Consulenze linguistiche

Escapismo, escapista: una fuga tra le parole

  • Simona Cresti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2021.5447

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Quesito:

Un nostro lettore ci chiede chiarimenti sul significato e l’uso della parola escapismo: “nello specifico se in italiano è possibile formare l’aggettivo denominale (escapista)” e che tipo di relazione intercorre “tra il termine italiano e la versione inglese escapism, escapist”.

Escapismo, escapista: una fuga tra le parole

La prima edizione dello Zingarelli che registra il sostantivo escapismo è l’XI (edita nel 1983) con la definizione: “Il complesso di ciò che si riferisce all’evasione intesa in senso psicologico, cioè alla fuga dai problemi della realtà”. Qualche anno più tardi (1987) la parola compare anche nel Grande dizionario Garzanti della lingua italiana, dove il suo significato si fa forse più chiaro: si definisce escapismo la “tendenza a evadere da situazioni o problemi sgradevoli rifugiandosi nell’immaginazione, nel disimpegno, nel divertimento” e “ogni comportamento improntato a tale tendenza”. Precedentemente, escapismo era stato messo a lemma soltanto nel repertorio di Luciano Satta Il millevoci: le parole e le accezioni che non tutti conoscono (Firenze, G. D’Anna, 1974) e definito “ciò che si riferisce all’evasione in senso psicologico, come fuga dai problemi della realtà”.

A partire dal 1990 escapismo compare regolarmente nei vocabolari italiani: è presente nel Devoto-Oli 1990, nel Palazzi-Folena 1991, nel DISC 1997 (e dunque nelle edizioni del Sabatini-Coletti del 2003 e 2008), in tutte le edizioni dello Zingarelli successive alla citata, nel GRADIT (1999), nel Supplemento al GDLI del 2004.

GRADIT 1999 e GDLI lemmatizzano anche, rispettivamente, l’aggettivo escapistico ‘caratterizzato da escapismo’, che si dice preferibilmente di oggetti e atteggiamenti, e il sostantivo e aggettivo escapista ‘persona che sfugge di fronte alla realtà, per lo più rifugiandosi nel divertimento e nell’immaginazione’. Anche il supplemento 2007 del GRADIT aggiunge escapista. Non c’è traccia delle parole sui dizionari etimologici DELI e l’Etimologico.

Possiamo pertanto rispondere subito a una delle domande poste dal nostro lettore: escapista compare a lemma nei dizionari, e questo è importante perché è segnale del fatto che non solo è una parola possibile nella nostra lingua (come escapistico, correttamente formata sul modello di molte altre parole italiane) ma anche effettivamente “viva”, ossia usata dai parlanti (o per lo meno da una parte di essi), in modo significativo e per un periodo sufficiente ad aver richiamato l’attenzione dei lessicografi. D’altra parte, la presenza lessicografica di escapista, come quella delle altre parole che analizziamo, non sembra perfettamente solida. Ad oggi escapista è registrata soltanto da due dizionari, di cui uno storico-letterario; escapismo è marcata dal GRADIT come BU (basso uso) e supportata da pochi esempi d’impiego (solo il GDLI ne riporta un’attestazione); di escapistico attesta la vitalità soltanto il GRADIT.

Inoltre, da una semplice ricerca sulle pagine italiane di Google emergono risultati che descrivono un uso consolidato, ma non certo massiccio dei termini: abbiamo infatti 93.000 occorrenze di escapismo e 50.800 di escapista (escapistico compare addirittura soltanto 352 volte [dati aggiornati al luglio 2020]). Il fatto che i termini siano oggetto di curiosità non sorprende, dunque.

Rispondiamo anche al secondo dubbio, quello riguardante il rapporto con l’inglese. Unanime, la lessicografia riconosce proprio nei corrispettivi d’oltremanica l’origine delle parole che trattiamo: escapismo ed escapista arrivano all’italiano come adattamenti di escapism ed escapist, a loro volta formati a partire dal verbo (to) escape ‘scappare’. Escapistico, invece, si forma come aggettivo denominale dall’italiano escapismo, grazie alla sostituzione del suffisso. In inglese, i termini sono documentati fin dagli anni ’30. Per la precisione, lOxford English Dictionary (OED) fa risalire la prima occorrenza di escapism al 1933, rintracciandola in un volume dell’Encyclopaedia of the Social Sciences (Macmillian Publishers, 1927-1930-1967: 1933) nel quale si descrive come “un esempio di escapismo” (“an example of escapism”) la produzione poetica di Anacreonte di Teo alla corte di Policrate di Samo. Le attestazioni successive per lo più provengono, come la prima, dal campo degli scritti di critica (letteraria, artistica, di costume). In questi contesti si tacciano di “escapism” movimenti artistici, varie forme di letteratura, in un caso la religione, come se il termine fosse un’etichetta di biasimo. Da qui la definizione dell’OED: escapism è la ‘tendenza a cercare distrazione da ciò che andrebbe, invece, sopportato’ (“The tendency to seek, or the practice of seeking, distraction from what normally has to be endured”).

Appare più articolato, sullo stesso dizionario, il significato di escapist, che indica ‘chi fugge da una situazione generalmente difficile da sostenere’: principalmente da una condizione di vera e propria prigionia (“one who escapes, or who tries to escape, from captivity, prison, etc.”) e, per estensione, da una prigionia “metaforica” come quella imposta da situazioni noiose, difficili, drammatiche. Documentata fin dagli anni ’30 e dunque contemporanea a escapism, escapist compare anche in testi di cronaca dove descrive, appunto, evasori, fuggitivi, persone intente a sottrarsi alla giustizia, più che agli impegni del quotidiano.

Torniamo all’italiano. Nessuna delle tre parole è un neologismo recente: in Palazzi-Folena 1992 troviamo escapismo datato 1980, indicazione a cui fanno seguito quasi tutti gli altri dizionari consultati. Lo Zingarelli a partire dall’edizione 2002 riporta la data del 1986, evidentemente in contraddizione con il fatto di aver iniziato a registrare la parola a partire dal 1983, come dicevamo sopra: ci troviamo probabilmente di fronte a un refuso, che in ogni caso fornisce un’informazione che non si discosta di molto da quella degli altri dizionari dell’uso.

Secondo il GDLI, escapista si usa però in italiano da più tempo: per la precisione, almeno dal 1954, quando compare, ancora fra titubanti virgolette, in un intervento di Eugenio Montale sul “Corriere della Sera”. Scrive il poeta, allineandosi alla condanna anglosassone nei confronti del disimpegno artistico, che «[…] la cultura e il mito debbono essere considerati come fonti di archetipi, non come ‘miniere esotiche da esplorare’; e nessuna indulgenza deve essere concessa agli “escapisti”: chi sfugge alla vita sfugge all’arte» (Eugenio Montale, Lo spirito de nostro tempo, “Corriere d’informazione”, in “Corriere della Sera”, lun-mart 18-19/1/1954, p. 1; ora in Id., Scritti sull’arte, in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano 1996, p. 1416).

La grande distanza temporale che intercorre tra le ipotesi di datazione di due parole così vicine ci induce a fare qualche ricerca ulteriore. Effettivamente, grazie all’archivio storico della “Stampa”, riusciamo a retrodatare escapismo rispetto alle indicazioni fornite dai dizionari, poiché lo troviamo in un articolo del 1947. L’autore è, non a caso, esposto all’influenza dell’inglese: si tratta di Carlo Maria Franzero, scrittore e giornalista torinese emigrato a Londra agli inizi della Seconda Guerra Mondiale.

Londra, dicembre. Il mio editore mi diceva ieri che in questi ultimi mesi le vendite dei romanzi sono considerevolmente diminuite. Le cause? La prima, che se ne pubblicano troppi. La seconda è che la letteratura degli anni della guerra non aveva prodotto grandi opere. Nessun grande romanzo, o poema, o dramma. Nonpertanto gli editori dicono che, negli ultimi anni della guerra, il pubblico si era stancato dei libri sulla guerra. Una forma di escapismo? In certa misura, sì. (Carlo Maria Franzero, Che cosa leggono gli inglesi. Il romanzo è in declino, “La Nuova Stampa”, 2/1/1947, p. 1)

Escapismo ed escapista, dunque, circolano in italiano almeno fin dagli anni ’40/’50. Tuttavia il loro ingresso nella lessicografia è avvenuto (quando è avvenuto) con relativo ritardo (come si è visto, solo negli anni ’70/’80). La ricerca negli archivi online dei maggiori quotidiani italiani può aiutarci nell’interpretazione di questo dato. Qui, la presenza dei nostri termini appare limitata. Per escapismo si contano 19 occorrenze sulla “Stampa” (i dati sono ottenuti sommando i risultati della ricerca su due archivi, quello storico [1867-2003] e quello moderno [2003-2020]), 23 sulla “Repubblica” (che copre gli anni dal 1984 al 2020), 20 sul “Corriere della Sera” (1876-2020); per escapista le occorrenze si riducono rispettivamente nei quotidiani citati a 8, 0 e 23; per escapisti 2, 0 e 8. Molti degli articoli in cui i nostri termini compaiono sono, come in inglese, contributi critici di forte impegno intellettuale che parlano perlopiù di arte e letteratura: escapismo ed escapista, pur non essendo tecnicismi in senso stretto, appartengono allo “strato colto” del lessico, per questo la loro circolazione è limitata e indeciso e lento è il loro affermarsi nella lessicografia. Entrambe le voci si configurano come internazionalismi: oltre ai corrispondenti inglesi che abbiamo già citato, troviamo le coppie escapismo/escapista in spagnolo; escapisme/escapiste in francese; Eskapismus/Eskapist, Eskapistin (e anche l’aggettivo eskapistisch) in tedesco.

Indagando ancora sulla ristretta diffusione dei nostri termini, appare eloquente un intervento di Bruno Migliorini che nel 1962 dedica una breve riflessione a escapismo, allora nella fase incipiente, nella sua rubrica sul “Corriere della Sera”.

Escapismo. “L’escapismo prezioso e classicheggiante”, leggo in un recente articolo di rotocalco. E non saprei davvero raccomandare ai lettori d’accettare la parola. Ai significati tradizionali della voce inglese escape (leggi ischéip), quelli di “fuga, evasione”, si è di recente aggiunto quello psicologico o addirittura psichiatrico di “fuga dalla realtà, dalle sue difficoltà e dai suoi problemi, ottenuta con forti emozioni, con l’ubriachezza o addirittura gli stupefacenti”. E quelli che vorrebbero prescrivere agli altri una vita continuamente impegnata, biasimano i film di escape, cioè di evasione. Così all’escapism, riferito agli specialisti delle fughe dalla prigione, si è aggiunto l’escapism psicologico. Ma non c’è alcuna ragione di adattare la parola inglese, facendone un escapismo, analizzabile solo a chi conosce quell’uso straniero: si può dire, se si vuole, evasionismo ed evasionista. (Bruno Migliorini, Vocabolario, in “Corriere della Sera”, 6/7/1962, p. 3)

Le perplessità sono ribadite in Parole nuove (Milano, Hoepli, 1963, p. 107), dove lo stesso autore registra la forma non adattata escapist corredandola dell’indicazione di pronuncia iskéipist e della nota: “Si evitino gli orribili adattamenti in escapista, escapismo, e si dica, se mai, evasionista, evasionismo”.

Negli anni ’60 i nostri termini appaiono, al linguista attento al mutare della lingua, forestierismi opachi e in teoria sostituibili, considerate le possibilità dell’italiano in cui lo spazio semantico della base escape è tranquillamente coperto da parole come evasione e fuga: e infatti si dice di una certa produzione artistica che è d’evasione per contraddistinguerla da quella impegnata.

Tuttavia le alternative suggerite da Migliorini non hanno avuto troppa fortuna. Gli unici dizionari in cui evasionismo compare sono il GRADIT e il GDLI (che cita appunto Migliorini tra le fonti, pur non avendolo citato per escapismo), in cui è definito, rispettivamente, ‘radicata tendenza all’evasione dalla realtà’ e ‘condizione di chi è specializzato in fughe, in evasioni o di chi è solito sottrarsi alla realtà per tuffarsi nelle fantasticherie’. Solo Il GDLI registra anche evasionista ‘chi è specializzato in fughe, in evasioni. Al. figur. Chi è abituato a vivere in un mondo irreale’.

Evasionismo ed evasionista hanno una frequenza molto bassa: sulle pagine in italiano di Google evasionismo compare 555 volte ed evasionista 843. Delle poche centinaia di occorrenze delle due parole su Google libri, gran parte appartengono a pubblicazioni di decenni precedenti al 2000: una, addirittura, al 1956, nel Diario notturno di Flaiano.

I proverbi gli hanno insegnato che l’audacia è superflua, quando non è esclusivamente retorica. E il sole, il bel sole del suo paese che tanto piace ai turisti, gli ha impedito di credere a ciò che non può essere provato, fatta eccezione per i miracoli e le statistiche. Il suo concetto preferito è la povertà del paese: “I pezzenti sono poveri”, questa è la sua massima. Si tratta in verità di un paese pieno di montagne e di abitanti, di fiumi asciutti e di brevi pianure, con un sottosuolo inadeguato, sordo ad ogni trivellamento. Non è più nemmeno il giardino del mondo, come una volta. Nell’antico mare quella penisola era un trampolino verso altre terre, altri continenti; oggi è un corridoio senza uscita: arrivati in fondo bisogna tornare indietro. Perciò Qualsiasi soffre di evasionismo. (Ennio Flaiano, Diario notturno, Milano, Bompiani, 1956).

Migliorini, dunque, propone di adottare un’alternativa già attestata in italiano. Lo studioso inoltre riflette sulla non perfetta corrispondenza semantica delle nostre parole e dei loro corrispettivi inglesi: come si è visto, nessuno dei dizionari italiani che registrano escapista riporta, come invece fa l’OED per escapist, sia il significato letterale sia quello esteso della parola. Nella lessicografia italiana escapismo ed escapista entrano solo nel loro senso “esteso”, ossia per indicare l’evasione nella fantasia. E infatti oggi sarebbe poco appropriato definire escapista chi fugge dalla prigione, se non con l’intento di colorire l’espressione di particolari sfumature (per esempio, ironiche): evasore o fuggitivo appaiono scelte più immediate e preferibili. Il riferimento letterale alla fuga compare soltanto nella definizione del GDLI di evasionismo ed evasionista, la cui base evasione, non a caso, è più trasparente per i parlanti italiani.
Quella che in inglese funziona come una normale estensione semantica non si trasmette integralmente all’italiano, anche perché nel nuovo contesto linguistico si assottiglia la percezione di cosa indichi la base escap- (che tuttavia gode della vicinanza fonetica e semantica con l’italiano scappare). Dall’altra parte, in italiano non si direbbe neppure evasore o fuggitivo di chi pratica escapismo, e, stando ai dati, pare molto poco diffuso anche evasionista. Inoltre, è doveroso notare come il mutamento delle competenze linguistiche dei parlanti italiani, in particolare il diffondersi di una maggiore dimestichezza con l’inglese, contribuisca a rendere, oggi, più trasparente la base di escapismo, e forse, dunque, più facile la sua scelta.

È curioso leggere, in un articolo di poco successivo rispetto a quello di Migliorini, come le perplessità su escapismo ed escapista si trasformino in vere e proprie condanne. Riportiamo di seguito l’estratto di un articolo giornalistico, ben diverso nei toni e nelle ragioni dall’intervento del linguista; come non di rado avviene anche oggi, la sentenza si basa, più che su considerazioni di carattere linguistico, su un’avversione più generale ai forestierismi (che Monelli aveva già espresso nel fortunato Barbaro dominio: seicentocinquanta esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua con antichi e nuovi argomenti, storia ed etimologia delle parole e aneddoti per svagare il lettore, edito nel 1933):

Ho indicato nell’articolo precedente alcuni caratteri del nuovo italiano: ve ne sono altri. La trascuratezza dell’ortografia e della grammatica e l’ignoranza del lessico non sono più prerogativa degli ignoranti; se ne hanno esempi sempre più abbondanti anche nella scrittura delle persone colte. […] In questi testi compaiono anche grotteschi prestiti dall’inglese. Lo spilungone dei dropouts dice che non sopporta più il silenzio e la solitudine e sogna di rientrare nella vita tumultuosa della città: e il grassottello gli grida: “escapista!” (è l’americano escapist, detto di chi vorrebbe evadere dal suo ambiente da una condizione di cose o da uno stato d’animo: “disertore”, “evasore”. (Paolo Monelli, I guerriglieri della grammatica, “Corriere della Sera”, 11/6/1970, p. 3)

Tuttavia, malgrado le incertezze iniziali, dagli anni ’60 in poi la presenza di escapismo e escapista su giornali e libri appare, per quanto esile, tenace e crescente. Con sempre maggiore naturalezza le parole compaiono in articoli in cui si parla di arte, letteratura e altre forme di narrazione (per esempio, il fotoromanzo), cinema, moda, musica, per migrare anche verso interventi dedicati alla politica, alla psicologia, al costume. Riportiamo alcuni passi: a partire da uno nel quale si definisce escapismo “ibrida parola di cui si fa uso sempre crescente”, per giungere a casi di un impiego più disinvolto, svincolato dal contesto artistico e dal giudizio etico. Significativamente a metà percorso, negli anni ’70, escapismo impreziosisce la già ricercata selezione lessicale di una poesia di Andrea Zanzotto:

“Ho l’impressione, o sbaglio, che la gente accetti con entusiasmo anche eccessivo l’idea della austerità? Nessuno sembra rendersi conto che risparmiare in certi campi è giusto, in altri no, perché si mettono in crisi sempre nuove industrie [...]” “Quanto lei dice è esattissimo. I nostri contemporanei provano oggi un desiderio di privazione, di rinuncia, di sacrificio, che si può facilmente confondere con la vigliaccheria e l’escapismo, ibrida parola di cui si fa uso sempre crescente”. (Irene Brin, Amici miei, aggiornatevi (rubrica “I dialoghi coi lettori”, “Corriere della Sera”, 12-13/06/1964)

Tuttavia il ricorso al mito – inteso quale tentativo di dimostrare mediante modelli esistenti l’esemplarità, e cioè la possibilità di comprendere e quindi di mutare ciò che appariva come una realtà individuale – non sembrava più possibile dopo il fascismo: il “mito” era occupato dall’ideologia di destra, il “mito” era nel migliore dei casi il dominio dei rappresentanti di un escapismo apolitico. (Walter Jens, Pavese e Gramsci, “Corriere letterario”, in “Corriere della Sera”, 4/03/1971, p. 12)

E tu t’inoltri per entro le città e schiacci
entri col piede, così apprendi a fondo, nel vivissimo.
Così – qui t’incoccio – vollero i duci
sui culmini dei lucri, così i seguaci.
“Proteine in quantità – per la Sua felicità,
mille vasi di Loyal – e di Kik e Ciacci e Pal;
pieno colmo vo’ che sia – ogni étage giardino o via
della kukka del mio Lassi – che a ciascun suggelli i passi,
vo’ che il cantico di Fido – nelle psichi faccia a nido;
proteine proteine – bilanciate, sopraffine” –
E nell’alba         quella del chiaro
e nella sera        quella d’oscuro
tu nel denso di Lassi metti i passi
incendiato di odore abbaiante vai vai
fin oltre, dove nel sordo            désir delle nebbie
nell’occhio del falò
splende la bimba di paraffina,
fin dove inchimichita si sgrana l’aura dei campi
fin sul molo ultimo               sull’ultimo alt
a cerca – vano escapismo – di nettarti la zampa,
non trovi, t’ingiri, in asfittiche ire t’inventri:
       ecco già la mossa nascosta
       una linea d’eoni e di dei”
        la muta una muta di anubi
        enciclopedizza chiosa accusa
                  verità e vanità
                  passioni e svenimenti

                  in minoranza infinitamente cadi/sei.
(Andrea Zanzotto, Proteine, proteine, in Pasque, Milano, Mondadori, 1973, p. 23)

Nelle società premoderne, in cui il concetto di classe non è elaborato, non c’è neppure il rivoluzionario. C’è semmai il ribelle. Ma di ribelli ce ne sono di ogni tipo. Se oggi con il termine escapista vogliamo definire qualcuno che di fronte ad un problema taglia la corda, o chi non si assume le responsabilità del conflitto, questo stesso termine, o uno simile, in altri tempi aveva un significato del tutto diverso. Lo definì Molière, mutando il nome in un personaggio. Scapino era un servo che se la dava a gambe. Con Molière la faccenda divenne più complessa. La maschera, umanizzandosi, organizzò meglio la fuga, ovvero la resistenza (al padrone). È in questo senso che in un’epoca postmoderna, in cui di nuovo la società classista non è più osservabile come fino a poco fa, l’accusa di qualunquismo e di moralismo sembra appartenere ad un vecchio repertorio. Moralismo e qualunquismo tornano ad avvicinarsi a escapismo, com’era prima che questo termine diventasse ingiurioso; prima, cioè, che fosse dimenticata la profonda essenza di Scapino, il personaggio di Molière. (Franco Cordelli, Onore a Scapino, qualunquista e gentiluomo, “Corriere della Sera”, 6/2/2002, p. 36)

Significativo, tuttavia, resta lo scrupolo del redattore del “Corriere”, che ancora nel 1996 sceglie di accompagnare a un escapismo pronunciato dal suo intervistato, Beniamino Andreatta, una nota in cui ne spiega il significato facendo ricorso a un dizionario:

Il dibattito istituzionale in corso mi sembra un po’ escapista (dizionario Le Monnier: escapismo, evasione dalla realtà, dall’inglese escapism, n.d.r.). (Intervista a Beniamino Andreatta, di Gianfranco Ballardin,“Lamberto bene, ma...”. Andreatta: il dibattito sulle riforme è surreale, “Corriere della Sera”, 21/1/1996, p. 3)

Man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni, le occorrenze di escapismo e derivati si fanno sempre più sintomatiche di una mutata percezione sia dei termini, sia della realtà che descrivono. Alle accorate accuse di escapismo degli anni ’50, ’60 e ’70 subentra un impiego più “distaccato”, in cui la parola diventa semplicemente un’etichetta storica che, per esempio, descrive la produzione culturale di epoche votate al disimpegno o bisognose di distrazione (gli anni ’80, il periodo successivo all’11 settembre), oppure la normale reazione psicologica di chi elabora un lutto o un fallimento, o la tendenza contemporanea a rifugiarsi nel mondo virtuale o nel gioco.

La reazione delle grandi major di fronte agli attacchi terroristici dell’11 settembre è stata segnata prevalentemente da pudore e autocensura […]. Non c’è stata riunione di execute hollywoodiani in cui non si sia suggerito di privilegiare l’escapismo sulla dolorosità del quotidiano […]. (Antonio Monta, La magnifica illusione: un viaggio nel cinema americano, Roma, Fazi editore, 2007, p. 145)

I testi, invece, sono tra i migliori scritti da Weller, a partire dal pop funk liricamente esaltante e in stile Stevie Wonder di Life at a Top Peoples Health Farm, ritratto caustico e impietoso dell’Inghilterra thatcheriana, a partire dall’arrivismo, la superficialità, l’escapismo degli anni ’80. (Antonio Bacciocchi, L’uomo cangiante: Paul Weller: The Modfather, Milano, Vololibero edizioni, 2015)

Quando una persona guarda filmati porno su internet invece che cercare relazioni sessuali gratificanti con un partner vero, sta mettendo in atto una forma di escapismo: preferisce l’esperienza virtuale, che non dà problemi, non richiede competenze relazionale ed emozionali, non prevede nessun impegno fisico o mentale e non ha il pericolo della negazione di cui tutti hanno paura. (Lorenzo Paoli, Programmati per perdere: Contro la grammatica della mediocrità, Roma, Lit Edizioni, 2019)

Segnaliamo infine alcune derive contemporanee: usi che paiono costituire un recupero del significato letterale di escape, in prima battuta non penetrato in italiano. Non mancano, negli ultimi anni, esempi di contesti in cui escapismo è confuso con escapologia, che indica invece quella “branca dell’illusionismo relativa alla capacità di liberarsi da vari tipi di costrizione (catene, funi, lucchetti, gabbie, bauli e sim.) spesso in combinazione tra loro” (Zingarelli 2020). Anch’esso adattamento dall’inglese, in questo caso della forma escapology, a sua volta formata grazie all’apposizione del suffisso -logy ‘-logia’ alla solita base escape, escapologia compare in italiano in anni più recenti rispetto a escapismo. Zingarelli lo lemmatizza per la prima volta nel 2011 datandolo 1992; la sezione “Neologismi” del sito Treccani ne riporta un’attestazione del 2007. Sui giornali escapologia compare quasi sempre in articoli che descrivono le attività di maghi e illusionisti (per esempio le gesta di Houdini), a volte con beneficio di estensione semantica, come negli esempi seguenti:

Siccome la popolare formuletta funziona benone, sono lieto di fornire ai lettori di Marziani altre tecniche di escapologia lessicale da utilizzare nella vostra vita di tutti i giorni.
«Cara, c’è un uomo nell’armadio». «E gli idraulici del Pd, invece?».
«Lei è in contravvenzione per divieto di sosta». «E il Pd che è immobile da quattro mesi, invece?».
«Questa omelia fa schifo».
«Perché, il Nazareno invece?».
«Ma che serata orrenda. Mai più un’uscita a coppie con te».
«Volevi uscire con Gentiloni, invece?».
«Ma che palle ’sto post di Grillo.
Mi sono addormentato al terzo rigo». «Perché i libri di Veltroni invece?».
«È morto nonno». «Perché il Pd invece?».  
(Luca Bottura, “Marziani”. Tecniche di escapologia lessicale per dimostrare che è tutto un magna magna “e comunque il Pd invece”, 18/6/2018)

Gianluca Massini Rosati è un "escapologo fiscale". Sul suo sito web spiega come, proprio grazie al suo corso di Escapologia Fiscale, abbia aiutato circa 15 mila imprenditori e professionisti a iniziare a risparmiare sulle tasse in modo onesto e legale. Ha scritto un libro con una grande casa editrice, è spesso sui canali televisivi nazionali. L'escapologia, in sostanza, è la capacità di un mago di liberarsi dalle costrizioni. Massini Rosati l'ha tradotta fiscalmente, e la scorsa settimana ha tenuto a Firenze una tappa del suo tour per rivelare gli stratagemmi, sempre nel pieno rispetto delle leggi, per vincere la burocrazia e non pagare più del dovuto. Sempre a Firenze, però, Gianluca Massini Rosati è anche imputato in un processo per truffa ai danni di un altro noto imprenditore. (Gerardo Adinolfi, Sotto accusa l’“escapologo fiscale”, “la Repubblica”, 24/5/2018)

Di nuovo, gli archivi dei quotidiani permettono di farsi un’idea dell’ampiezza dell’uso del termine (anche in questo caso, comprensibilmente, misurata: 42 attestazioni sulla “Repubblica”, 25 sulla “Stampa” – sommando le ricerche sui due archivi disponibili – e 10 sul “Corriere della Sera”) e di anticiparne la datazione al 1980 (in un articolo di Lucia Curino, Sanremo in balia dei “maghi”, “La Stampa”, 20/7/1980, p. 6). Per escapologia la ricerca sulle pagine italiane di Google restituisce 81.000 risultati, di cui 63.500 in cui essa ricorre nella stringa “escapologia fiscale”, di cui sopra abbiamo riportato un esempio.

Questo ultimo dato appare sintomatico di una mutata percezione dei parlanti: le parole che stiamo trattando evidentemente oggi appaiono, a chi le usa, appropriate per descrivere situazioni in cui si fugge da qualcosa di più o meno serio, si sparisce, si cercano, in generale, scappatoie. Nel contesto comunicativo attuale, in cui la base inglese comune alle nostre parole risulta a molti, se non trasparente, per lo meno familiare, è possibile coniare locuzioni come “escapologia fiscale” e aspettarsi di essere compresi.

Data la base comune, come dicevamo, il confine semantico tra escapismo ed escapologia risulta labile: può capitare, dunque, di imbattersi in usi di escapismo ed escapista in cui si parla, a rigore, di escapologia:

Il regista James Orr, per la ditta Walt Disney, ha preteso, tre anni fa di raccontarne la storia da un’altra angolazione: ossia mostrare come il figlio di un ungherese emigrato in America nel secolo scorso, ribelle alle costrizioni familiari, possa divenire un valente prestigiatore prima, poi un grande esperto di “escapismo”, l’arte di evadere, incatenato, da situazioni definite impossibili. (F.B., Ritratto di mago da cucciolo. “Il giovane Harry Houdini”, “Corriere della Sera”, 13/6/1990, p. 23)

I “Quattro Cavalieri”, moderni Robin Hood che in Now you see me (2013) rubavano ai ricchi per dare ai poveri utilizzando le più classiche delle illusioni, cartomagia, escapismo, prestidigitazione, mentalismo e ipnosi, dopo un anno di latitanza (braccati dall’Fbi), stanno per tornare. (Cecilia Bressanelli, Un po’ di magia per affrontare la realtà, “Corriere della Sera”, 3/6/2016, p. 39)

Non mancano gli esempi tratti dalla cultura pop: nel romanzo di Michael Chabon Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (The amazing adventures of Kavalier & Clay (2000) nasce l’Escapista, personaggio dei fumetti ispirato a Houdini, che diventa, nel libro e nel fumetto in seguito a lui dedicati, veicolo di una serie di metafore di fuga dalla realtà opprimente della guerra. La responsabilità della confusione non è del resto tutta italiana: in inglese il nome del personaggio è The Escapist.

Un’ultima curiosità: non è raro imbattersi, navigando in rete, in associazioni tra il sostantivo/aggettivo escapista e le esperienze ludiche dette “escape room”. Il gioco consiste nel riuscire a evadere da un luogo (reale o virtuale) nel quale si è stati rinchiusi e che è protetto da una serie di serrature, passando attraverso la risoluzione di fantasiosi rompicapi. Escapisti sono a volte chiamati i giocatori che si cimentano nell’esperienza, ed escapista o forma di escapismo è definito il gioco stesso; segnaliamo infine un blog (escapisti.blogspot.com) dedicato agli escapisti nel senso di “appassionati di escape room”. La ricerca per tutte le parole della sequenza “escapista escape room” restituisce 12.900 risultati sulle pagine italiane di Google, 5.370 per “escapismo escape room”, 5.130 per “escapisti escape room”. In questi contesti, l’escapismo è una tipologia di gioco ben precisa che attira una nicchia di appassionati capaci di dare una nuova vita all’uso delle parole escapismo e escapista. Per vedere se questa risemantizzazione, per ora legata a un fenomeno di costume, avrà fortuna, però, dobbiamo aspettare e osservare.

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