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SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

Dall’algocrazia all’algoretica: il potere degli algoritmi

Lucia Francalanci

PUBBLICATO IL 15 settembre 2020

Le tecnologie dell’informazione e l’intelligenza artificiale (AI = Artificial Intelligence) hanno ormai un peso sempre più rilevante nella società e nell’economia globale. Politica, istruzione, sanità, giustizia: tutto, oggi, è basato sugli algoritmi.

Si pensi a tutti gli aspetti della nostra vita in cui è coinvolta la tecnologia: gli assistenti vocali che utilizziamo sui nostri smartphone funzionano grazie ad algoritmi di intelligenza artificiale, così come i sistemi di riconoscimento facciale presenti nelle fotocamere dei nostri dispositivi o sui social network che frequentiamo; sono gli strumenti invisibili nascosti dietro l’interfaccia di app e programmi che usiamo giornalmente. Si basano su algoritmi le transazioni finanziarie, il calcolo di percorsi e la geolocalizzazione (‘individuazione della posizione geografica di persone, veicoli, oggetti’), le interrogazioni sui motori di ricerca, le pubblicità e i suggerimenti che appaiono quando consultiamo un sito, i sistemi di messaggistica, gli accessi agli sportelli postali, la prenotazione di un posto in aereo o in treno, la firma elettronica, ecc.

Ma i sistemi di intelligenza artificiale non sono pervasivi soltanto nella vita privata. Si ricorre ad algoritmi anche nelle procedure che riguardano la pubblica amministrazione. Un esempio è la controversa vicenda di qualche anno fa per la riorganizzazione del corpo docente sul territorio nazionale; nel 2016, il MIUR aveva adottato un sistema che, sulla base di parametri e criteri definiti (posizioni personali, titoli, punteggi), provvedeva ad assegnare in modo automatico le varie sedi ai docenti che risultavano idonei. Molti insegnanti avevano poi fatto ricorso per conoscere i criteri decisionali dell’algoritmo, richiesta approvata sia dal TAR Lazio, che dal Consiglio di Stato.

L’AI ha rivoluzionato anche il settore dell’assistenza sanitaria: l’intelligenza artificiale è infatti usata con ottimi risultati nell’ambito della chirurgia robotica e della microchirurgia, nella medicina preventiva, come supporto alla diagnosi, nel trattamento delle patologie, nell’individuazione di nuovi farmaci, ecc. Gli algoritmi determinano, inoltre, le priorità nelle liste d’attesa per i trapianti di organi.

In campo economico, gli algoritmi sono usati per aumentare l’efficienza, aiutando a prendere decisioni commerciali e strategiche più funzionali e automatizzando alcuni processi. Le aziende usano algoritmi per il calcolo dei prezzi, per prevedere l’evoluzione del mercato, per collocare i prodotti sugli scaffali dei negozi e tenere conto delle preferenze dei consumatori.

Gli algoritmi finanziari stabiliscono se siamo o meno dei buoni creditori e influiscono quindi sulle scelte di prestito delle banche. Ma sono usati anche per il trading dei titoli (‘negoziazione di titoli finanziari quotati’) e per il monitoraggio dei flussi di cassa.
E ancora, l’intelligenza artificiale è usata negli autovelox e nelle telecamere che rilevano gli eccessi di velocità o l’uso dei telefoni mentre si guida, nella regolazione dei semafori, nei sistemi di controllo negli aeroporti, nei droni e velivoli militari a pilotaggio remoto per la sorveglianza e la ricognizione, e così via.

Insomma, viviamo ormai nell’era degli algoritmi, un’epoca in cui le tecnologie informatiche influenzano le nostre scelte e determinano le nostre azioni, con conseguenti trasformazioni sul piano economico, sociale, politico e organizzativo: è cambiato il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con gli altri, il modo in cui lavoriamo, produciamo, studiamo e ci divertiamo.

Per indicare tale forma di società dell’informazione, basata sul predominio degli algoritmi, si è proposto il termine algocrazia.

Il sostantivo algocrazia è un calco dall’inglese algocracy, formato da algo, abbreviazione informale di algorithm ‘algoritmo’, e da -cracy ‘-crazia’ (= ‘potere, dominio’). Il significato letterale è ‘potere degli algoritmi’.

La voce algoritmo viene dal latino medievale algorĭthmum o algorĭsmum, latinizzazione di al–Xwārizmī ‘(uomo) della Corasmia’ (regione dell’Asia centrale, oggi divisa tra il Turkmenistan e l’Uzbekistan), soprannome del famoso matematico arabo del IX secolo Muḥammad ibn Mūsā. Nel Medioevo il termine faceva riferimento a un ‘sistema di calcolo fondato su cifre arabe’; oggi, il significato specialistico (matematico) è quello di ‘insieme di regole per la risoluzione di un calcolo numerico’ e per estensione ‘metodo o procedimento matematico per la risoluzione di un problema’.

L’elemento -crazia viene invece dal greco -kratía ed è usato in diversi composti per esprimere il concetto di potere, forza, dominio o per denotare posizioni dominanti (aristocrazia, burocrazia, democrazia). Oggi molte parole formate con -crazia arrivano direttamente dall’inglese (meritocracymeritocrazia, tecnocracytecnocrazia); -cracy è infatti un elemento formativo molto produttivo in tale lingua (tra le formazioni più particolari: adhocracy ‘sistema di gestione e organizzazione flessibile, senza una struttura formale, che muta facilmente a seconda della situazione, costruito ad hoc’; punditocracy ‘gruppo di esperti, opinionisti, commentatori (pundit) che influenzano in particolare il panorama politico’; kakistocracy ‘il governo dei peggiori’, usato per la prima volta dall’ex direttore della CIA John O. Brennan per descrivere il governo di Trump; registrato dal GRADIT 2007 nella forma cachistocrazia).

Il primo (e attualmente unico) dizionario inglese a registrare algocracy è il Cambridge Dictionary, che lo inserisce nella rubrica delle “nuove parole” del 2019 con la definizione “a social system where people are governed and important decisions are made by computer algorithms” [“un sistema sociale in cui le persone sono governate e le decisioni importanti sono prese da algoritmi informatici”]. Anche in italiano algocrazia non è censito dai dizionari, né viene incluso in altri repertori lessicali.

L’origine del termine algocracy viene fatta risalire al 2006, data in cui viene pubblicato il libro Virtual Migration di A. Aneesh, docente di sociologia all’Università del Wisconsin-Milwaukee. Tuttavia, in un articolo del 2009 (Global Labor: Algocratic Modes of Organization in “Sociological Theory”, 27, pp. 347-370) Aneesh dichiara di aver sviluppato il concetto già nella sua tesi di laurea del 1997 e di averlo successivamente presentato all’American Sociological Association nel 1999 (Technologically Embedded Authority: The Post-Industrial Decline in Bureaucratic Hierarchies, in “Sociological Abstracts”, American Sociological Association).

Nei suoi studi, Aneesh usa i termini algocracy e algocratic nell’ottica del mondo del lavoro: egli identifica un nuovo sistema di governance (‘insieme delle procedure e delle pratiche che regolano la gestione e il governo di una società, di un’istituzione’), che chiama appunto algocrazia, basato sul codice (cioè sugli algoritmi) e che si distingue dai sistemi organizzativi più noti, la burocrazia e il mercato. A differenza del sistema burocratico, che si basa su leggi e regolamenti e il cui potere viene esercitato da una gerarchia, e del mercato, che si fonda su logiche legate al profitto, l’algocrazia si avvale della programmazione e degli algoritmi per determinare modalità di lavoro guidate dal codice, che organizza e determina le interazioni umane con il sistema. Un sistema algocratico non necessita di alcun livello di gestione intermedio o centralizzato; è il software stesso che dirige il lavoro, sostituendo la burocrazia di un’azienda o di un sistema economico.

Uno degli esempi che propone Aneesh riguarda il controllo del traffico e delle violazioni automobilistiche. L’uso dei semafori implica per gli automobilisti il rispetto di alcune regole (come fermarsi quando è rosso), le cui violazioni possono essere rilevate dalla polizia stradale. Tale modello organizzativo comportamentale funziona sia perché c’è una certa interiorizzazione delle regole da parte degli automobilisti, sia perché esiste la minaccia della pena per il mancato rispetto delle regole; potremmo dire che questo è il modello che rappresenta l’organizzazione burocratica. C’è poi il modello algocratico, un sistema di autocontrollo del traffico che non si basa su regole ma su come sono costruite le strade: pensiamo a un’infrastruttura stradale che impedisce ai guidatori di svoltare a sinistra o a destra o di sostare in un punto preciso a meno che non sia previsto da chi ha progettato la strada.

Un esempio ancora più chiaro può essere la compilazione di un modulo al computer da parte di un operatore allo sportello bancario o postale. L’uso di un sistema algocratico guida le azioni dell’impiegato attraverso una serie di passaggi successivi ben precisi: l’operatore non può allontanarsi dalla struttura definita dal codice, né gli viene “permesso” di compilare in modo sbagliato la parte di un modulo, inserendo ad esempio un indirizzo nello spazio dedicato a un numero.

Originariamente il concetto di algocrazia faceva riferimento all’effetto che le tecnologie informatiche hanno sull’evoluzione del lavoro; il termine si è poi esteso a indicare più genericamente la crescente importanza degli algoritmi nella società e i relativi rischi. Se da un lato, infatti, il ricorso agli algoritmi consente di semplificare i processi, ridurre i costi e risolvere problemi in modo più rapido ed efficiente, dall’altro si avverte la minaccia di un sistema governato dall’intelligenza artificiale e in cui il potere (sociale, politico, economico) è in mano a coloro che controllano gli algoritmi. Spesso, infatti, questi rimangono segreti e gli utenti finali non ne conoscono il funzionamento né hanno la possibilità di modificarli o interagirvi direttamente; ad esempio, non conosciamo gli algoritmi che stanno dietro ai motori di ricerca, ai social o ai siti che frequentiamo, ma le nostre identità digitali sono costruite dai sistemi informatici in base al nostro comportamento online (in base a quello che cerchiamo, leggiamo, acquistiamo) senza la nostra approvazione o il nostro coinvolgimento.

Si rende quindi necessario non solo studiare e comprendere le potenzialità e le opportunità che queste tecnologie offrono, ma anche capire quali possano essere gli impatti economici, sociali, politici e organizzativi che derivano dalla loro applicazione. Ma su questo torneremo più avanti.

Le prime attestazioni di algocrazia nella nostra lingua si hanno a partire dal 2013. Il 21 marzo 2013 viene pubblicato il volume Introduzione ai media digitali, nel quale gli autori forniscono una definizione del sostantivo, riprendendo le parole di Aneesh:

Con il termine algocrazia viene descritto un ambiente digitale di rete in cui il potere viene esercitato in modo sempre più profondo dagli algoritmi, cioè i programmi informatici che sono alla base delle piattaforme mediatiche, i quali rendono possibili alcune forme di interazione e di organizzazione e ne ostacolano altre [Aneesh 2009]. (Alessandro Delfanti, Adam Arvidsson, Introduzione ai media digitali, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 23)

Ancora del 2013 è la prima occorrenza rintracciata in rete. Durante la terza edizione dell’Internet Festival, la manifestazione dedicata alla rete che si svolge ogni anno a Pisa, si tiene l’intervento Come i femminismi ti bucano la filter Bubble a cura del gruppo Ippolita; nel corso dell’incontro il termine algocrazia non viene mai usato, ma se ne trova traccia negli articoli dei quotidiani che si occupano dell’argomento:

Al Cinema Teatro Lux, la seconda giornata di Internet Festival, sarà dedicata interamente al tema delle donne nel web. Si parte alle 10 con la tavola rotonda “Come i femminismi ti bucano la filter Bubble” organizzato dal gruppo Ippolita che analizza il progetto Cercatrice di Rete di Women.it, dedicato, tra i vari temi, alla pornografia emotiva, la trasparenza radicale, l’algocrazia, il suprematismo nerd e il Queer code. (Internet Festival 2013: il futuro del giornalismo tra carta e internet, i temi del secondo giorno, quotidiano.net, 10/10/2013)

La prima attestazione dell’aggettivo algocratico è del 2014; anche in questo caso, l’autore cita (mettendo la traduzione tra virgolette) l’articolo di Aneesh del 2009:

Alcune analisi insistono sull’idea che questo sviluppo abbia dischiuso scenari dell’economia e del lavoro del tutto nuovi e che una «organizzazione algocratica» (in cui cioè il principio della programmazione e dell’algoritmo si sostituisce ai modi di coordinamento tipici della burocrazia e del mercato) «diviene possibile grazie ad un importante sviluppo nella natura stessa del lavoro: la liquefazione del lavoro concreto nel codice digitale». (Vando Borghi, La tecnica al lavoro. Dominio e democrazia nella messa in forma del reale, “Parolechiave”, 22, 1, 2014, pp. 69-90)

Le occorrenze di algocrazia risultano comunque piuttosto sporadiche almeno fino al 2018, anno in cui la voce fa il suo ingresso anche nella stampa quotidiana. Sono in tutto 10 le attestazioni su “Repubblica”, “Corriere della Sera” e “Stampa”, così distribuite: le 4 occorrenze nel “Corriere della Sera” e le 2 nella “Stampa” sono tutte del 2018, le 4 nella “Repubblica” sono una del 2018, due del 2019 e una del 2020. L’aggettivo algocratico non risulta invece presente. Riportiamo i primi due esempi trovati nei quotidiani:

Gli algoritmi ci tengono in pugno. Non è più solo questione di multinazionali con profitti miliardari, denuncia il Garante italiano della Privacy. È altro, è algocrazia. Dittatura dell’algoritmo. Pensi di stare navigando liberamente sulla Rete, e invece è il motore di Google che ti fa vedere la parte che ritiene interessante per te. Credi di lavorare per un’azienda di consegne a domicilio, invece sei il dipendente di un algoritmo. (Riccardo Antimiani, L’allarme di Soro "Nuove regole per gli oligopoli web o la società rischia", “la Repubblica”, 11/7/2018)

Le ultime elezioni sono state vinte da Matteo Salvini e Luigi di Maio grazie ai social media. Questa l’avvincente tesi, anche se un po’ temeraria, del programma «Lo Stato Social. Le elezioni come non si sono mai viste» […] Documentario interessante, comunque, nella speranza che la democrazia non si trasformi in algocrazia, il governo degli algoritmi in grado di influenzare i nostri comportamenti. Volenti o nolenti. (Aldo Grasso, «Lo Stato Social»: come analizzare le elezioni nell’era digitale, “Corriere della sera”, 19/3/2018)

In realtà il “Corriere della Sera” ci restituisce anche un’altra curiosa occorrenza, sia di algocrazia che di algocratico, che risale addirittura al 1993, quattro anni prima della data della tesi di laurea di Aneesh (1997), e che costituirebbe dunque la prima attestazione in italiano di entrambi i lessemi:

Ma forse un rischio lo ha omesso, subdolo quanto pervasivo, squisitamente massmediologico (anzi, senza volere lo ha forse fomentato): l’instaurazione della dittatura del dolore, o – se è consentito il neologismo – la minaccia di un «regime algocratico» […] E per quanto possiamo soffrire delle sofferenze del prossimo, non vorremmo – almeno nella frivola baldoria del Capodanno – che l’algocrazia rampante ci imponesse la sofferenza come il supremo dei valori. (Vittorio Sermonti, Ma io scelgo l’elogio della felicità, “Corriere della sera”, 3/1/1993)

Come si può vedere, tuttavia, qui il senso di algocrazia è ben diverso e lontano da quello di “potere degli algoritmi”. In questo articolo, Vittorio Sermonti, famoso scrittore, giornalista e dantista italiano, risponde alle parole dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che nel messaggio di fine anno rivolto agli italiani il 31 dicembre 1992 afferma: “la mia più grande speranza mi giunge da voi che soffrite: ammalati senza umana speranza, sofferenti nel corpo e nello spirito che tante volte coprendo questo mio tavolo di lavoro con i vostri scritti e le vostre preghiere mi avete insegnato la dignità del soffrire e la forza del saper offrire. A voi, Buon Anno!”. Sermonti si lancia in un elogio della felicità, coniando, come egli stesso afferma, i termini algocratico e algocrazia, prendendo come primo elemento del composto la voce algo, che deriva dal greco algos e significa ‘dolore’: in questo senso, algocrazia diventa quindi il “potere del dolore”. Si tratta, dunque, di un omonimo del termine coniato da Aneesh, che costituisce un hapax o che comunque è rimasto d’uso assai circoscritto.

Oggi, algocrazia sembra infatti usato esclusivamente in riferimento agli algoritmi e anzi, anche con tale significato risulta ancora poco presente sia in rete (6.260 risultati per algocrazia nelle pagine in italiano di Google al 5/7/2020, 160 r. per alcocratico nelle varie flessioni, 279 r. per algocracy), sia nei testi a stampa (551 risultati per algocrazia nelle pagine in italiano di Google Libri, 8 r. per alcocratico nelle varie flessioni, 232 r. per algocracy).

Il dibattito attorno all’applicazione massiccia degli algoritmi nella società è piuttosto acceso. Da una parte c’è chi ne evidenzia le potenzialità e le opportunità. In un’intervista, Alessandro Curioni, vicepresidente di IBM Europe e direttore dell’IBM Research Zurich Lab, afferma che il potere degli algoritmi “sta nella loro capacità di aiutare l’uomo a risolvere problemi (quello della ricerca medico-scientifica è solo uno degli innumerevoli esempi pratici) perché permettono di arrivare a soluzioni più oggettive e più efficienti in tempi minori […]. Non utilizzare gli algoritmi e le tecnologie cognitive e di intelligenza artificiale per vari timori (disoccupazione di massa, cybercrime, influenze economiche e sociali, ecc., che vanno innegabilmente presi in considerazione) sarebbe un grave errore”. Dall’altra, c’è chi si preoccupa di come gli algoritmi possano influenzare la politica, la società, la libertà e i diritti degli esseri umani. John Danaher, un ricercatore irlandese, parla di threat of algocracy ‘minaccia dell’algocrazia’, definendo l’algocrazia come “l’uso del data mining, delle analitiche predittive e descrittive atte a costringere e a controllare il comportamento umano” (Algocracy as Hypernudging: A New Way to Understand the Threat of Algocracy, 2017; trad. mia); egli sostiene che la governance algoritmica rappresenta una minaccia per l’ordine democratico in quanto nega il libero arbitrio degli esseri umani.

Possibilisti o pessimisti che siano, tutti sono d’accordo sul fatto che sia necessario fornire delle regole in grado di definire i confini tecnologici, culturali ed etici di questa applicazione. A questo proposito, Francesco Benanti, frate francescano del Terzo Ordine Regolare e docente di Teologia morale e Bioetica alla Pontificia Università Gregoriana, parla di algoretica, lo studio dei problemi e dei risvolti etici connessi all’applicazione degli algoritmi.

Tra le questioni etiche emerge, ad esempio, la mancanza di consapevolezza da parte dell’utente rispetto al trattamento dei dati personali. Un altro problema riguarda la trasparenza degli algoritmi: “ci dobbiamo chiedere se algoritmi che regolano questioni chiave come l’amministrazione della giustizia possano essere resi invisibili perché protetti da dinamiche di proprietà intellettuale e copyright sottraendoli di fatto alla trasparenza e al controllo delle diverse componenti della società civile” (Paolo Benanti, Oracoli. Tra algoretica e algocrazia, Roma, Luca Sossella editore, 2018). Un’ulteriore riflessione va fatta circa la responsabilità che deriva dall’applicazione delle tecnologie: in caso di errori, abusi o danni, chi è responsabile per le azioni compiute dalle macchine?

“Se le macchine riescono a surrogare l’uomo in tante decisioni, dobbiamo chiederci con quali criteri può avvenire questa surrogazione. In altre parole, se la macchina commette un errore chi è responsabile? L’etica diventa il guard rail che ci permette di vivere in modo più sicuro con queste macchine sapienti. L’etica, però, è una questione di valori difficili da comunicare alle macchine, che funzionano sulla base di numeri. E allora bisogna mettere insieme algoritmi ed etica. Da qui nasce un nuovo termine, l’algoretica, la nuova disciplina che vorrebbe rendere le macchine capaci di computare principi tipicamente umani. Un percorso che coinvolge più discipline: non bastano più filosofia, tecnologia, informatica, serve la contaminazione” (Emanuele Coen, Al futuro serve l’algoretica. Colloquio con Paolo Benanti, L’Espresso, 23/2/2020, p. 77).

La nascita del sostantivo algoretica – per una volta, tutta italiana – è piuttosto recente e risale al 2018, con la pubblicazione del libro di Benanti Oracoli. Tra algoretica e algocrazia. Questa la prima occorrenza nel testo:

Le implicazioni sociali ed etiche delle AI e degli algoritmi rendono necessaria tanto un [sic] algor-etica quanto una governance di queste invisibili strutture che regolano sempre più il nostro mondo per evitare forme disumane di quella che potremmo definire una algo-crazia.

Si tratta di una parola macedonia, formata da algor, abbreviazione di algoritmo, ed etica ‘complesso delle norme morali e di comportamento pubblico e privato proprie di un individuo o di un gruppo’, sulla base delle già esistenti bioetica, roboetica e tecnoetica. A differenza di algocrazia, nella forma coniata da Benanti (che presenta tra i due elementi il trattino, inserito peraltro anche in algo-crazia) si evidenzia l’appartenenza del primo elemento alla voce algoritmo (algor), probabilmente per evitare fraintendimenti con la forma algo, che (Sermonti docet) potrebbe far intendere *algoetica come “etica del dolore” o per ragioni fonetiche (per evitare la formazione di uno iato, presente però nelle citate bioetica, roboetica e tecnoetica). Certo, però, si crea una dissimmetria rispetto ad algocrazia.

Così come algocrazia, anche algoretica non è registrato dai dizionari e risulta ancora poco presente in rete, con 3.780 risultati per il sostantivo nelle pagine in italiano di Google (al 5 luglio 2020), 3.640 risultati per la variante algor-etica e soltanto 12 risultati per l’aggettivo algoretico (nelle varie flessioni). Anche nei testi a stampa le attestazioni sono scarse, con soli 307 risultati nelle pagine in italiano di Google Libri; l’aggettivo risulta invece del tutto assente.

Per quanto riguarda i quotidiani nazionali esaminati, troviamo una sola occorrenza del termine sul “Corriere della Sera” e una sulla “Repubblica” (entrambe nella forma originaria algor-etica) e 4 occorrenze sulla “Stampa”. La prima occorrenza è del 2019, in un articolo scritto proprio da Benanti su “7”, il settimanale del “Corriere della Sera”:

In sostanza, abbiamo bisogno di poter indicare i valori etici attraverso i valori numerici che nutrono l’algoritmo. L’etica ha bisogno di contaminare l’informatica. Abbiamo bisogno di un’algor-etica, ovvero di un modo che renda computabili le valutazioni di bene e di male. Solo in questo modo potremo creare macchine che possono farsi strumenti di umanizzazione del mondo. Dobbiamo codificare principi e norme etiche in un linguaggio comprensibile e utilizzabile dalle macchine. Perché quella delle AI sia una rivoluzione che porta a un autentico sviluppo, è tempo di pensare un’algor-etica. (Paolo Benanti, Intelligenza artificiale: è tempo di pensare a un’etica degli algoritmi, “7”, “Corriere della Sera”, 25/10/2019)

Gli altri articoli risalgono a febbraio 2020 e sono dedicati al workshop tenuto a Roma sul tema dell’intelligenza artificiale. Durante l’evento, la Pontificia Accademia per la Vita, ente del Vaticano presieduto da mons. Vincenzo Paglia, ha promosso la firma di un documento che chiede alle aziende informatiche un impegno etico nel campo dell’intelligenza artificiale. Il documento, chiamato «Rome Call», è stato firmato da Brad Smith, Presidente di Microsoft, da John Kelly III, vice-presidente di IBM, da Dongyu Qu, direttore generale della FAO e dal Ministro Paola Pisano per il Governo italiano.

È "una Call – spiega mons. Paglia – una chiamata all’impegno in campo etico perché senza una prospettiva umanistica ed etica le nuove tecnologie possono introdurre cambiamenti così radicali da mettere in forse la stessa dimensione umana". Ma perché il Vaticano si occupa di Intelligenza Artificiale? Mons. Paglia non ha dubbi in proposito. «Abbiamo sentito l’obbligo di entrare in questo contesto, salire su questa macchina che sta muovendo non solo più i primi passi ma è già in una prospettiva di forte avanzamento. Il progresso della tecnologia è molto più veloce di quello della politica, dell’economia, dell’etica e della dimensione umanistica, dunque è necessario un dialogo responsabile all’interno di queste nuove frontiere». Frontiere che incidono in maniera profonda sull’umano e richiedono anche una «algor-etica», per evitare che attraverso la tecnologia si riproducano discriminazioni contro gruppi sociali o intere popolazioni. (L’Intelligenza Artificiale? Riguarda tutti noi, “la Repubblica”, 15/2/2020)

Con tali premesse, siamo sicuri che sentiremo ancora parlare di algocrazia e, probabilmente, anche di algoretica.

Cita come:
Lucia Francalanci, Dall’algocrazia all’algoretica: il potere degli algoritmi, “Italiano digitale”, XIV, 2020/3 (luglio-settembre), pp. .

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