relativo concetto (meritandogli, non a caso, l’appellativo di “falsa idea chiara”), la quale spesso riemerge quando lo si rinviene nel dettato normativo.

Nel suo significato più diffuso la nazionalità esprime l’appartenenza di un soggetto a una comunità, o più esattamente a un gruppo, i cui elementi di aggregazione vengono usualmente identificati in una serie di “fattori” o “indici”, che possono esistere congiuntamente o disgiuntamente, come quello religioso, quello linguistico, il fattore etnico, quello politico e, più in generale, quello storico-culturale. Se ne deduce che il concetto di nazione (e quindi di nazionalità) non comporta, né richiede di per sé un nesso di implicazione con lo Stato e il suo ordinamento – cui è invece inestricabilmente imbricato quello di cittadinanza, come si dirà fra un momento – potendo quest’ultimo storicamente inverarsi preventivamente, successivamente o parallelamente alla formazione di un’identità nazionale. Può utilmente ricordarsi, a questo riguardo, la celeberrima frase ascritta a Massimo D’Azeglio e pronunziata all’esito del processo di unificazione politica e territoriale del nostro paese che aveva portato nel 1861 alla nascita del Regno d’Italia: “fatta l’Italia, dobbiamo ora fare gli italiani”. Quasi a testimoniare la divaricazione esistente tra lo Stato-ordinamento e lo Stato-nazione. 

A tale proposito, appaiono particolarmente emblematiche le vicende politiche delle federazioni, in cui sotto un’unica veste (quella dello stato federale) possono ritrovarsi accomunate più nazioni (stati-nazione), come ad esempio nel caso del Belgio (caratterizzato da uno spiccato plurilinguismo e multiculturalismo) ovvero in cui risulta difficilmente identificabile un fattore comune, come nel caso della Svizzera, della quale è “lecito dubitare se (…) sia veramente una nazione in senso specifico”. 

In sostanza, quindi, la nazionalità esprime un concetto di appartenenza a un determinato gruppo che è pre-giuridico – che quindi il diritto statale, pur potendolo in vario modo utilizzare, né fonda, né forgia – accomunando i singoli individui sulla base di quello che comprensivamente potremmo definire un certo ethnos.

La cittadinanza, invece, indica la condizione (lo status) del “soggetto di fronte all’ordinamento giuridico o, se si vuole, allo Stato persona”, sia nel senso che essa definisce l’appartenenza al popolo quale elemento costitutivo dello Stato come ordinamento (demos), sia perché costituisce il presupposto, la condizione per l’attribuzione di un insieme di diritti e di doveri, di natura essenzialmente pubblicistica, il cui riconoscimento può in una certa qual misura (si pensi soprattutto ai cosiddetti diritti politici) segnalare una differenza di trattamento rispetto alla posizione nell’ordinamento propria dello straniero (id est: non cittadino). Differenza, a onor del vero, oggi significativamente ridotta dal processo di progressiva attribuzione anche allo straniero di una molteplicità di diritti, pur formalmente imputati al cittadino nelle disposizioni della Carta costituzionale, in forza dell’essere questi espressione di un patrimonio irretrattabile della persona umana.   

Orbene, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano si rinvengono numerose indicazioni che consentono di riscontrare la diversità dei concetti di cittadinanza e nazionalità.

A livello costituzionale, pur non mancando utilizzi sovrapposti e inclinazione a una qualche promiscuità, vi sono diverse disposizioni che fanno emergere la consapevolezza dei nostri Costituenti circa la non coincidenza tra il piano culturale (ethnos) e quello giuridico (demos).

Innanzitutto, si deve far riferimento all’art. 6 della Costituzione italiana, per cui “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. In questo modo, il testo costituzionale sembra alludere alla possibilità dell’esistenza di cittadini italiani di nazionalità non italiana, giacché, se è vero che concettualmente minoranza linguistica e minoranza nazionale possono divergere, nondimeno la coincidenza appare come eventualità più frequente.

Interessante, poi, è la previsione dell’art. 51, comma 2, Cost., secondo cui “la legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”. Qui, infatti, è evidente che la Carta costituzionale presuppone certamente la non coincidenza tra cittadinanza e nazionalità, riferendosi a soggetti che pur non godendo della prima tuttavia possono rivendicare la seconda.

Peraltro, un’ulteriore conferma della possibilità di parlare di cittadinanza esclusivamente come di un rapporto giuridico derivante dall’ordinamento statale è costituita, infine, dall’art. 22 Cost., secondo cui “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Proprio quanto appena richiamato ribadisce il discrimine fra cittadinanza e nazionalità.

Soltanto per la prima, in forza della natura di rapporto giuridico che la sostanzia, si può parlare di acquisto e di perdita e di regolazione da parte dell’ordinamento statale delle rispettive vicende, che invece non sono riferibili alla seconda, stante il suo carattere di qualità fondata su ragioni etno-culturali. Ne consegue, come già accennato in precedenza, che proprio in ragione di tali vicende, cittadinanza e nazionalità possono separarsi.

Non solo, e per converso, la immunità di quest’ultima dalle vicende suddette rivela una natura tipicamente escludente a fronte della maggiore apertura della prima, in conseguenza del suo carattere mutevole e più dinamico, tale da poter portare ad una imputazione plurale, come ad esempio nelle ipotesi di doppia cittadinanza.

Va, tuttavia, qui incidentalmente rammentato che in ordine alla distinzione qui delineata o, meglio, alla sua portata effettiva un certo impatto vada riconosciuto alla logica di fondo cui ciascun ordinamento statale si ispira per delineare le modalità di acquisto della cittadinanza.

Qui il diritto può giocare un ruolo significativo. Nel senso, cioè, che laddove a prevalere siano le ragioni dello ius sanguinis – si comunica al nascituro la cittadinanza del proprio genitore – le distanze tendono evidentemente a raccorciarsi; mentre ove prevalgano criteri diversi come lo ius soli – si diviene cittadini per via del fatto di essere nati in un certo territorio – o, per stare ad una formula che ha animato di recente il nostro dibattito pubblico, lo ius culturae – si perviene ad acquisire la cittadinanza in ragione del compimento di un certo itinerario formativo-scolastico – le distanze invece si ampliano.

A rendere infine la distinzione tra cittadinanza e nazionalità direi “in modo plastico” e ancor più evidente è il diritto dell’Unione europea e, in specie, l’istituto della cittadinanza europea introdotto con il trattato di Maastricht. Secondo il diritto dell’Unione, infatti, questa viene conferita a ciascun cittadino di uno stato dell’Unione per il semplice fatto di esserlo. Si tratta perciò di una cittadinanza aggiuntiva, di “secondo grado” come si usa dire, conferita automaticamente e de relato, rispetto alla quale la distinzione “possibile” fra cittadinanza e nazionalità, di cui s’è detto, diviene stabile e inevitabile. Sin tanto che, almeno, una assorbente nazionalità europea non venga ad affermarsi nell’orizzonte della storia. Ma qui ovviamente si apre un discorso assai più ampio orizzonte che esula sicuramente dai compiti di questa risposta.

In definitiva, se ne può concludere che le nozioni di cittadinanza e nazionalità esprimono concettualmente due diverse realtà.

Alla luce di ciò, si può dire che l’utilizzo promiscuo o sinonimico che talora si riscontra nel linguaggio burocratico e persino normativo riflette, non di rado, un uso non vigilato dei termini e dei concetti che invece – come visto – non vanno confusi. Un classico esempio è rappresentato dall’indicazione Nazionalità in luogo di Cittadinanza sul passaporto.

Quanto sin qui detto per nazionalità e cittadinanza vale anche per le omologhe espressioni nationality e citizenship, presenti nel linguaggio e nella cultura anglosassone.

The term “nationality” also exists in the INA (i.e. Immigration and Nationality Act), but its historical unimportance in U.S. law has left its relationship to citizenship somewhat ambiguous. “Nationality” and “citizenship” are clearly not interchangeable, however. The INA defines “nationality” as the quality of “owing permanent allegiance to a state”. Thus it has always been clear that not all nationals are citizens. What is not clear is whether all citizens must be nationals. (Mark C. Fleming, The functionality of citizenship, IV. The Nationality of Citizenship).

Ne consegue che quanto si legge nell’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo costituisce un ennesimo esempio di erronea ibridazione del linguaggio normativo, con la sovrapposizione di nationality a citizenship che vi si registra, dovendosi decisamente propendere per un diritto e un divieto di arbitraria privazione da riferirsi alla cittadinanza piuttosto che alla nazionalità. Di modo che, in questo caso, la traduzione italiana, per cui “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza”, esprime più correttamente il contenuto della disposizione.

Utilizzi, infine, del termine cittadinanza in luogo di popolazione urbana evidentemente riflettono la derivazione latina del termine, il quale fa riferimento al complesso dei cives che viene a identificare l’insieme degli abitanti della città nel momento in cui la parola civitas viene a soppiantare urbs nella definizione di aggregato urbano.

Del tutto allusiva e di matrice ideale è l’espressione “cittadinanza di genere” che riassume ed eleva a obiettivo generale e non settoriale dell’azione politica (ad oggi riferita in modo peculiare al livello regionale) la promozione e il consolidamento di una cultura di genere paritaria, la valorizzazione delle differenze ed il contrasto alle diseguaglianze fondate sulla identità sessuale.

È evidente che in queste due ultime accezioni il termine di cittadinanza non ha a che fare con l’istituto giuridico di cui abbiamo sin qui parlato.

Cita come:
Paolo Carnevale, Sulla distinzione fra nazionalità e cittadinanza , “Italiano digitale”, XXI, 2022/2 (aprile-giugno), pp. .

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