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SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

Farcia, farcitura e ripieno: sempre un impasto è

Miriam Di Carlo

PUBBLICATO IL 11 febbraio 2022

Quesito:

Molti lettori ci chiedono delucidazioni circa il sostantivo farcia, usato nel lessico della gastronomia al posto di farcitura.

Farcia, farcitura e ripieno: sempre un impasto è

Si sa, in Italia la cucina è fondamentale e ultimamente, grazie alle numerose trasmissioni televisive dedicate al cibo, il lessico della gastronomia, seppur a volte altamente tecnico, ha finito per entrare in tutte le case degli italiani estendendo il suo uso oltre l’ambito prettamente specialistico. Molti sono i dubbi degli italiani circa le parole usate dai cuochi e dai pasticcieri in televisione; oggi parleremo di una parola che, come molte altre, è uscita dall’ambito specialistico della gastronomia ed è diventata di uso comune: farcia.

Cominciamo da alcune considerazioni di carattere fonomorfologico: la parola farcia ha l’accento sulla prima sillaba e dunque si legge fàrcia non farcìa. Il suo plurale è farce e non farcie (sui plurali delle parole in -cia e e -gia si leggano le due schede di Consulenza sull’argomento, qui e qui).

La storia della parola risulta più complessa di quella che viene descritta nei dizionari etimologici, i quali riconducono la voce al francese farce, a sua volta dal latino volgare *farsa derivato del participio passato del verbo latino farcīre ‘riempire, cacciar dentro’ (sull’uso di farcire per indicare l’azione di condimento della pizza, si veda la risposta di Vignuzzi e Bertini Malgarini). Il GDLI riporta come variante di farcia la forma farsa con cui si indicava in un primo momento ‘carne trita usata come ripieno’ e poi impiegata nel senso di ‘commedia’, “perché inserita come intermezzo in una rappresentazione sacra” (GRADIT). Come vedremo, le prime attestazioni di farsa (variante di farcia) con il significato di ‘ripieno’ vengono fatte risalire alla metà del XVIII secolo ma bisogna considerare anche altri aspetti etimologici che coinvolgono verbi e sostantivi che possono essere ricondotti a farcia.

Anzitutto, il latino aveva il verbo farcīre con il significato di ‘riempire’ e i dizionari etimologici riconducono al participio passato ricostruito di questo verbo, *farsa, il francese farce da cui poi l’italiano farcia. Nell’italiano delle origini troviamo rinfarciare, usato da Dante nel canto XXX dell’Inferno: nella X Bolgia dell’VIII cerchio Dante assiste all’alterco tra Sinone e Mastro Adamo, il quale pronuncia queste parole: “[...] ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,// tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole”, ossia che se lui stesso ha sete ed è imbottito di umore, Sinone ha sete e ha male alla testa. Il ventre “rinfarciato” d’acqua è la punizione che spetta ai falsari di monete tra cui anche Mastro Adamo. Il verbo rinfarciare è registrato a partire dalla I edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca in cui gli viene accostato il verbo latino refercire che significa ‘riempire, colmare, rimpinzare’. Riguardo all’etimologia di rinfarciare, i pareri sono discordanti visto che il TLIO riporta come base etimologica il verbo latino tardo infarcīre, mentre Luisa Ferretti Cuomo nel suo intervento sulle parole di Dante afferma: “Non siamo riusciti a ritrovare alcuna altra documentazione di questo rinfarciare, chiaramente composto sul francese farcir, se non su un già esistente italiano farcia, dal parallelo francese farce” (Luisa Ferretti Cuomo, Parole di Dante: testo, intertesto e contesto, in Emanuela Cresti (a cura di), Prospettive nello studio del lessico italiano. Atti del IX Congresso SILFI (Firenze, 14-17 giugno 2006), Firenze, Firenze University Press, 2008, pp. 203-11, p. 209). Nel Fiore è presente anche il participio con sibilante farsito che secondo Uguccione da Siena proverrebbe da un verbo latino volgare ricostruito *farsio, -sis, -sivi, -situm, -sire.

Infine il verbo infarcire viene registrato a partire dalla V edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca con il significato di “metter dentro a fine di empire soverchiamente e più spesso senza ordine o regola, alla rinfusa; anche figurata” e ricondotto al latino infarcire.

In definitiva possiamo affermare che in latino esisteva il verbo farcīre (da cui sono derivati i verbi italiani farcire e infarcire e il verbo francese farcir) il cui participio passato è diventato in latino volgare *farsitum (con sibilante), base per un nuovo verbo volgare *farsire/falsire. Da *farsire/falsire probabilmente deriverebbero farsa/falsa considerate dal GDLI come varianti di farcia e che hanno il significato di ‘ripieno’.

Per quanto riguarda gli altri sostantivi ricollegabili a farcia, a partire dalla II edizione nel Vocabolario degli Accademici della Crusca viene registrata la voce farsata come “la parte da piè del farsetto, cucita con esso ’l busto”. Nella V edizione la definizione viene cambiata in “Imbottitura in forma di guancialetto, della quale si fodera l’elmo o altra armatura della testa, per minor disagio di chi la portava”. L’etimologia risulta un po’ criptica: “dall’antiquato farsa, ripieno”. Il sostantivo comunque porta con sé il significato di ‘ripieno’ come farcia. Inoltre in italiano esiste farcime, parola di ambito letterario usata per indicare il ‘ripieno per farcire’ registrata nel GDLI come voce dotta dal latino farcimen, -inis la cui prima attestazione risale al XIX secolo negli Scritti storici e geografici di Carlo Cattaneo:

Tutto quel farcime di gloriosi aggettivi e d’avverbi, coi quali gli scrittori di questa rivoluzione ambirono piuttosto mostrarsi contemporanei di Giolitti, che posteri di Macchiavello. (Carlo Cattaneo, Scritti storici e geografici, a cura di Gaetano Salvemini ed Ernesto Sestan, Firenze, Le Monnier, 1957, 2 vol., p. 125)

Sicuramente più recente rispetto ai nomi appena trattati è farcitura, attestato a partire dal XX secolo, derivato da farcire, che indica anche l’operazione stessa di farcire.

Confrontando dunque tutte queste voci e le loro prime attestazioni possiamo dire che la parola farcia non può essere solo ed esclusivamente una derivazione dal francese. Di certo questa ricostruzione deve essere presa in considerazione ma va anche valutato il fatto che la base etimologica è il verbo latino farcīre e poi la voce tarda farsīre, da cui il sostantivo farsa. Un possibile trafila etimologica sarebbe quella per cui la parola farsa (che è più antica in italiano) sia passata a farcia per “familiarità” con altre voci italiane con significati affini e che presentano la -ci- etimologica come farcime e i verbi farcire e infarcire. Il francese ha senz’altro contribuito a diffondere la parola: infatti le prime occorrenze di farsa/farcia con il significato di ‘ripieno’ usato in ambito gastronomico appartengono alle aree piemontese e napoletana, le cui storie culinarie si intersecano con quella francese.

Vediamo nel dettaglio le prime attestazioni: secondo il GRADIT la parola dovrebbe essere entrata in italiano nella metà dell’Ottocento (per la precisione 1859) mentre il GDLI riporta come prime occorrenze una da Il Cuoco Piemontese (la cui prima edizione risale al 1766) e una da Il cuoco galante di Vincenzo Corrado edito a Napoli nel 1773. Questa difformità di date tra i due dizionari è riconducibile al fatto che il GDLI prende in considerazione anche la variante farsa mentre il GRADIT no:

Pelate, ed abbrustolite due pollastri, votateli, tagliate i fegati, e mischiateli con un pezzo di butirro, un quarto di serpentaria tagliato, sale, e pepe rotto; mettete questa piccola farsa nel corpo de’ pollastri. (Il Cuoco Piemontese a Parigi, in Arte della cucina, a cura di Emilio Faccioli, Milano, Il Polifilo, 1966, vol. II, p. 266)

Riempire con ottima farsa di vitello, animelle, erbette trite, presciutto, tartufo in fette, prugnoli, gialli d’uova e spezie. (Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, ivi, p. 278)

La variante falsa compare a metà Ottocento nel Nuovo cuoco milanese economico di Luraschi:

Fate una falsa di fegato, distendetene un poco sopra ogni fetta di pane francese che sia indorato con uovo sbattuto. (Giovan Felice Luraschi, Nuovo cuoco milanese economico, ivi, p. 335)

Mentre finalmente incontriamo farcia sempre a metà Ottocento nell’opera di Vialardi:

Fate una farcia con quattro ettogrammi di carne...più due ettogrammi di lardo, un po’ d’aglio e prezzemolo; tritate e pestate bene il tutto, unitevi due uova intiere, un po’ di sale, pepe, spezie, due cucchiai di rhum e quanto un uovo di mollica di pane inzuppata nel fior di latte, mischiate tutto bene e mettetelo entro la spalla che avete asciugata. (Giovanni Vialardi, Trattato di cucina pasticcera, ivi, p. 363)

Confrontando queste prime occorrenze con quelle ottenute consultando la banca dati del VoDIM (Vocabolario dinamico dell’Italiano Moderno), i primi ricettari che presentano la parola farcia (e varianti) si riferiscono a un tipo di ripieno salato, per lo più composto da una parte di origine animale (di solito carne ma non manca anche il pesce) arricchita da spezie o aromi e amalgamata con una sostanza addensante o agglomerante come può essere il pan grattato o l’uovo:

Filetti di vitello farciti all’italiana. Ingredienti: fesa o lombata, uovo, pane. Colla fesa, la parte tenera della coscia, oppure colla lombata del vitello fate tanti filettini della grossezza d’un soldo; mettete fra l’uno e l’altro un cucchiaino di farcia: dategli bella forma, passate all’uovo e al pane e cuocete. (Prof. Leyrer, La regina delle cuoche, Milano, Manini, 1882, p. 49)

Ad una lepre levata la pelle e gl’intestini 1) si distaccano dalla schiena le spalle, il collo, il petto e si mozzano le coste lungo la carne costale. Il fegato, il cuore ed i polmoni si possono adoperare insieme al davanti della lepre per cuocerli in salsa bruna o per farne una farcia. (Katharina Prato, Manuale di cucina, Graz, Styria, 1902, p. 303)

La farcia altro non è che una amalgama di carne o pesce che corretta e legata con uova, burro, aromi ecc. viene a dare origine a un composto capace di rapprendersi così per la azione del bagnomaria o dell’acqua bollente come per quella del forno. [...] Farcia di pollo. Prendiamo come base una farcia di pollo. Le proporzioni sono le seguenti. Carne di pollo o gallina o tacchino gr. 250, panata gr. 175, burro gr. 125, rossi d’uovo 4, sale gr. 6, un buon pizzico di pepe bianco e un nonnulla di noce moscata grattata. (Ada Boni, Il talismano della felicità, Roma, Preziosa, 1927, pp. 26-7)

Ancora oggi la parola farcia viene prevalentemente usata per indicare una preparazione salata, ma non mancano occorrenze in cui si riferisce ad un impasto dolce usato come ripieno per farcire torte, crostate, bignè ecc. Nel sito dell’Accademia Barilla ad esempio, le 4 occorrenze di farcia si riferiscono a tipi di ripieno salati (farcia di pesce, di pollo, di carne mista). Sulla “Repubblica”, delle 278 occorrenze di farcia, soltanto 25 circa indicano una preparazione dolce. La prima attestazione di farcia usata per un ripieno dolce risale al 1996, ma la maggior parte delle occorrenze si concentra negli ultimi 4 anni (dal 2018 al 2021):

Avete della pasta frolla avanzata e volete realizzare delle golose crostatine? Cuocete la pasta usando degli stampini monoporzione e per la farcia usate una crema facile veloce e dolcissima. Il successo è garantito. (Maria Grazia Morrone, Crema di latte: Twins kitchen suggerisce una farcitura leggera e golosa pronta in pochi minuti, video.repubblica.it, 24/1/2019)

La Namelaka al cioccolato – al latte in questo caso – è una preparazione base perfetta per l’utilizzo in pasticceria e decisamente trasversale, in quanto a seconda della consistenza che si decide di darle, può essere utilizzata o come farcia per le torte, oppure come decorazione. (Lara De Luna, Namelaka al cioccolato al latte: tutti i trucchi per non sbagliare, repubblica.it, 13/10/2020)

Anche per quanto riguarda le preparazioni salate si nota una certa evoluzione del significato, che rispecchia lo sviluppo della cucina italiana: se all’inizio del XX secolo si usava farcia prevalentemente per indicare un ripieno di carne da inserire all’interno di un altro taglio di carne (si pensi ad esempio a una faraona ripiena), oggi la parola farcia viene impiegata soprattutto per indicare il ripieno (spesso anche vegetariano) di paste come tortellini, ravioli e simili.

Infine è interessante fare un confronto con i sinonimi di farcia: farcitura (a cui abbiamo già accennato sopra) e ripieno, termine, questo, preferito da Anzitutto Pellegrino Artusi, che nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene non usa mai farcia. Considerando che ripieno ha alcuni significati in più rispetto a farcia e farcitura (è anche aggettivo) e che farcitura indica anche, come si è detto, l’operazione di farcire, non sorprende che le occorrenze di questi due termini siano, nelle pagine in italiano di Google, nettamente superiori in numero a quelle di farcia: 5.850.000 per “ripieno”; 1.030.000 per “farcitura” e 272.000 per “farcia”. I risultati della ricerca sul quotidiano “la Repubblica” rispecchiano la stessa situazione: 278 attestazioni per “farcia”; 331 per “farcitura” e 3.158 per “ripieno”. Nonostante i dati numerici facciano pensare a un uso minoritario di farcia sulle parole concorrenti, sembrerebbe che all’interno delle indicazioni per le preparazioni gastronomiche prevalga ormai farcia. Tale prevalenza si deve probabilmente al fatto che il verbo usato per indicare l’azione sia farcire e che tra i sostantivi di riferimento, farcitura e farcia, il secondo sia, oltre che più breve e immediato, anche più specialistico e quindi preferenziale. Non solo: la diffusione di farcia si deve probabilmente anche alla prevalenza d’uso all’interno delle trasmissioni televisive; il ripieno o la farcitura si usava già prima dell’avvento della televisione, in ogni cucina italiana. Usare la parola farcia, oggi, sembrerebbe quasi una moda, destinata forse ad imporsi.

In definitiva, non è sbagliato usare la parola farcia ma non è neanche detto che si debba preferire a ripieno e farcitura: il contesto d’uso e il proprio gusto personale nel selezionare le parole guiderà ogni singolo parlante a scegliere il termine da prediligere nelle diverse occasioni.


Cita come:
Miriam Di Carlo, Farcia, farcitura e ripieno: sempre un impasto è, “Italiano digitale”, XX, 2022/1 (gennaio-marzo), pp. .

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